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Primo giorno di scuola, come sempre, ecco il fantomatico ritardo. Svegliata tardi? No! Passato troppo tempo davanti allo specchio del bagno? No! Perso il pullman? NO!

Mi sono persa io! Per questa dannata, immensa, straniera città.

Corro per le strade con la mia nuova uniforme, il mio zainetto con le bretelle messe male e i fogli in mano svolazzanti, la  modulistica per l'iscrizione nella nuova scuola.

La gonna svolazza di qua e di là, non voglio sapere se le mutandine si notano, le calze, che dovrebbero coprire fino al ginocchio, continuano a scivolare e non parliamo delle scarpe! Scomodissime. Anche i capelli non stanno contribuendo a darmi un'aria abbastanza pulita. Sembro un pitbull malformato a causa delle continue lotte clandestine.

Bella immagine, non è vero?

Raggiungo il cancello della scuola che ha come compito quello di circondare il grande giardino in cui è stata costruita la scuola. Le scale che conducono all'ingresso dell'edificio sono così lontane.

Mi lascio cadere lungo i fianchi le braccia, facendo una smorfia di disperazione.

Non riesco neppure a sentirmi spaesata e diversa.

Molti  occhi sono puntati su di me, un po' per la curiosità e forse anche un po' per disprezzo. Il mondo è paese.

Mi dirigo a passo svelto verso l'ingresso e salgo la rampa di scale a cui dovrò abituarmi per tutto l'anno.

Spero che questa "maledizione di trasferimento" finisca presto.

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Una donna piccolina, con i classici tratti coreani: nasino piccolo, occhi a mandorla marroni, statura bassa, capelli neri tagliati a caschetto, vestiti semplici - camicia e jeans - e aria nervosa, mi accompagna per un lungo corridoio immerso da armadietti e alunni.

Parla veloce e pure la sua lingua, non ci capisco niente. Non riesco a prestare attenzione né a lei e neppure a dove sto mettendo i piedi, continuando a dare spallate ad altre studentesse e studenti.

Raggiungiamo quello che probabilmente sarà il mio armadietto.

- Come farò a riconoscerlo? - chiedo preoccupata alla segretaria, dando una rapida occhiata a tutti gli armadietti che abbiamo superato, per farle   riprendere fiato.

Ma la donna parte come un treno, spiegandomi, sempre in coreano, qualcosa che non riesco a capire. Poi mi dà un foglietto bianco.

- Yo code. - dice proprio così.

(in tutto ciò io parlo inglese, male ma lo parlo)

Poi se ne va.

Resto lì, ferma, con quel foglietto in mano scritto in caratteri coreani, niente di meno.

La mia faccia è stravolta, disperata. Mi guardo attorno nella speranza di chiedere a qualcuno, ma mi sembrano tutti così cattivi e... uguali.

Imparerò mai ad adattarmi a questo posto?

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Entro in classe. I banchi sono singoli e piccoli, le finestre enormi, le porte scorrevoli e a vetrate. Ci sono due ingressi.

Alcuni alunni sono in piedi che parlano, altri seduti. Le ragazze sono minute, dai capelli neri lunghi, gli occhi piccoli e dolci, le labbra sottili. C'è chi è un po' più carina e chi no, come anche i ragazzi, che rispetto a quelli italiani, sembrano dei bambini.

Italian girl in a Korean schoolWo Geschichten leben. Entdecke jetzt