Capitolo undicesimo

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La mattina successiva mi svegliai con una forte emicrania e feci una gran fatica ad alzarmi dal letto; se avessi potuto, avrei volentieri evitato di andare al lavoro quel giorno.

Non avevo fatto altro che girarmi e rigirarmi tutta la notte a causa di quel dannato dolore alla nuca, che mi aveva dato il tormento;era diventato più intenso col passare degli anni ma mai prima di quel momento, mi aveva impedito quasi del tutto di dormire.

Andai in cucina ed estrassi da un mensola un pacco di potenti antidolorifici, che mi avrebbero aiutata ad attenuare il mal di testa. Poggiai sulla lingua due pasticche e bevvi un bicchiere d'acqua per aiutarmi a deglutire.

Nel giro di pochi minuti, il mal di testa si attenuò ed io iniziai a prepararmi per affrontare un'altra giornata di lavoro.

Percorsi lentamente la strada che mi avrebbe condotta alla bottega, continuando di tanto in tanto a massaggiarmi la nuca che era rimasta indolenzita.

Mentre camminavo, udii un gran fracasso provenire dal negozio di ferramenta di Joe.

Aumentai l'andatura fino a raggiungere il negozio:

«Joe, che succede?»Chiesi preoccupata.

«Quel maledetto! È scappato! Se n'è andato senza dirmi nulla e mi ha lasciato nella merda! Lo sapevo che non potevo fidarmi di quel ragazzino.» Era paonazzo e la voce gli si era strozzata in gola, tanto forte aveva urlato.

Rimasi in silenzio.

«Tu per caso sai qualcosa, Catherine?» Quando il suo sguardo si posò su di me, avvertii tutto il suo odio.

«Perché dovrei sapere qualcosa?» Domandai, cercando di mostrarmi sicura di ciò che stavo dicendo.

Joe si avvicinò a me:«Perché tu hai un rapporto morboso con quel ragazzo.»

Sbuffai esasperata:

«Si chiama amicizia, Joe. Gli voglio bene ma questo non significa che conosca tutto di lui.»

Joe mi guardò con fare inquisitorio;non sembrava convinto ma suppongo che fosse preferibile fare finta di credermi in quel momento.

Feci per andarmene ma poi mi fermai:

«Sono certa che troverai un altro assistente.»

Joe non rispose.

Quando uscii dal negozio, corsi verso la bottega e una volta entrata controllai che fosse tutto in ordine; Fionn e Thomas non avevano lasciato alcuna traccia di loro.

All'interno dello sgabuzzino però,notai che, nascoste in angolino, vi fossero due polaroid e una lettera tutta stropicciata che sembrava essere stata scritta molto velocemente.

Le due polaroid mostravano Fionn e Thomas sdraiati a pancia in giù coperti da un lenzuolo bianco;si stavano baciando. Nonostante fossero leggermente sfuocate erano riuscite ad immortalare alla perfezione quel momento.

Quasi mi commossi alla vista di quelle foto.

La mia attenzione poi si spostò sulla lettera: "Grazie di tutto Cathy. Non so cosa avremmo fatto senza di te. Spero che tu possa trovare la forza di lasciare quel posto ed iniziare a vivere la vita che meriti. Sai dove trovarci. Ti aspetterò qui. Ti voglio bene anche io vecchietta. Fionn".

Strinsi forte a me le polaroid e la lettera e poi, nascosi tutto nella tasca interna del mio cappotto.

Trascorse una settimana, che ricorderò per sempre come una delle più difficili della mia vita. L'assenza di Fionn mi pesò più di quanto avessi immaginato inizialmente e nonostante fossi felice di saperlo lontano e al sicuro, una parte di me avrebbe voluto riaverlo accanto.

In particolar modo, il peso della sua lontananza mi si poggiò sulle spalle come un grosso macigno il giorno in cui dovetti operare Cassidy; sapere che dopo aver portato a termine quell'intervento così delicato non ci sarebbe stato nessuno pronto ad aiutarmi a dimenticare quella giornata, mi faceva stare male.

Rimproverai me stessa per aver avuto pensieri tanto egoisti.

Era un venerdì mattina quando la signora Moreau e sua figlia Cassidy, entrarono nella mia bottega.

La signora Moreau era una donna di circa quarant'anni, con corti capelli castani che le stavano dritti sulla testa e minuscoli occhi di un pallido verde. Lavorava come agente immobiliare e quel giorno era venuta alla bottega indossando la sua divisa da lavoro.

«Dovrebbe sistemare questo posto, signorina. Non paghiamo fior fior di quattrini per far operare i nostri figli in una topaia.» Disse, sputacchiando in giro.

Il suo alito puzzava disgustosamente di sigaretta.

«Ad ogni modo»Proseguì«Sa già cosa deve fare, quindi non perdiamo altro tempo.»

Cassidy se ne stava in silenzio appoggiata al tavolo operatorio;tremava come una foglia.

«Andrà tutto bene.» Dissi, cercando di aiutarla a salire sul tavolo ma lei si oppose:«No! Non voglio!» Urlò e tentò di scappare.

«Cassidy! Cassidy ti prego, ascoltami! Ascoltami!» L'afferrai per le spalle, costringendola a guardarmi negli occhi: «Mi dispiace. Devo farlo.»

Cassidy smise di lottare; i suoi occhi erano colmi di lacrime. Non mi dimenticherò mai il suo sguardo.

«Tu sei come loro.»Dopo aver pronunciato quelle parole, salì sul tavolo da sola e si stese, aspettando di essere operata.

Quelle parole mi ferirono profondamente.

Mi avvicinai, tenendo la siringa con l'anestetico già pronto ma ecco che Cassidy,inaspettatamente, ricominciò a lottare. Scalciò e tentò di fuggire di nuovo. Fui costretta a legarla dopo aver ricevuto un morso sul dorso della mano che mi lasciò il segno per giorni;la cosa che mi disgustò ulteriormente,fu la totale indifferenza della signora Moreau che rimase immobile a fumare,mentre sua figlia lottava per la sua libertà.

«Vede? È necessario. Con un cuore nuovo, questa sua voglia di ribellarsi sarà solo un lontano ricordo.»

Il cuore di Cassidy brillava di un rosso accecante; un modello H.

I cuori modello H erano rari, molto rari; appartenevano agli impavidi, agli onesti e a coloro che non avevano timore di sacrificarsi pur di aiutare il prossimo.

E adesso eccolo quel cuore, riposto in una piccola scatola marrone e destinato a giacere lì, per sempre. Dopo pochi istanti smise di pulsare e la sua luce si affievolì lentamente.

Oggi, nel petto di Cassidy, batte un cuore modello P, il cuore dei superbi e degli egoisti.

A fine giornata, dopo aver chiuso la bottega, decisi di andare a casa e di rimandare la pulizia degli attrezzi da lavoro, al giorno successivo. Ero esausta e non avevo voglia di trattenermi ulteriormente alla bottega ma,poco prima che potessi uscire, il telefono squillò. Sbuffai all'idea di dover perdere altro tempo ma decisi ugualmente di rispondere.

<<Bottega Hutchinson,come posso esserle utile?>> Chiesi,mentre giocherellavo con il cavo del telefono.

<<Signorina Hutchinson,sono Sam Doyle. La contatto perché vorrei parlarle di mio figlio con una certa urgenza. Verrò domani mattina alle otto in punto alla sua bottega.>>

"Il padre di Fionn? Merda!"

<<Signore,non vorrei sembrarle scortese ma di solito apro alle nove.>> Risposi gentilmente.

L'uomo insistette imperterrito:<<Conosco bene gli orari della sua bottega,signorina,ma gradirei parlare con lei in totale tranquillità,senza essere disturbato da altri clienti.>>

Non so ancora cosa mi spinse ad acconsentire a quell'assurda richiesta,forse solo l'eccessiva stanchezza e la necessità di andare a casa a riposare.

<<Va bene,signor Doyle. Ci vediamo domani mattina alle otto.>> Risposi.

<<Perfetto Signorina,la ringrazio. Buonanotte.>> Disse l'uomo,per poi attaccarmi il telefono in faccia.


La bottega dei bambini rottiWhere stories live. Discover now