Capitolo 12 - La foresta

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Inforco la bici e mi getto nella foresta.

Fuggo – certo! - dalla tensione, dai troppi pensieri, dalle preoccupazioni.

Il telaio è costruito con pezzi di scarto provenienti da un pianeta mai così lontano, sagomato dalle mani riconoscenti di coloro cui la seconda possibilità non la getteranno al vento. Di trancia e martello; menando botte, colpi pesanti. Precisi. Nel punto esatto da piegare il materiale forte. Sono in sella alla grandezza di un'ultima vita spendibile.

La superficie esterna non è liscia. Nei punti di unione, accanto ai rivetti pinatnati a forza si formano linee, talvolta arabeschi, sagomati tali e quali il destino sul cuoio delle mani degli artigiani costruttori. Chiamarli artigiani poi mi sembra riduttivo. Sono studiosi di interiorità. Ricercatori di ogni martellata, di ogni menata di trancia, dimostratori forse del punto più alto della propria arte? Appassionati? Forse l'assoluto dentro?

Ed io chi sono?

Questa sarebbe forse la domanda a cui vorrei rispondere, se non fossi nel pieno di una fuga.

La foresta. Gli alberi e le felci. I rami sinuosi. I tronchi ficcati nel profondo. Gli strepiti selvatici di cui aver timore. Il fresco odore nauseabondo dell'espressione naturale.

Dove mi sto dirigendo?

Magari voglio semplicemente raggiungere il limitare e sbattere contro la cupola, laddove la parete curva si pianta nelle viscere del pianeta rosso. Forse il sogno di potenza è quello di infrangere lo spessore in vetro ed andare oltre? Verso l'infinito degli spazi ignoti?

Al posto di chiedermi, rattrappisco il pensiero alla  sufficienza del Sarebbe stato ma non può più essere. Riduco la divaricazione. Mi risolvo insomma piccolo e mediocre.

Per questo fuggo. Fuggo da tutto questo me stesso di cui vorrei non rivendicare la paternità.

La giungla certo mi aiuta. E' prorompente, rigogliosa, calda, volitiva. Riesce ad inquinarmi, a distogliermi e la prima illusione è quella di risolvere il dibattimento che mi scompiglia dentro.

Non c'è salvezza, non c'è distruzione, neppure la consapevolezza della redenzione. In effetti solo il mulinare frenetico di cosce e polpacci, la pompa che dai pori getta fuori polpa e pelle e sudore, la maglietta bagnata sono le uniche percezioni che mi tengono ancora qui; cosce strette attorno ad un sellino troppo largo e troppo in alto.

Dovrei accorgermi del vento tra i capelli, delle foglie e dei rami che sbattono e crepitano, dei graffi e dei colpi di alcuni altri meno indulgenti. Dovrei persino accorgermi degli animali cui sfreccio accanto, delle larghe schiene pelose, dei giganteschi culoni corazzati, dei più piccoli ed indifesi che travolgo senza curarmene.

Sono solo. O meglio: mi ritrovo solo. Pensare alle mani che hanno tentato, al rispettoso filamento civile dei ragionevoli, agli sguardi imploranti dei tanti che hanno cercato di immedesimarsi in me, a tutti gli altri che hanno provato a fermarmi al principio di questa folle corsa, provoca in me una lontananza inspiegabile.

Non sono da salvare. Non ho un nemico.

Ho forse solo un grande dubbio?

E questa fuga è un tentativo per dare una risposta?

Volgo al termine di una radura con il martellare del cuore ad una frequenza preoccupante. La strada in terra battuta si ficca sotto un muro di foglie e liane e poi scompare.

Nella speranza di impigliarmi e di crollare a terra - producendomi il dolore necessario per risvegliarmi da questo sogno lucido -, mi getto a braccia alzate contro tutto quel verde, aspettando il compiere del mio destino.

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