XIX. Ich fühl mich wohl in deinem F̶l̶e̶i̶s̶c̶h̶ Gehirn

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N E B E L

XIX.

Ich fühl mich wohl in deinem F̶l̶e̶i̶s̶c̶h̶ Gehirn



Perché io?

Era il suo pensiero più frequente in quei lunghi giorni d'agosto. Le domande erano tante, ma il chiodo fisso di Verena era sempre lo stesso. Aveva persino cominciato a chiedersi cosa volesse dire io. Prima di ogni cosa: chi era Verena.

Era diventato terribile guardarsi allo specchio. I suoi occhi non sembravano più i suoi occhi. La sua pelle non sembrava più la sua pelle, più opaca e pallida. Era come guardare una persona nuova, doversi abituare ad essere una persona nuova, una carta da gioco finalmente scoperta con una mossa rischiosa, flip. Finora era stato visibile solo il retro di lei. E qualcuno l'aveva girata, trascinandola sul tavolo prima di rivelarla, una mano invisibile di un Dio invisibile che si divertiva a giocare con lei e con la realtà, che non chiedeva il permesso.

Era questo che mi attendeva da tutta la vita?

Una Verena... così?

Era cambiata, dopo la sparizione – non le venivano in mente altre parole per riferirsi al fenomeno. La vecchia lei godeva della propria ignoranza, la nuova lei era cosciente che ci fosse qualcosa che non andava, dentro e fuori la sua testa. Si metteva davanti allo specchio della sua stanza e per minuti interi stava a tastarsi e pizzicarsi la faccia, i fianchi, le gambe, fino a lasciarsi dei segni rossastri nella carne. Non c'era una parte di lei che era stata risparmiata.

Non era l'unica ad essersi accorta del cambiamento. Sonne e Richard avevano iniziato a guardarla in modo diverso. Il loro sguardo oscillava tra la preoccupazione e il sospetto, entrambi sentimenti che non la aiutavano nel suo personale processo di elaborazione. Si sentiva ancora più in ansia quando la guardavano così. Spesso sobbalzava quando la toccavano, perché stava sempre sul chi vive, a scrutare l'ambiente circostante, in cerca di falle o pericoli.

Ogni tanto doveva ripetersi: sono ancora qui. Sono ancora qui. Si aggrappava disperatamente ai dettagli banali che la circondavano per ricordarsi di non essere sparita di nuovo. Il suo preferito era l'orologio appeso a una parete della cucina, o meglio, il suo ticchettare indolente. Si ritrovava spesso a fissarlo. Il procedere delle lancette la riportava con i piedi per terra.

Ma come avrebbe fatto a capirlo, se fosse accaduto ancora? Quando era successo non c'era stato alcun segnale, alcun avvertimento, né all'andata né al ritorno. Aveva semplicemente sceso le scale del palazzo. Le due realtà erano in continuità, un flusso in cui si era aperta una fessura solo per lei, in cui Verena era entrata senza neanche saperlo.

Era taciturna, in quei giorni.

Pensava e rifletteva senza sosta.

Anche le persone in strada, conoscenti e sconosciuti, i clienti di Zimmermann, tutti sembravano guardarla in modo diverso, come se chiunque si fosse accorto della sua trasformazione.

I petali dei fiori si erano fatti molli tra le sue mani, il cibo prima ancora di metterlo in bocca. Non c'era più solidità. Tutto si stava liquefacendo per farla scivolare via più facilmente.

I dubbi aumentavano con lo scorrere del tempo. Cos'è che poteva definirsi realtà, se tutto cominciava a sembrare finto? E se Günther avesse sempre avuto ragione e lei fosse davvero pazza? E se a suo padre fosse successa la stessa cosa e non fosse più riuscito a tornare indietro? Era sparito letteralmente da un giorno all'altro, dopotutto, aveva sempre pensato che non li avrebbe mai abbandonati così, di proposito. Era stata lei a svegliarsi per prima, quel fatidico giorno, all'alba, a scendere al piano di sotto a piedi nudi e a farsi investire dal silenzio dell'assenza. Non era in camera sua, dove Verena non entrava mai e dove quella volta aveva provato a entrare timidamente con il cuore che martellava nella cassa toracica; non era in nessun'altra parte della casa. Era stata lei, la minore, la prediletta, a rendersi conto che non sarebbe più tornato. I suoi fratelli e le sue sorelle, dopo grida e pianti, avevano continuato ad aspettarlo.

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