Capitolo 3 - Piani alti

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Il sole di quel mattino colpì anche l'ultimo piano del Palazzo di Giustizia, dove si trovava l'attico della governatrice suprema della città.
Armida, seduta alla toletta, si specchiava: con i polpastrelli tracciava ogni segno del tempo comparso sul volto, gli occhi dal taglio affilato sembravano voler bruciare col pensiero ognuna di quelle minimali imperfezioni. Afferrò il calice di vino dimenticato tra creme e rossetti e lo svuotò, poi in uno schiocco di lingua tornò a scavare nei cassetti. Sussultò quando la sua mano sfiorò un pezzo di carta che per chissà quale scherzo del destino era finito là in mezzo. Era una fotografia, lo sapeva già, perché quel ricordo era l'unico che non era riuscita a lasciarsi alle spalle, quando la vita l'aveva travolta.
Chiuse gli occhi mentre accarezzava la patina ruvida, combattuta dalla voglia di buttarsi a capofitto in quell'immagine e chiudere il cassetto per salvarsi.
Lei così rigida, così perfetta, eppure così debole davanti a un fantasma: il suo primo amore la stringeva, la guardava come ormai nessuno avrebbe mai più potuto guardarla.
Erano giovani ed erano felici, scopavano come conigli e chissà di lì in avanti quanti passi avrebbero potuto compiere insieme... Se solo la malattia non glielo avesse portato via.
Per quanto le fosse stato difficile vederlo spegnersi lentamente, Armida gli era rimasta accanto.
Non aveva mai pianto, lei era furiosa con lui, con il fato, gli dei, gli uomini... In una folata di vento, i suoi progetti l'avevano abbandonata.
"Alla fine era diventato così giallo che a stento lo si riconosceva", in quel pensiero si sforzò di trovare un motivo per ridere, senza però riuscirci. Strinse le palpebre più forte e soffocò un grido di dolore.
Armida strinse la foto nel pugno e poi richiuse il cassetto, sbattendolo. Appoggiò la fronte tra le mani: non c'era stato bisogno di guardare, lui era ancora dentro di lei, anche se Armida Sunnèi non era più la stessa.
Nessuno conosceva quella storia e nessuno l'avrebbe mai conosciuta.
Armida bevve un bicchiere d'acqua e finì di sistemarsi gli orecchini come se nulla fosse accaduto.
Non molto più tardi, Arnaud l'attendeva con impazienza nel salone del consiglio. Indossava una tunica blu scuro dalle cuciture d'argento e una fronte scavata tra i capelli brizzolati.
La porta si aprì e si richiuse sbattendo, mentre un tacchettio irruppe nella stanza.
«Lasciateci», ordinò bruscamente Armida alle due ragazze dietro di lei, dopodiché si accomodò a capo del lungo tavolo in ciliegio, sbeffeggiando Arnaud con i suoi occhi verdi. «Mio caro marito, così presto e già di corsa?», ad Armida piaceva giocare e Arnaud la conosceva abbastanza da non dare peso alla sua ironia. Le si sedette accanto con aria grave, srotolandole davanti una mappa di Thanatos
«Qui, qui e qui», indicò dei punti lungo le mura della città. «Tre incursioni in tre punti diversi in meno di un mese, Armida. Non possiamo più far finta di niente», iniziò a sudare. «I soldati non bastano, le nostre misure di sicurezza non bastano...», mentre Arnaud continuava a sparare a raffica illazioni cariche di preoccupazioni, la governatrice gettò il capo all'indietro in una risata. Il Sommo Sacerdote ammutolì con una punta di irritazione: l'eccesso di sicurezza di cui peccava quella donna era per lui sia un'ancora di salvezza che un pozzo senza fondo.
«Trovi divertente l'immagine della nostra città in mano ai saccheggiatori?» replicò freddamente. «Perché sappiamo entrambi cos'è che vogliono quei barbari.»
Armida ritornò seria in un lampo, «Certo che lo sappiamo», accartocciò la mappa e la gettò via, senza mai staccare gli occhi da suo marito. «E non è certo qualche sacco di farina.»
«No, non lo è. Perciò dovresti sapere anche tu che le cose per noi potrebbero mettersi male...»
«Caro marito, rilassati», con una mano lo raggiunse, con l'altra premette un pulsante. «Sono solo un branco di zotici: non hanno armi decenti, né disciplina», fece forza con entrambe le mani sul tavolo e si alzò, inarcando la schiena come un gatto che soffia. «La cosa peggiore che possono farci, per ora, è rosicchiare le nostre mura come topolini», mimò due gambe che corrono con le dita. «Ci rubano un po' di pane, un po' di formaggio... Non rappresentano una minaccia tale da meritare le nostre preoccupazioni», sollevò le spalle e increspò le labbra in una smorfia.
Nel frattempo la porta si aprì: una delle sue cameriere le portò un grosso bicchiere con una cannuccia e in un cenno di riverenza se ne andò. «Oh! Il mio frullato, finalmente», si abbandonò sulla sedia e succhiò rumorosamente. Arnaud le lanciò un altro fascicolo. «Non ho finito. Questo è l'ultimo rapporto di Caesar Golìa, l'ufficiale che tu hai selezionato come infiltrato tra i reietti, assieme a quell'altro imbecille di Pete Koll», la voce si gonfiò sulle ultime parole e, per un attimo, sembrò quasi alterato.
Armida sfogliò quelle pagine distrattamente, mordicchiando di tanto in tanto la punta della cannuccia. «Bene, bene, bene... Queste lenti a contatto sono favolose», continuò a leggere, finché, giunta all'ultima parola, restituì lo sguardo al suo interlocutore. «Non c'è che dire, il mio amato Caesar è stato molto dettagliato e, beh, anche molto fortunato», schioccò la lingua. «Peccato per il povero Pete» aggiunse in tono smielato. «Spero per lui che non sia morto, anche se a giudicare da quanto dice Golìa di questo re degli zingari...»
«Franek», la rimbeccò Arnaud con sempre maggior irritazione. «Franek Petrov» Arnaud aveva sempre l'impressione che lui e Armida conducessero due conversazioni parallele senza punto d'incontro. «Ed è il re della Gilda dei Ladri, non degli zingari.»
«Quello che è», Armida sventolò la mano con disinteresse. «Ladri, zingari, reietti... Sono tutti uguali. E poi ultimamente, ogni poveraccio che buttiamo fuori vuole ergersi a re di questo o quel sasso», in un lancio preciso, scaraventò nel cestino il contenitore del frullato, ormai vuoto. «Ma a me sta bene: giochino pure a fare i signori della giungla, del deserto o di qualsiasi stramaledetta terra lì fuori, chi se ne frega!», riprese il fascicolo e lo aprì sul tavolo. «Qui dice che questa Gilda dei Ladri è nascosta sulle montagne e che i nuovi esiliati non vengono portati subito lì per ragioni di fiducia.
Golìa però ha anche specificato che nel campo dove si trova lui non avevano armi da fuoco, ma solo coltelli e stupidi aggeggi di legno», tamburellò con i polpastrelli sul mento. «Bravi in arrampicata, bravi a nascondersi... Descrivono questo loro re come il "dio punitore dei traditori", ma sono convinta che si tratti solo di una bella favola da raccontare a ogni cane abbandonato che raccolgono.»
«Non sappiamo con certezza quanto possano essere una minaccia per noi e, cosa peggiore, non abbiamo idea di dove si nascondano, mentre loro sanno esattamente dove si trova la città e, stando ai fatti, come penetrarla.
Quando la copertura di Pete è saltata, Golìa ha fatto appena in tempo a scappare e tornare qui e, per tua informazione, quel fascicolo che hai macchiato di frullato è tutto ciò che abbiamo sul nostro nemico numero uno. Senza contare gli zingari...»
«O santo cielo, basta piagnucolare» mugugnò lei, visibilmente seccata da quel fiume di ansie. «Gli zingari sono solo pecorai che si accoppiano con i loro stessi animali e ti assicuro che presto riuscirò a trovare il modo di tenere anche Franek Petrov per le palle. Nel frattempo», richiuse con cura i documenti e li riconsegnò a lui. «Assicurati che Caesar Golìa sia rifocillato e ripulito dal puzzo della giungla, poi, senza dare nell'occhio, mettilo sotto controllo per le prossime quarantott'ore.»
Arnaud sollevò un sopracciglio, «Ma è il nostro capo della sicurezza!»
«E io sono la fata turchina», gli inviò un bacino con schiocco di labbra. «Talvolta le situazioni emotivamente complicate compromettono anche i cuori d'acciaio», sfilò un nastro dalla tasca e raccolse i lunghi capelli in una coda. «Non ho paura dei ladri, ma non sono così stupida da sottovalutarli.»
«Vedremo», concordò l'altro. «Dopotutto io sono solo un ministro della fede, sei tu la stratega», ammise, mesto.
«Esattamente», gli sorrise e allungò le dita laccate ad accarezzargli il volto. «Tu occupati di visioni e preghiere e lascia a me i ladri. Fidati, caro marito, se c'è una cosa che so fare è aspettare il momento giusto per fare scacco matto... E non ho mai perso una partita», gli occhi di gatta si affilarono in due fessure strette. «Su, mettiamoci pure a lavoro adesso», picchiò il tavolo con le mani e chiamò un altro frullato. «Ora: il consiglio ristretto si riunirà questo pomeriggio alle quindici e discuteremo di come impiegare i nuovi fondi delle offerte nell'edilizia. Per quanto riguarda le incursioni dei ladri, disporremo due soldati in più lungo il perimetro delle mura e un'illuminazione maggiore nelle ore notturne. Per il momento non manderemo altre spie, finché la situazione-Golìa non sarà chiarita», era un fiume di parole, ma si arrestò di botto sull'ultima considerazione, come colpita da un lampo di genio. Mordicchiò la cannuccia e puntò lo sguardo oltre le finestre: il sole era sempre più alto e lei in ritardo per il suo appuntamento. «Parla con il Generale Ramos e fai sostituire i soldati di guardia. Tutti! E che vengano selezionati solo tra i cittadini di Cremgaradél. Non voglio nessun reietto là sopra.»
Arnaud corrugò la fronte, «Ma i cittadini dell'arma occupano cariche più alte, non fanno le sentinelle. Protesteranno...»
«E che protestino! Così è deciso» lo rabbonì lei. «Riempiteli di soldi o di qualche stupido distintivo, che me ne frega: ci servono occhi fidati se vogliamo davvero capire come si muove il nostro nemico» sbadigliò. «La tua poca ricettività mi ha davvero stancato», si alzò e premette il bottone due volte. «È tempo che io faccia la mia prossima mossa. Avrei voluto parlartene, ma ci siamo persi in altre discussioni e adesso non ho veramente più tempo per te», le cameriere entrarono ticchettando nella sala, la aiutarono a vestire il soprabito e le porsero la borsa.
«Dove vai? Se riguarda la città ho il diritto di sapere di cosa si tratta», la sicurezza di quella donna lo disarmava.
«Certo che riguarda la città. Non viviamo per lei, dopotutto?», una cameriera le offrì uno specchietto e, mentre Armida si controllava il trucco ancora una volta, l'altra le aggiustava la coda di cavallo. «Ti basti sapere che ho un piano per scovare quei fottuti bastardi che cospirano contro il sistema...Sono convinti che i loro soldi li rendano invincibili...Illusi», sorrise in una nuvola di profumo di lillà. «Ora immagino tu abbia una messa da organizzare o roba simile, perciò, ti saluto» disse infine e scomparve oltre la porta, lasciando Arnaud solo con tutte quelle parole.
«Che geniale figlia di puttana», il sacerdote si lasciò sfuggire un pensiero ad alta voce e con ragione: se c'era una donna da temere in tutta Cremgaradél quella era Armida Sunnèi.

Un giro di viteWhere stories live. Discover now