24. Immerso nello studio

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Un sottile raggio di sole penetrò attraverso la finestra della sua nuova camera, posandosi dritto sul viso di Neil.

Il ragazzo strizzò gli occhi e mise a fuoco la pesante coperta di lana marrone che lo avvolgeva e il comò squadrato alla sua destra, i cui cassetti emanavano un forte odore di lavanda e legname umidiccio.

Ci mise un po' a realizzare che non si trovava più nella vecchia casa di periferia dove aveva sempre vissuto, che spuntava timida davanti all'immensa palazzina gialla a otto piani, immersa nel traffico e nello smog di centinaia di automobili.

Non si era ancora abituato a quella strana stanzetta triangolare.

Non era stato molto entusiasta all'idea di trasferirsi da Arun; tuttavia, a metà gennaio, aveva ricevuto una lettera dalla sua vecchia proprietaria di casa. La donna, venuta a conoscenza della scomparsa di Leda, aveva dato a Neil le sue educate e dovute condoglianze, e poi gli aveva chiesto un aumento del canone mensile.

Lui era rimasto a fissare la lettera per venti minuti buoni, incredulo. Pareva che la proprietaria avesse ricevuto un'altra offerta e che i nuovi inquilini si fossero detti disposti a pagare ben più di quanto Neil poteva permettersi, e lui era ancora disoccupato.

Allora, l'ira sopita dentro di sé si era brutalmente risvegliata. Neil era andato da Arun e si era sfogato parlandone con lui.

Il vecchio l'aveva aiutato a calmarsi, poi gli aveva proposto di trasferirsi lì. Non voleva soldi, e poi per Neil sarebbe stato più facile dedicarsi allo studio e ai piani per la Resistenza. Neil ci aveva pensato per due giorni interi, ma alla fine aveva accettato.

Non che avesse molte alternative: lavoro non se ne trovava, e comunque quel poco che c'era di certo non gli garantiva uno stipendio sufficiente a soddisfare le nuove richieste di quella megera della sua proprietaria di casa. Inoltre, ciò che stava imparando con Arun lo coinvolgeva e lo appassionava: sarebbe stato bello potercisi dedicare di più, nel tempo che Neil non consumava a cercare un disperato lavoro.

Unica pecca era che Arun gli aveva offerto la stanzetta triangolare che lo inquietava tanto, ma Neil non aveva avuto il cuore di dirglielo.

Cambiare casa non era stato molto impegnativo. Neil aveva poche cose e aveva deciso di lasciare tutto il superfluo nel vecchio appartamento: mobili, pentole, accessori per la casa e tutto ciò che non gli occorreva, venduto ai prossimi inquilini.

Anche la camera di sua madre l'aveva lasciata intatta: i vestiti chiusi nell'armadio, il letto sfatto, il comodino sbilenco su cui erano poggiati fogli di vecchi giornali, una lampada impolverata, una bottiglia d'acqua mezza vuota. Ci avrebbero pensato i nuovi inquilini a sgomberare tutto.

Era stato difficilissimo chiudersi quella porta alle spalle, ma in fondo oltrepassare quel passato doloroso senza demolirlo l'aveva aiutato a sentirsi meglio.

Neil aveva tenuto con sé solo la vecchia sciarpa nera che Anandria gli aveva messo al collo. La custodiva al sicuro nel comò della sua nuova camera e ogni tanto la ripescava di nascosto, giusto il tempo di sentire l'odore di sua madre e fingere che lei fosse lì con lui, nella stanza accanto, a preparare una torta o dei biscotti. E poi c'erano le sue lettere, e quel biglietto. Quello con il nome di suo padre. Non l'aveva ancora aperto.

La prima notte a casa di Arun era stata quasi del tutto insonne. Neil si girava e rigirava nel letto, e in quelle due o tre ore di sonno che era riuscito faticosamente a conquistare aveva sognato la ragazza bionda, infuriata con lui perché le aveva rubato il braccialetto. Poi la ragazza si era trasformata in Anandria, che gli aveva urlato addosso e gli aveva detto che era stato un cretino a trasferirsi in quella casa inquietante. Neil si era svegliato all'improvviso ed era scattato a sedere.

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