𝕊𝕥𝕒𝕣𝕤 𝕔𝕠𝕝𝕠𝕣

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Il mio professore dell'università delle arti, a Tokyo, si ostinava a rinfacciarmi con fermezza, che per i miei dipinti avevo bisogno di protagonismo, ed io, con fermezza, mi ostinavo a rinfacciargli che non avevo ancora trovato nessun soggetto degno per identificare il mio quadro.

Gli sembrò insensato, "tutto ha un soggetto, signor Bakugou!" perseverava, ma lasciava stare quasi subito l'osso. Perché? Be', ero autistico.

Quando la gente sente dire la parola "autismo"... s'immaginano chissà quale persona e chissà quale problemi, ma l'ignoranza voleva creare i burberi privi di garbo.

"Ehi! Esisto anch'io, bastardi!"

Avrei voluto urlare al mondo. Come ogni colore e le sui mille sfumature, anche l'autismo ha le sue: le più chiare e leggere, le più nitide e puntualizzanti.

Ero semplicemente un pastello bianco...

Solo... un  Bianco un minimo più scuro degli altri, più concentrato.

Non mi definivo mai il cigno nero, ero solo un cigno più grigio, ma sempre bianco.

Avevo solamente un puntino dentro di me, che mi distanziava dalla normalità. Un puntino che ai miei occhi risultava un puntino, e un puntino che agli occhi degli altri risultava un ponte che separava i due fronti, per puntualizzare la differenza.

Però, quel giorno, un protagonista il mio quadro ce l'aveva. Minuscolo. Lontano, ma appariscente.

Una piccola lanterna appesa a un ramo di quel ceppo m'illuminava mezzo viso, ma era sufficiente per evidenziare il soggetto del mio futuro dipinto.

Un buffo ragazzo disteso sull'erba, con gli avambracci dietro il capo, era abbozzato al centro dell'erba disegnata.

Non era una mia invenzione, tanto per far contento il mio Professore, quel ragazzo esisteva davvero, ed era proprio lì, esattamente al centro del piccolo parco dispopolato vicino la stazione di un quartiere di Tokyo.

Aveva fiammanti capelli rossi, leggermente più lunghi dei classici tagli maschili. Sminuiva il mio concetto di tranquillità in una maniera abissale. Io, adoravo distendermi sul divano, ascoltando musica movimentata, tutt'altro che tranquilla. Lui, se ne stava lì, come un bamboccio, e neanche fissava le stelle... Fissava... le foglie.

Mi domandai perché fissasse le foglie. Certo, non erano attaccate agli alberi, ma si facevano trasportare dal vento... Ma se sopra la testa si ha uno spettacolo di quel genere, costellazioni e  comete, perché fissava le foglie?

Non m'importava, avrei potuto cambiare la dinamica, ma continuava a ronzarmi intorno la domanda.

Suscitò un briciolo di curiosità, e lo ammisi a me stesso, con quell'apatia che mi rispecchiava persino nel modo in cui sbattevo le palpebre.

Continuai ad abbozzare: disegnai la felpa bianca, i jeans a vita bassa strappati, e altri dettagli inutili, che nel dipinto sarebbero contati come brace in mezzo al bosco.

Sembrò un disegno infantile, decisamente irriverente verso la realtà. Ma a me, piaceva così, nella sua semplicità, e nello stile estremamente somigliante a quello di Monet, con la finezza di Degas, E la ammaliante senso di accortezza e famigliarità che mi suscitavano i dipinti di Renoir.

Ero un folle che dipingeva con lo stile dei pittori dell'impressionismo ottocentesco. Ma ero un folle che cercava i colori, e i fiori di Monet avevano così tante sfumature da offrire... che non resistevo a copiarne lo stile.

Quel ragazzo interruppe i miei pensieri. Si alzò, lo stronzo, zampettando come un coglione verso la stazione.

Non avevo ancora finito; dovevo trovare il tubetto di colore giusto per il colore dei suoi capelli.

Kiribaku  One Shot Wo Geschichten leben. Entdecke jetzt