Capitolo nove: La Funambola e il Piromante

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Dystòpia, Kronen
Palazzo dei Sogni

Nel cuore di Kronen sorgeva maestoso il Palazzo dei sogni, il luogo in cui gli antichi nativi terrestri vivevano circondati dai propri cari. Era un edificio dall'aspetto colorato e fiabesco, caratteristiche che cozzavano con l'architettura moderna della città. Le piccole tegole laccate in turchino ricordavano le squame di un drago, mentre la superficie della facciata era decorata con incantevoli mosaici dai mille colori. Sulla porta di ingresso una scritta accoglieva i visitatori: "I sogni derivano dai ricordi„

Appena Nina aprì gli occhi riconobbe subito il soffitto del letto a baldacchino e capì di trovarsi nella propria camera, al piano intermedio del Palazzo. Balzò in piedi come una molla, quasi inciampando nel groviglio di coperte, e si guardò intorno.
Ci mise qualche secondo per ricollegare tutti i ricordi.

«Che cosa ho fatto?» mormorò in un fil di voce, portandosi una mano tremante al viso «Che cosa ho fatto?»

Sentiva ancora la sensazione del fuoco sulla pelle, l'energia vibrante sprigionata dal corpo e la terra che si sgretolava sotto i suoi piedi. Poi il buio assoluto.
Fu assalita da un turbinio di paure e dovette sostenersi alla colonnina del letto per non accasciarsi sul pavimento. Nelle profondità del Tempio di Raimè era riuscita miracolosamente a sopravvivere, ma il suo corpo era stato contaminato da qualcosa di maledetto. Senza volerlo, si era macchiata di una colpa che andava ben oltre il peccato religioso o la semplice superstizione. Nella galassia di Shunna Ra'a, chiunque si adoperasse di arti oscure veniva tacciato come traditore, una minaccia per la specie vivente.
Tale reato portava a un'irremovibile e univoca decisione: la pena di morte.

Nina scoppiò in un pianto disperato, riempendo la stanza di forti singhiozzi.

Poi si voltò verso la specchiera, incontrando il suo stesso sguardo. Sembrava un animale impaurito, aggrappata al letto, con gli occhi rossi sbarrati e una capigliatura selvaggia. Il viso pallido rigato dalle lacrime.

Provò un senso di disprezzo per sé stessa. Lei non era questo. Né una bestia né una minaccia. Una sciocca, forse sì.

Si rialzò, asciugandosi gli occhi.
No, non era giusto. Si trattava di un enorme malinteso. Non era mai stata sua intenzione appropriarsi di quei poteri, e quindi, non poteva essere condannata a causa di un incidente, giusto?
Rimuginò qualche attimo, mordicchiandosi le unghie. Sebbene cercasse di autoconvincersi continuava a non esserne così sicura, ma decise che in un modo o nell'altro sarebbe uscita da quella situazione.

Proprio in quel momento udì un leggero vociare da dietro la porta e pochi attimi dopo il pomello di ottone roteò. Nina si fiondò tra i cassetti dell'armadio alla ricerca di qualche accessorio per coprire la mutazione degli occhi e, quando trovò un paio di occhiali dalle lenti scure, li indossò.
Girandosi vide suo nonno, a pochi passi di distanza, che le rivolgeva uno sguardo carico di sollievo e affetto.

«Bambina mia, ti sei svegliata.» esclamò abbracciandola impetuosamente. Le schioccò una serie di baci rumorosi tra i capelli facendole solletico con la barba ispida e le rivolse un sorriso gioioso. Aveva la faccia increspata da rughe e le palpebre cadenti riducevano gli occhi a due piccole fessure blu. Il peso degli anni aveva incurvato la sua schiena e costretto a spostarsi con l'ausilio di un bastone.

«Sono ore e ore che dormi, come ti senti? Aspetta, vado a chiamare qualcuno.»

«Baba, sto bene» disse trattenendolo per il gomito ossuto. «Dammi solo un attimo, possiamo parlare?»

L'anziano osservò il volto della nipote e, anche se non parve molto convinto, accantonò l'idea di avvertire l'intera residenza del suo risveglio. Andò a sedersi sul bordo del letto.
«Cos'hanno i tuoi occhi?»
«Oh, è per questi?» chiese lei, aggiustandosi la montatura sul naso. «Sono un po'irritati, li terrò al riparo dalla luce per un po'. Ma ora ti prego, parlami dei miei compagni, come stanno?»

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