Capitolo 4 - Alleanze

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Il cortile del Palazzo di Giustizia era un via vai di postini, autisti e lacchè; i cancelli che lo recintavano erano alti lo proteggevano fin troppo dagli occhi dei curiosi. A quell'ora così giovane, lo animavano solo i sibili delle cesoie, i passi delle domestiche e, al massimo, il motore di qualche automobile. Quella di Armida sostava a pochi metri dall'ingresso principale: la portiera aperta e l'autista pronto.
«Sono in ritardo e non mi piace. Vedi di far correre quest'affare», sbuffò lei, prima di accomodarsi a bordo.
«Subito, Madame», con gli occhi di Armida addosso, l'autista si precipitò al posto di guida con così tanta foga, che il piede gli scivolò dalla frizione e la macchina si spense in un sussulto.
Armida imprecò, «Cosa devo fare per avere un po' di collaborazione?», aggiunse, prima di sfilarsi gli occhiali e lanciarglieli contro. «Parti!»
«Chiedo scusa, Madame», tentò di giustificarsi il ragazzo, carico di mortificazione. Premette nuovamente il bottone e al secondo tentativo il motore si riaccese. Costeggiarono la piazza del tempio, dove un numero notevole di fedeli stava portando ai piedi delle statue degli dei fiori che richiamavano nei loro colori quello delle vesti sacre.
I tessuti che rivestivano le divinità seguivano il passare delle stagioni e il viola, ad esempio, era associato all'arrivo delle prugne nei campi e all'inizio dell'autunno.
La tradizionale festa del raccolto era ormai alle porte e, giorno dopo giorno, sempre più decorazioni avrebbero arricchito la città per celebrare l'abbondanza e i cittadini che finanziariamente l'avevano sostenuta.
La festa durava a lungo e, sia in apertura che in chiusura, veniva onorata con baldorie di ogni tipo. I nobili davano ricevimenti esclusivi nei loro palazzi e anche la borghesia prediligeva i pochi intimi, mentre i reietti invece potevano solo richiedere due ore libere dal servizio per recarsi al tempio a pregare. Armida non era una grande sostenitrice di quell'evento: non sopportava la mancanza di armonia tra le cose e il colore viola stonava terribilmente con i mattoni verdognoli del tempio.
Irritata, si voltò dall'altro lato, dove un gruppo di seminaristi era impegnato ad appendere rami di prugnolo selvatico ai lampioni – anche questi verdi - con del nastro lilla.
Sospirò con arrendevolezza, strizzando gli occhi tra le dita. «Tu con quello stupido cappello, ripassami gli occhiali.»
Anna Ranieri era seduta nel suo studio a mangiucchiarsi le unghie. Odiava aspettare, ma ancora di più detestava sentirsi in ansia, perché l'ansia faceva venire le rughe e il suo viso sembrava già una crespella.
Aveva bisogno di un tè e di sgranchirsi le gambe, così, anziché chiamare la sua assistente, si alzò e la raggiunse nella stanza accanto.
«Giorgia, un tè verde aromatizzato al fiore di Jasmine con un goccio di miele e latte freddo a parte», l'occhio le cadde su degli scatoloni impilati dietro la scrivania. «E per l'amor del cielo, sistema quelle decorazioni», grugnì, indicando la finestra. «Non abbiamo speso una fortuna per fare la figura dei poveracci. Tutta la strada è stata...», si interruppe di colpo quando una donna statuaria comparve sulla soglia.
Ancora appoggiata alla maniglia, Armida sorrise a una Anna visibilmente intimidita dalla sua presenza.
«Mia Signora», Giorgia si alzò di scatto, facendo strusciare la sedia sul pavimento.
Anna cercò di ricomporsi, impettendosi nel suo tailleur bianco. «Governatrice Armida, benvenuta», chinò appena il capo in avanti e la raggiunse. «È un onore avervi qui, prego», le indicò il suo ufficio. «Gradite un tè?»
«Anna Orlandi, oh, Contessa Ranieri, ormai», sogghignò. «Sono passati tanti anni, ma vi ricordo sempre così: la prima degli Orlandi a darsi al mondo legale», si guardò attorno con minuziosa attenzione, dopodiché annuì, arricciando le labbra. «E ne avete fatta di strada a giudicare dai pezzi unici che vedo in questa stanza. Buon per voi.»
Anna era rimasta impalata a vegliare i suoi spazi: conosceva abbastanza bene Armida, ma non sapeva mai come rispondere a tutta quella disinvoltura. Se fosse stata lei al potere, di sicuro avrebbe mantenuto un portamento più distaccato.
Anna era ricca e aveva una posizione sociale di rilievo, ma di fatto restava una tra tanti, mentre la sua rivale stringeva il mondo sotto le sue unghie nere...Più del potere però, il cavillo che torturava Anna era l'aspetto di Armida: una donna bellissima, sensuale e sicura di sé, mentre lei invece invecchiava ogni secondo di più, impacciata nella sua mediocrità.
Armida la risvegliò dai suoi pensieri, riprendendo la conversazione di convenienza. «Oh, comunque no, niente tè per me», seguì l'invitò dell'avvocatessa e, prima che questa chiudesse la porta, si voltò verso l'assistente a indice alzato. «Andrà bene un frullato ai frutti rossi» poi si accomodò alla scrivania.
Anna prese un respiro silenzioso: di solito, rinchiudere le sue emozioni in una scatola immaginaria la faceva sentiva subito meglio... Non quella volta.
Si aggiustò per l'ennesima volta la giacca e, solcando i sontuosi tappeti persiani, si mise a sedere. Armida le stava dinanzi con uno sguardo apparentemente amichevole, ma Anna sapeva bene che stava solo aspettando il momento opportuno per colpire.
La governatrice non ruppe il silenzio e si compiacque del fatto che la Ranieri riuscisse a guardarla negli occhi con tanta sfrontatezza: Anna giocava con i cattivi, aveva già avuto modo di sperimentarlo in passato, ed era più che sicura che neanche quella volta l'avrebbe delusa.
In bella vista davanti a lei c'era un orologio intarsiato a mano, solo allora si rese conto di quanto fosse in ritardo. «Oh, fulmini del cielo, devo proprio chiedervi scusa», sibilò, mentre apriva la borsa e si metteva in bocca una gomma da masticare. «Non mi ero accorta di quanto tempo il mio stupido autista mi avesse fatto perdere: dannate automobili, abbiamo mai avuto niente di più dispendioso e inaffidabile?» esordì, gesticolando e quasi colpendo in pieno l'assistente, appena entrata con un vassoio tra le mani.
«Per quanto mi trovi d'accordo con voi», replicò Anna, concentrata a versare il latte nel suo tè. «Devo ammettere che in molte occasioni sono di grande utilità, soprattutto con questo caldo: camminare sotto il sole, o peggio, con il puzzo dei cavalli per noi signore non è il massimo», le sorrise, fiera del suo touché.
«Sicuro, oggigiorno la tecnologia corre come il vento e a noi tocca fare da cavie», si strinse nelle spalle. «Mi chiedo se il limite di due auto a famiglia sia stato una buona idea...», racchiuse la gomma in un fazzoletto e si avventò ancora sul frullato. «Ultimamente mi arrivano parecchie voci di malcontento da parte dei nobili, sapete?», sul suo viso comparve la caricatura di un'espressione sconsolata.
In quelle parole l'avvocatessa lesse una strana sfumatura e, d'istinto, si mise sull'attenti.
«Che sciocchezza», Anna distolse lo sguardo, bevendo un sorso di tè. «Dobbiamo pur mantenere pulita l'aria che respiriamo e sono convinta che i miei amici non avrebbero nulla da obiettare a tal proposito.»
Armida alzò l'indice in approvazione, «Amici! Ecco, Anna, voi sì che siete una famiglia dalla vita sociale attiva. Ne avete molti, vero?», non attese una risposta e continuò: «Partecipo sempre con piacere ai ricevimenti che date in quel meraviglioso palazzo... Apparteneva alla famiglia di vostro marito, o sbaglio?», sollevò una targa d'oro dalla scrivania e strinse gli occhi in due fessure, come se non riuscisse bene a mettere a fuoco.
"Contessa Anna Ranieri di Cremgaradél - Avvocato", c'era scritto.
«Sì, fu fatto costruire dal padre di mio suocero, il giudice Giovanni Ranieri che, come voi ben sapete, è stato un fedele servitore della città»,quell'ultima affermazione l'aveva resa inquieta. Non ci mise molto a collegare i diversi punti tra loro e, in un lampo, capì di essere caduta al centro della ragnatela di
Armida senza nemmeno accorgersene.
«Esatto! E poco prima che sposaste vostro marito, vostro padre si accollò le spese di ristrutturazione per omaggiare la stirpe dei Ranieri, che, grazie a voi, avrebbe portato prestigio agli Orlandi», si morse il labbro in un ghigno malefico. «Ma fu vostro fratello Tobia a dare il contributo maggiore, vero?» Le nocche di Anna stritolarono i braccioli della sedia. Una rabbia selvaggia le montò in petto, ma cedere alle provocazioni di quella donna significava lasciarla vincere.
Deglutì, «La nostra famiglia ha già saldato quel debito anni fa e a caro prezzo. Noi tutti siamo fedeli alla città, lo sapete molto bene.»
«Beh, i Ranieri sono da sempre il fiore all'occhiello di Cremgaradél. Sono così... Quieti», confessò con una punta di fastidio. «Dediti alle professioni nobili, ligi alle regole, devoti fedeli degli dei e ricchi benefattori», schioccò la lingua. «Dei veri purosangue, non c'è che dire», Armida si protese verso la sua interlocutrice. «Ma siete voi ciò di cui ho bisogno, Anna. Una donna algida con il naso per le opportunità... Una donna che non ha esitato a consegnare suo fratello alla giustizia, quando ha scoperto che era un ribelle», affilò con la voce quelle ultime parole, rendendole ancora più taglienti. «Tobia era pronto a minare l'intera sicurezza della città per uno stupido ideale, ma, fortunatamente per noi, voi lo scopriste», le sorrise teneramente. «Fingendo di appoggiare la sua causa vi faceste raccontare ogni particolare: chi era coinvolto, dove si nascondevano, cosa avevano in mente... Poi veniste da me», Armida le prese le mani nelle sue con fare affettuoso, ma Anna non riusciva più a guardarla negli occhi. Si era persa nel passato, nel terrore sul volto di Tobia mentre veniva portato via, nelle maledizioni che le avevano trafitto il petto... Quante lacrime quella notte avevano nutrito il suo giardino, ma Anna non avrebbe mai potuto perdonare il suo tradimento.
«Credetemi, avrei tanto voluto poter premiare la vostra lealtà», riprese Armida con disinvoltura. «Ma permettere agli Orlandi di mantenere il loro status sociale è stato già un grosso strappo alle regole: mantenere lo stato di perfezione è un compito gravoso, Anna, e perciò capirete che ogni volta che il consiglio trova un traditore, zac!», simulò le forbici con le dita. «Sradica tutta la pianta prima che altri rami marciscano. Quindi», riafferrò la cannuccia tra le labbra imbrillantinate e succhiò le ultime gocce. «Diciamo che sacrificare vostro fratello non è stato poi così inutile. Insomma, guardate dove siete arrivata adesso: una carriera, una casa fantastica, una famiglia da copertina...»
«Cosa volete da me?», Anna la interruppe con più irruenza di quanto avrebbe voluto. Non ne poteva più, aveva bisogno d'aria fresca.
Armida restò a fissare l'avvocatessa per qualche minuto, tamburellando con le unghie sulla targa, finché l'afferrò e la rigirò a faccia in giù. «Ho bisogno di nuovo di Anna Orlandi», abbassò la voce. «In città ci sono strani movimenti, chiacchiere anticonformiste. Non si tratta più solo dei reietti: questi agitatori si muovono tra i nostri giovani, li invitano agli studi malvisti per portarli sulla via della ribellione. Secondo i miei informatori, starebbero progettando addirittura un ospedale per reietti», ammise con disgusto. «Come se osteggiare i nostri Guaritori con quella vergognosa facoltà non fosse già abbastanza! Ditemi, è questo che la mia tolleranza merita? Bene», diede un pugno a mano aperta sul tavolo. «Qualcuno ai piani alti sta dando man forte a questa marmaglia e io ho bisogno di cavare questi traditori dal buco, uno per uno.»
Anna restò impassibile, «Io posso solo garantire per la mia famiglia.»
Armida si alzò in piedi e iniziò così la sua arringa: «A me piace negoziare, Anna, e ciò che voglio offrirvi è un accordo impossibile da rifiutare. Parliamoci chiaro: non siete sulla lista degli avvocati più prestigiosi della città», allungò una mano a sfiorarle il viso con finto fare compassionevole. «Se non fosse stato per vostro marito, probabilmente non avreste neanche avviato questo studio», ritornò a sedersi e appoggiò i gomiti sul tavolo, raccogliendosi il viso tra le mani. «Potete giocare al conte e alla contessa nella casa dei sogni quanto volete, ma io so che per voi non è abbastanza», le venne più vicino. «E io posso darvi il potere che vi manca», bisbigliò eccitata. «Avete tanti amici importanti, Anna, e siete una buona osservatrice», le fece l'occhiolino. «Voi trovatemi i traditori e io vi troverò un posto nel consiglio ristretto», le allungò la mano. Davanti a quell'opportunità, le si rigonfiarono improvvisamente i polmoni: era nella rete, ma non si sentiva più imprigionata.
Le tornarono in mente le umiliazioni che aveva subito da suo marito, così come le volte in cui aveva arrancato nella sua professione, ritrovandosi poi con un pugno di mosche.
«Accetto», Anna le strinse la mano. «Per la città e per la dea.»
«Per la città e per la dea», la imitò Armida, annuendo. «Adoro il rosso rame
dei tuoi capelli: sarà il mio prossimo colore» si alzò e si avviò alla porta.
«Oh no, restate pure comoda, Anna cara. Conosco la strada», tirò gli occhiali fuori dalla borsa e se li infilò. «Non vedo l'ora di partecipare alla vostra festa
del raccolto: sono sicura che avrete già delle splendide novità per me.»
Anna ripercorse punto per punto le parole della governatrice e, alla fine, scoppiò in una grassa risata: si immaginò la faccia di quell'ebete di Alberto mentre lei veniva nominata Governatore Legale e Giudiziario di Cremgaradél, si vide camminare col portamento di Armida per i corridoi del Palazzo di Giustizia, dove si sarebbe vantata delle sue ricchezze e dei suoi figli perfetti... Tutti l'avrebbero invidiata.
Afferrò lo specchio e, mentre ancora sorrideva, si diede un altro tocco di rossetto rosso: la caccia era iniziata.

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