Capitolo 1

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Quanto è grande l'universo?
Perché esistiamo?
Cosa c'è oltre la morte?

L'umanità si è sempre posta queste domande dall'origine dei tempi, sono domande normali, insite nell'uomo da quando è nato;
di conseguenza, anche io tendevo a pormele spesso, mi piaceva rifletterci su specialmente durante le ore di lezione.

Certe volte mi capitava anche di pensare ad alta voce, magari davanti ai miei genitori e la risposta che mi sentivo dare da loro era pressoché sempre la stessa: "Mathilda, hai 8 anni, pensa a giocare con le bambole";
oppure con "ogni cosa ha il suo tempo»"
o ancora con "sei troppo piccola per certi argomenti".

Avrei tanto voluto che mi capissero.

E se i miei genitori rifiutavano categoricamente di ascoltare i miei discorsi a parer loro "troppo grandi per me", i miei amici di classe ci provavano, alcuni anche aguzzando lo sguardo tentando di capire più a fondo il senso delle mie teorie, ma il tutto finiva sempre in un monotono soliloquio tra me e me, poiché gli altri non sembravano capirmi.

L'unico che si avvicinava bene o male a capire e addirittura riuscire a dialogare con me riguardo ciò che avevo da dire è Roger.
Credo possa definirlo il mio migliore amico, anche se classificare le amicizie è una cosa che non mi è mai piaciuta tanto fare.

Sentivo spesso le mie compagne di classe denominare le proprie amicizie nei modi più strani e sdolcinati possibili: amica del cuore, amica per la pelle e chi più ne ha più ne metta;
mi venivano i brividi ogni volta.

Per me un "amico" era una persona che provava piacere nell'ascoltarmi e nel dedicare del tempo a me, dato che a casa generalmente non lo faceva nessuno.

Il migliore amico era un di più: era quella persona che riusciva a cancellare il peso dell'avere una classe intera che mi percepiva come fuori dal normale, solo con un abbraccio o un "hai qualcosa di nuovo da raccontarmi oggi?", mostrandosi interessato e non sbalordito come se tutto ciò fosse stato strano.

Io e Roger ci siamo conosciuti due anni prima degli eventi che sto raccontando ora, in prima elementare.
Siamo capitati nella stessa classe, provenienti da due scuole diverse, e abbiamo iniziato a parlare per un motivo parecchio divertente: notammo di aver entrambi gli occhi verdi.

Da lì è cominciato un continuo scambio di domande su quale fosse il mio o il suo gioco preferito, o su quale animale domestico mi avrebbe fatto piacere avere e così via.

Ricordo come fosse ieri che quel giorno aveva i capelli quasi troppo ordinati: il ciuffo castano gli scendeva diagonalmente sulla fronte in maniera precisissima e gliene copriva metà, lasciando spazio agli occhi e al visino pallido e magrolino.

Io ero un po' meno sistemata di lui dato che mamma aveva avuto solo il tempo di raccogliere i miei capelli biondi in una treccia che mi aveva poggiato sulla spalla destra, a causa del lavoro che l'ha sapere tenuta impegnata sin dalla mattina presto.

***

Quel giorno era un classico lunedì di febbraio come tanti qui a Francoforte: c'era la neve per le strade, un po' di nebbia nel cielo e mandrie di bambini come me pronti ad affrontare un altro noiosissimo giorno di scuola.

Quella mattina mi ha accompagnata mio padre.

Abbiamo percorso tutto il tragitto intonando la nostra canzone preferita "All I Need" dei Radiohead, mentre io cercavo di tirar fuori dalla bocca quanto più fumo possibile per il freddo che faceva.

Arrivai in classe con passo pesante e assonnato e mi sedetti al mio posto, lì al secondo banco a partire dall'ultima fila, nella colonna di destra.

Sistemai il mio zaino delle Winx sullo schienale della sedia e mi poggiai con i gomiti sul banco e le mani a sorreggere la faccia.

Dopo qualche minuto di contemplazione della mia stessa aula, varcò la soglia della porta Kerstin, la bambina seduta nel banco davanti al mio, sicuramente con fare più deciso e invogliato del mio nel venire a scuola;

«Ciao Mathi! Per caso hai fatto quegli esercizi di matematica che la maestra aveva assegnato per oggi?» mi chiese con fare spavaldo.

Come se non capitasse tutti i giorni che la gente mi chiedesse di far copiare compiti e assegni vari.
Dopo un po' scocciava, ma mi è sempre sembrato scortese respingere ogni richiesta di aiuto, anche perché io non ci perdevo nulla.

Non ci mettevo nulla a fare degli stupidi esercizi come quelli, avrei potuto rifarne mille volendo.

«Sì, vuoi...»

Venni interrotta senza neanche finire la frase dal suo annuire.
Tirai fuori dallo zaino il quaderno di matematica e glielo porsi.

«Grazie» rispose con un sorriso rigirandosi verso il suo banco.

Ero abituata, nonostante ciò fosse diventato sempre più stancate nel corso degli anni.
Ormai era la normalità distribuire compiti già fatti a metà della classe e la cosa più simpatica era che le maestre sembravano essere tutte d'accordo con questa pratica a mio parere insensata ed estenuante.

Cosa ci ricavavano gli altri?
Perché proprio da me lo volevano?

Mi ha sempre infastidito che proprio le maestre non abbiano mai fatto nulla per contrastare tutto ciò, ma anzi abbiano invogliato gli altri a prendere spunto da ciò che facessi io;
non intendo semplicemente "ciò che facessi io", ma TUTTO ciò che facessi io, a partire dalle cose più semplici come star seduti composti su una sedia a quelle più complicate come scrivere un tema in modo corretto.

One Hundred and Thirty-fiveWhere stories live. Discover now