Confini [Howard]

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TW: dipendenza da farmaci

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Ad Howard Shapley Harsh piacevano i confini.

Gli piaceva l'idea semplice di una linea sottile a separare due mondi. Gli piaceva immaginare che potesse essere sottile all'infinito, ma mai abbastanza da non poterci correre sopra.

Gli piaceva giocare sui bordi da sempre. Ritrovarsi sospeso su una fine terra di nessuno intrappolata tra due fronti, indifferente ad entrambi come lo è il sole al tramonto, che è mezzo luce e mezzo tenebra, indeciso sulla soglia della notte.

Da bambino giocava sui bordi dei marciapiedi, impegnandosi, con la lingua incastrata tra i denti e gli occhiali in bilico sulla punta del naso, a rimanere in bilico lui stesso. Metteva con cura un piede dopo l'altro, contando silenziosamente i passi nella testa per non perdere la concentrazione. Questo, certo, prima di essere puntualmente strattonato per un braccio da zia Tanya[1] lontano dalla strada, perché "gli automobilisti non si fanno problemi a schiacciare i bambini stupidi, Ed".

Da grande, ad Howard piaceva giocare con i confini delle ombre della sua stanza. All'ora del tramonto, lasciava che la linea che separava il buio dal bagliore avvampato del cielo gli dividesse il volto il due. Mezzo luce e mezzo tenebra, come una stella incerta.

Gli piaceva giocare sui confini, senza il dovere di andare da una parte o dall'altra. Gli piaceva erigersi un rifugio di quiete sul crepuscolo, dove ogni cosa resta come dovrebbe, dove si è al sicuro senza appartenere a niente.

Ad Howard non piacevano gli estremi.

Zia Tanya viveva negli estremi, estranea al conforto che il nipote trovava nei toni di grigio. Howard conosceva gli estremi come un cane abbandonato per strada conosce la fame. Gli estremi facevano parte di lui, ma gli divoravano le viscere e gli rovistavano tra i pensieri senza tregua come un morbo pericoloso.

Gli estremi, fatti di pillole colorate che scivolano lungo la gola durante le notti affollate di estranei o del ticchettio severo di tacchi alti e di rimproveri schioccanti come punte di frusta, erano per Howard un terreno al contempo famigliare e sbagliato.

"Non farlo", gli aveva detto Tanya quando, almeno cinque anni prima, l'aveva trovato con il barattolo delle pasticche colorate in mano, curioso di sapere perché la zia tenesse caramelle nascoste in camera da letto. Gli occhi della donna erano schegge di ghiaccio e Howard, che aveva appena compiuto undici anni, era rimasto paralizzato.

"Howard, mettile giù" gli aveva intimato la zia, con voce talmente ferma che Howard se l'era sentita stoccare sulla pelle come uno schiaffo "Non si toccano le cose della zia, lo sai, non è vero?". C'era veleno misto a terrore, impresso in un'ombra vaga sul volto della donna, come se i suoi occhi stessero urlando e il resto del corpo fosse cosparso di brina. Era il bagliore sinistro di chi è inerme ed è pronto a mordere pur di dimostrare di non esserlo più.

Howard lo sapeva, che non si toccano le cose della zia.

L'aveva fatto lo stesso, però. Perché la zia rideva sempre, quando le mangiava.

Cosa c'era di sbagliato, nel voler provare qualcosa che ti fa sentire felice?

Ma Howard questo non l'aveva detto. Non poteva. E adesso sentiva quella felicità corrotta trasparire dalla plastica del barattolo fin dentro le ossa. La mano, stretta sul contenitore, aveva iniziato a tremare. Il ticchettio delle pillole l'una contro l'altra era simile al gorgoglio frenetico di ghiaia rimescolata dalla pioggia.

"Howard. Adesso. Lasciale".

Urgenza. Minaccia. Esile preludio alle grida.

Era stato allora che Howard era scoppiato a piangere. Aveva gettato il barattolo a terra come se improvvisamente scottasse e il coperchio si era staccato, in un'esplosione cangiante di perle colorate che aveva inondato il pavimento come lo scroscio incontrollabile di grandine rovesciata sulle strade.

Il tempo di un respiro [OCs - Oneshots - Raccolta]Tahanan ng mga kuwento. Tumuklas ngayon