XXXV. Strafe

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N E B E L

XXXV.

Strafe



Ogni tanto, mentre era alla scrivania, andava a stuzzicare il pacchetto di sigarette semivuoto che aveva appoggiato sulla cornice di marmo sotto la finestra, con le dita o l'estremità di una penna, come se stesse punzecchiando una cavalletta morta con un bastoncino. Nient'altro che una scoria di Richard. Delle Camel. Eppure non erano sigarette che gli si addicevano, si arrovellava Sonne, ricordandosi poi che doveva avergliele affibbiate proprio lui quando aveva scritto il suo racconto.

Erano lì da mesi.

Avevano assistito con lui, attraverso il vetro, al morire dell'inverno, della primavera e ora dell'estate. Un panorama di Brema che non era cambiato molto. La città era rimasta immobile esattamente come quell'appartamento da quando Richard e Verena se n'erano andati. Solo le lancette dell'orologio, i rintocchi del campanile del Duomo – e il clima a stento, sempre freddo da allora – testimoniavano che il tempo stava scorrendo anche senza di loro.

La voglia di fumare quelle sigarette era diventata urticante. La voglia di azionare una fiamma e vederle consumarsi in un mucchietto di cenere, in realtà. Lo solleticava sulla nuca più di quanto avesse mai fatto la benzina nascosta in bagno, per ciò che rappresentavano, una sorta di talismano che raccoglieva in sé un potere incontrastabile, una tentazione diabolica. «Non fare il patetico e fumale» gli avrebbe detto Richard, probabilmente. Alla realizzazione di questo desiderio si frapponevano diversi problemi, però. In primo luogo, non aveva mezzi per accenderle: Richard l'accendino se l'era portato via e, in quanto al gas, una volta finita la bombola non aveva mai fatto venire il tecnico a montarne una nuova. Secondo, se le avesse fumate non sarebbero più state lì, non avrebbero potuto più assolvere al compito di dimostrare che Richard e Verena erano esistiti davvero e avevano davvero vissuto con lui. Terzo, nello stato in cui era, sarebbero diventate la miccia che avrebbe portato alla degenerazione finale, facendo crollare al suolo anni di astinenza e autocontrollo. Sapeva già che dopo la prima volta le sigarette non gli sarebbero bastate.

Gli era rimasto poco altro di loro. Degli asciugamani scoloriti, un calzino di Verena rimasto impigliato nella lavatrice, un portachiavi a forma di ferro di cavallo dimenticato sul ripiano della cucina. Tutti beni che Sonne aveva riposto in una scatola nel proprio armadio; solo le sigarette ne erano rimaste fuori, con la loro influenza simbolica.

Aveva lasciato le stanze identiche a come Richard e Verena le avevano lasciate quel giorno di fine gennaio. Non aveva nemmeno mai fatto passare un po' d'aria, con il risultato che i materassi erano tuttora impregnati del loro odore. Le prime notti aveva dormito – o meglio, aveva giaciuto insonne – sul letto di Verena, al centro, a braccia larghe. Non era abituato a occupare così tanto spazio nel rettangolo in cui si erano sempre stretti in tre. Inalava ciò che restava dei loro corpi, qualcosa di acido e concentrato che gli pungeva le narici fino a farlo lacrimare. Era l'unica sensazione attraverso cui poteva riviverli. Dopo qualche giorno, siccome aveva tralasciato di lavarsi, si era accorto che il suo odore, che pure non era dissimile dal loro, stava sostituendo l'originale. Così si era fatto una lunga doccia, la prima dall'abbandono di Richard e Verena, ma si era rivelata una soluzione ancora peggiore: in questo modo il loro odore iniziava a essere sostituito da quello del bagnoschiuma. Perciò aveva compreso che doveva preservarlo il più possibile, perché era il lascito più prezioso, da custodire ossessivamente come un tesoro in un forziere sui fondali marini, di cui non poter godere neanche in prima persona, se non in rarissime occasioni. Da allora entrava nelle loro stanze chiuse a chiave soltanto di domenica, per pochi secondi. L'odore sembrava ogni volta più fioco di quella precedente, ma Sonne era diventato piuttosto abile nel captarlo e riconoscerlo, sempre, sempre con uno strappo al cuore.

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