Capitolo 12.

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Samaele si era seduto in ginocchio e stava unendo con dei forti nodi le estremità del ceppo con un paio di corde. Tolse il vecchio moncherino rimasto ancora aggrappato al ramo silente e testimone di atti folli, suicidi, colmi di morte e pianti interrotti. Agganciò il tutto con cura senza mai prendersi dalla fretta, si stava godendo il momento della sua piccola creazione. Non aveva mai costruito un'altalena e nell'istante in cui il pezzo di legno rimase sospeso, dondolando per il vento e per gli strattoni di mani affusolate, tra le labbra piene di efelidi scorse una leggera soddisfazione. Si sedette su di essa e guardò in alto per assicurarsi che reggesse il suo peso e restò girato di spalle per un tempo lunghissimo.
Matilde non comprendeva cosa stesse facendo. Era convinta di doverlo salvare dai suoi istinti distruttivi, invece era complice di un perdono rimasto intrappolato tra fili di canapa e schegge di pino.

Le spalle larghe del rosso erano incurvate verso il basso e si lasciavano cullare dal ritmo lento dell'altalena. La luce fioca del sole illuminava i ricci carmini ribelli; coronavano la testa di fiamme incandescenti. I piedi, coperti da scarpe di tela sporche di terriccio, accompagnavano il moto ondoso di un dondolio piacevole e confortante. Ripensò ai momenti passati insieme a sua madre, i pomeriggi trascorsi fuori in giardino e la gomma del trattore appesa a una corda della quercia dietro casa: era il loro posto preferito. Suo fratello maggiore voleva sempre andarci per primo e litigavano spesso per quanto tempo dovevano darsi il cambio. I loro sguardi complici, però, di marachelle e dispetti erano soltanto un ricordo lontano. Michele non era più quel bambino gentile, dopo la morte della loro genitrice era rimasto traumatizzato e addossò tutta la colpa al più debole. Il dominio del più forte è un fatto naturale, gli ripeteva di continuo fino allo sfinimento. Una litania rimasta impressa nel cervello, infuocava le meningi e martellava nella scatola cranica. Erano arrivati a odiarsi, a distruggersi a vicenda fin quando qualcuno non ci avrebbe rimesso la vita. Giochi sadici di menti instabili.

Nello stesso istante in cui iridi allocroiche si perdevano in un orizzonte di pensieri, dietro alti cespugli sbucò un'ombra minuta. Si avvicinava furtiva, il vento dissimulava i rumori ovattati dei suoi passi nell'erba alta. Arrivò fin quasi a toccare con il ventre la spina dorsale, coperta da un leggero strato di una camicia bianca sporca di fango e polvere. Il cuore di Matilde pompava sangue nelle vene senza sosta, segregato in una gabbia d'ossa e soffocato da arterie per quietare i suoi continui lamenti.
Pochi centimetri li separavano, le loro menti erano colme di demoni che ridevano, sibilavano parole crude e perverse. Lo sguardo abbassato della giovane ricadeva sulle ciocche sanguigne di Samaele, aveva desiderio di toccarli, di intingere le sue dita in un acrilico vivo e denso.

All'improvviso, tutte le distanze si dissolsero: una spinta più energica delle altre e i loro corpi entrarono in contatto per alcuni secondi. Samaele sussultò dall'inaspettato morbido tocco e curioso alzò di scatto il viso verso l'alto, le bende sul suo collo accompagnavano movimenti lenti e affaticati. Le pupille si allargarono di colpo nel vedere lineamenti spigolosi di una pallida carne, occhi melliflui e privi di emozioni. Si spaventò a morte per l'inattesa apparizione, provò ad alzarsi, ma si intrecciò nei movimenti e cadde sull'erba, attutendo il dolore alle natiche.

Matilde rimase immobile come una statua di marmo, osservò il volto pieno di lividi e sangue secco. Rabbrividì al solo pensiero di cosa fosse successo tra le pieghe della sua carne macchiata di gocce di caffè. Inclinò il capo di lato per studiarlo meglio e perdersi nelle curve di uno slanciato e snello corpo sdraiato, impaurito dalla sua presenza. Riusciva quasi a percepire il ritmo incessante dei polmoni sotto la stoffa ruvida.

«Che diavolo stai facendo? Cosa hai fatto alla faccia?» domandò, spezzando il silenzio come un fulmine a ciel sereno. La voce dura e senza sentimenti si impresse nei timpani del giovane rimasto ancora a terra.
«M-mi hai terrorizzato,» balbettò, «da quanto tempo sei qui?» si fece forza con le braccia per alzarsi e avvicinarsi con cautela, animale velenoso in procinto di attaccare.
«Ho fatto prima io le domande» ribatté senza vergogna.
«Potrei chiederti la stessa cosa, hai la mano che sanguina» osservò il giovane con un colpo d'occhio nel vedere rivoli di icore scarlatto attorcigliarsi tra le sue dita sottili.
«Non ti azzardare a cambiare argomento, rispondimi» proferì impettita, stringendo le falangi a pugno senza scomporsi, mentre gocce di liquido denso cadevano attratte dalla gravità, colorando l'erba di tinte cremisi. Le teneva testa, ma non si sarebbe fatta convincere in poco tempo a sputare la verità.

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