Cap. 7: "Perché tu mi fai dimenticare chi sono?"

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I singhiozzi le stavano impedendo il suo respiro regolare. In questi giorni era così difficile respirare, per lei. Le erano successe cose che l'avevano praticamente buttata giù. Ma sentirlo pronunciare quella parola "puttana", l'aveva spiazzata emotivamente. Nonostante non badasse molto al parere altrui, era sempre rimasta sulle sue, e non le si poteva certo dare della puttana. Non era quel tipo di ragazza che aveva tanti amici maschi, non sapeva usare le parole giuste, non sapeva socializzare e non tendeva a scoprirsi troppo, tutto il contrario. Rimaneva nell'ombra, in modo che nessuno la notasse o parlasse di lei. Il pensiero di sentirsi chiamare in quel modo, la terrorizzava. Aveva sempre pensato che l'insulto peggiore, sarebbe stato darle della poco di buono. Non credeva che quel giorno sarebbe arrivato. E ora non sapeva come gestire quell'emozione inaspettata. Essere arrabbiata con lui? Evitarlo? Insultarlo? Urlargli contro?
Doveva solo andarsene. "Si, si, me ne devo andare."
Era decisa a prendere la sua roba e andarsene, in modo da non rivedere più quella bocca maledetta. Non voleva neppure averlo davanti, all'idea le veniva ancora da piangere.

- Karl, ho bisogno che mi procuri un'arma nuova. No...non mi interessa...Karl diamine! Non mi sembra tanto difficile da fare, è una comunissima arma...pf, come se fosse la prima volta che...ok, ciao. Si si, ciao. - riattaccò e buttò furiosamente il cellulare sul letto, facendolo rimbalzare più volte. Era stanco, esausto, nervoso ed arrabbiato senza un valido motivo. Non si faceva una bella dormita da ormai troppo tempo. Voleva davvero potersi stendere sul letto, chiudere gli occhi, e per un momento, dimenticarsi di tutte le preoccupazioni e le arrabbiature degli ultimi giorni. Abbandonarsi alla serenità, sempre che riuscisse a trovarla. Si era sdraiato troppe volte sul letto cercando di riposare, ma invano. Sembra che l'unica cosa che lo reggesse ancora in piedi era lo stress vitale che lo stava consumando man mano. Scese le scale, strofinandosi gli occhi. Alai era seduta sul divano con aria abbattuta. Era certo di averla ferita dopo le sue parole dure, lo seppe fin dal primo istante in cui la frase gli uscì dalla bocca. Ma lui era abituato così: diceva e faceva ciò che voleva, incurante delle conseguenze. Vedendola lì, triste, con il capo abbassato, gli venne una forte fitta nel petto, a lui sconosciuta. E in un batter d'occhio era accanto a lei, seduto. Non si era neppure accorto delle sue azioni. Cosa aveva appena fatto? Lei alzò il capo, sorprendendosi che lui fosse vicino a lei. Si allontanò di poco, spostando il suo sguardo altrove. Era forse intimidita dalla sua presenza?
- Hai pianto? - chiese Jamie, notando i suoi occhi verdi-azzurri lievemente arrossati.
Lei scosse la testa, fingendo un'espressione del tutto serena. Ma Jamie sapeva che stava mentendo.
- È per quello che ti ho detto, vero? - lei rimase a fissarlo con gli occhi grandi e lucidi. Sembrava sul punto di piangere, ma a sorpresa del ragazzo, sforzò un debole sorriso. - No. - disse con voce minuta. Jamie deglutì. Sapeva di averla fatta piangere, ma non vedeva come un semplice "scusa" potesse risolvere la cosa. Le lacrime erano state versate, non si può recuperare ad una sofferenza, anche alla più minima. Forse era davvero dispiaciuto, in cuor suo, ma il suo orgoglio gli era di impedimento alle sue scuse. E lei certo non avrebbe ammesso di aver pianto a causa sua.

- Cosa?! - urlò Katia.
- Katia, tesoro, ho una certa età. L'udito non mi funzione più bene come qualche tempo fa. - piagnucolò Dorothea.
- Ma...ma... - balbettò Katia, sbattendo gli occhi più volte.
- Lo so, cara. La notizia ha sorpreso tanto anche me. -
- Sorpreso?! No! No! Non sono solo sorpresa, sono furiosa! - continuò ad urlare Katia, incurante dell'espressione dolorante di Dorothea. - Io lo conosco abbastanza da sapere che ci sono doppi fini dietro tutta questa storia. - annuì freneticamente la ragazza, facendo su e giù nell'accogliente stanza dell'infermeria.
- Nessuno lo conosce abbastanza da sapere il motivo dei suoi pensieri o azioni, Katia. E non credo questo valga solo per Jamie. - la guardò comprensiva la donna, seduta su una sedia.
- Non serve conoscerlo abbastanza per saperlo. Lo so e basta! Lui è fatto così, quel bastardo. - mormorò l'ultima frase.
- Katia! - la rimproverò con lo sguardo Dorothea. Katia dimenticò quanto Dorothea odiasse le parolacce. - Jamie la sta solo ospitando a casa sua, sta facendo un favore a tutti. -
- Sta facendo un favore a se stesso! - le rabbia le ribolliva dentro. - Non fa che circondarsi di ragazze, ma Alai non è fatta così e lui questo non può cambiarlo. -
- Lui questo lo sa, cuoricino. Sa perfettamente a che sponda appartiene la dolce Alai, vedrai che non se ne approfitterà. - disse sorridendo la donna. Quel sorriso sembrò quasi confortare la belva dentro Katia.
- Ma non c'è un'altra spiegazione! Capisci? -
- E questo chi lo dice? - sospirò. - Ascoltami, ci ho parlato. Sai che se avessi notato qualcosa di sbagliato in tutto questo, sarei stata la prima a spostarla. Poi non sembra lamentarsi molto, lo scricciolo. Vedrai che staranno tutti bene. - si alzò accarezzando la folta chioma bionda di Katia, sorridendole dolcemente.
Katia chiuse gli occhi, annuendo, sotto il dolce tocco materno di Dorothea. L'abbracciò forte. - Promettimi che controllerai la situazione e m'informerai su tutto. -
Dorothea rise con voce rauca, annuendo. - Lo avrei fatto anche se non me l'avessi detto. - le ammiccò. - Ora vai, su su. - ridacchiò, facendo sorridere anche Katia. Era così semplice stare al fianco di quella donna. Aveva la capacità di rendere positive le situazioni più difficili. Katia se ne andò, più leggera.

"Devo andarmene, solo andarmene." continuò a ripetersi nella sua testa, che ormai sembrava essere fatta solo di quelle parole ben distinte. Voleva allontanarsi da quel ragazzo, lo stesso ragazzo che la salvò. Ma cos'altro poteva fare? Doveva continuare a starsene lì, come se quella fosse casa sua, davanti due occhi che la guardavano come se fosse una...prostituta? Lei sapeva perfettamente chi era, e nessuno di tanto glaciale e presuntuoso avrebbe messo in dubbio la sua identità. Però stare a contatto con lui la rendeva particolarmente vulnerabile, e questo pensiero la faceva trasalire per la rabbia. Pensò ai suoi bellissimi occhi che la guardavano preoccupato, chiedendole se avesse pianto, e per un momento fu come lasciarsi alle spalle la sofferenza provata per mano sua. Come poteva, anche con un solo gesto, toglierle dalla testa le preoccupazione? Era quasi sul punto di perdonarlo. Ma il perdono, secondo lei, non era fatto per questo tipo di cosa. Il dolore continuava a premere. Se fosse rimasta sola con se stessa, forse sarebbe riuscita a dimenticarsi dell'offesa, e magari, anche di lui.
Cercando di non pensarci di continuo, dedicò la sua attenzione a sistemare i vestiti dentro il suo grande borsone, ormai aveva preso la sua scelta. Qualcuno varcò la soglia della porta, chiudendola dietro di se. Alai s'immobilizzò, sapendo di chi fossero quei passi e quel respiro. Si girò alzando il capo. Lei era inginocchiata per terra, mentre lui era in piedi, con le spalle dritte. Guardato dal basso sembrava gigante. Alai deglutì, studiando la sua espressione, invano. Era impassibile come sempre.
- Che stai facendo? - chiese. Ora riusciva a intravedere delle pieghe sulla fronte, prova che constatava la sua apparente confusione.
- Uhm, sto...sto facendo ordine dentro il borsone. - spiegò. Si stava maledicendo silenziosamente. Perché non gli aveva detto le sue vere intenzioni?
Lui la guardò, sospirando.
- In...in realtà...stavo pensando che...una volta riordinato il borsone, me ne sarei andata, sai...questa non è casa mia. - disse Alai, deglutendo fra una frase e un'altra.
- No. - scosse la testa. - Devi restare qui. - tagliò corto.
Alai si alzò di scatto alle sue parole. Continuava a superarla di tanto in altezza, il che gli dava un certo potere sconosciuto, ma non era importante. Stava ribollendo dalla rabbia. - Come devo restare? - aggrottò la fronte.
- Ordini di Dorothea. - spiegò lui.
- Ma...ma non posso restare qui. Non è casa mia. Poi perché non posso ritornare nel mio appartamento? -
- Per la tua salute. -
- Ma sto benissimo! - esclamò lei.
- Non sei tu a poterlo decretare. A proposito, vuole visitarti. - gesticolò.
- Io devo andarmene, Jamie. Non posso restare qui, lo sai anche tu. - lo indicò guardandolo fisso negli occhi.
Lui alzò le spalle.
"Tutto qui?! Cosa?!"
Si girò e se ne andò, sbattendo la porta dietro di se.
In quel momento aveva tanta voglia di gettargli contro materiale esplosivo. Come poteva essere così presuntuoso?
Nonostante lui le avesse detto che doveva restare, Alai si coricò sulle spalle il borsone e scese le scale più in fretta che poteva, volendo assumere l'espressione più arrabbiata possibile. Anche se non bisognava sforzarsi più di tanto, in quella circostanza.
Arrivò nel salotto. Lui stava sdraiato sul divano e la guardava immobile.
Alai rimase a guardarlo per qualche secondo, per poi correre verso la porta. Jamie saettò in piedi, in stato di allerta, e l'afferrò per un braccio.
- Lasciami maniaco! - urlò, dimenandosi dalla sua stretta.
Lui continuava a bloccarla con le sue possenti braccia. Alai, pur urlando e scalciando, non riusciva a muoversi il necessario per liberarsi dalla sua presa decisa. Così si arrese, lasciando che la disperazione avesse la meglio su di lei. Una lacrima iniziò a rigarle il viso. Aveva cercato di sopprimerla per così tanto tempo, che sembrava quasi bruciarle sulla guancia.
- Perché... - piagnucolò, scuotendo freneticamente la testa.
Anche davanti quella scena lui rimase immobile. Eppure ad Alai parve di sentire i muscoli di lui irrigidirsi.
- È questo quello che cercavi di ottenere tutto il tempo... - singhiozzò. - Hai finto gentilezza. - scosse la testa, come negando le sue stesse parole. - No! Tu con me non lo sei mai stato! - in quel momento, pensò che lui le sbattesse in faccia di averla salvata da tre psicopatici. Ma non lo fece, continuava a tenerle il braccio, immobile. Alai continuava a versare fiumi di lacrime, incurante che lui fosse lì, magari a ridere di lei, non riusciva più a trattenerle. Doveva svuotare il suo dolore che l'aveva tenuta intrappolata per così tanto tempo. Le ginocchia iniziarono a cederle.
Avrebbe voluto aggrapparsi a lui, ma fece di tutto per non farlo. Non voleva toccarlo, per lo meno, non di sua spontanea volontà, dal momento che lui le teneva saldamente fermo il braccio.
Le lacrime sembravano fuoco sulle sue guance, bruciavano. Ad un certo punto, come ad attenuare quel bruciore, uno schizzo di fresco le sfiorò la guancia, come se un sottile strato di velo fosse stato capace di attenuarle il dolore. Aprì gli occhi, quasi non accorgendosi di averli tenuti chiusi per tutto quel tempo. L'immagine di un angelo dai capelli biondi, che le stava accarezzando la guancia, le apparve davanti gli occhi gonfi. Si strofinò gli occhi con la mano libera. Lui era davvero lì, e la stava accarezzando.
Alai non piangeva più. Lo sguardo di lui fisso nei suoi occhi, l'allontanò dal bruciore sulle guance, dal vuoto nella pancia, dal dolore e la nostalgia di casa. In quel momento, c'erano, esistevano solo loro due.

Ossa Fragili. (Come Nei Sogni)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora