Capitolo VI

142 12 3
                                    


L'unico posto in cui si sentiva in pace con sé stesso era il campo da pallavolo. Possibilmente con una palla in mano.

Era cresciuto in palestre con parquet vecchio segnato dalla gomma delle scarpe, strisce nere spezzate e spesse lungo la maggior parte delle tavole, orme opache di impronte in attesa di essere lucidate dalla pulizia quotidiana a cui erano costretti kohai musoni e senpai volenterosi. Lui non aveva pulito il campo da che gli era stato permesso di evitarlo, quindi non era mai stato uno di quei senpai volenterosi e dedicati di cui tanto si parlava. Se possibile, era uno di quelli che si metteva in posa nel punto più alto raggiungibile fisicamente e comandava la gente in giro con la voce più odiosa del proprio repertorio, ma Kita-san li aveva sempre aiutati e lui stimava Kita-san e la sua fissa per la pulizia. Come stimava Aran-san per le sue risposte sempre pronte e le sue braccia enormi fatte solo per accogliere mocciosi piagnucolosi di ogni età.

Se pensava agli anni passati ricordava perfettamente il sentore fresco e pulito che aleggiava sempre intorno a Kita-san, il calore piacevole e rassicurante di Aran-san, il voto di Kita-san al detergente disinfettante che utilizzava per pulire qualsiasi cosa, tanto che l'intero spogliatoio odorava irrimediabilmente di ospedale e probabilmente l'avrebbe fatto per i secoli a venire, alle sgridate di Aran-san quando lui e Samu cercavano un modo per defilarsi dai loro turni di pulizia e finivano irrimediabilmente a prendersi a pugni da qualche parte, Suna ovviamente presente e pronto a fotografare tutto.

Il campo con il parquet era l'essenza della sua crescita, della sua formazione, della sua determinazione. Era la maniglia a cui si era agganciato quando le cose cominciarono ad andare troppo veloci in troppo poco tempo, quando non era pronto ma doveva esserlo, quando non aveva altra scelta che alzare la testa e dare il meglio di sé.

Era la quantità imbarazzante di chiodi che sporgevano da tavole storte, impigliandosi in pantaloncini e magliette, forando e graffiando per disattenzione e segnando sgridate epocali una volta tornati a casa. Era l'emblema dei cigolii sinistri che riusciva a malapena ad avvertire durante l'allenamento ma che diventavano terrificanti quando era l'ultimo a dover uscire dalla palestra e ad attraversarla veloce a luci spente, sentendole echeggiare in ogni angolo buio e minacciandolo di minimo tre infarti ad ogni passo. Era l'odore calmante del legno vecchio e del lucido stantio quando si agitava troppo per una battuta che non voleva riuscire o per un'alzata non sfruttata a dovere.

Era tutto quello e non era niente. Perché adesso giocava su un altro campo e non c'era legno. Non c'erano rumori strani. Non c'erano chiodi pericolosi a minacciarlo con il tetano.

La prima volta che era entrato in una palestra del genere per degli allenamenti aveva quindici anni. Poi sedici. Poi diciassette. E poi in pianta stabile, fino a che probabilmente non lo avrebbero cacciato a pedate.

I suoi riferimenti olfattivi erano stati destabilizzati, come un animale inserito in un nuovo ambiente. L'unico che aveva riconosciuto e lo aveva aiutato a tranquillizzarsi era l'odore specifico e familiare del disinfettante, all'epoca sempre attaccato a un ragazzino allampanato con due nei in fronte che lo incuriosiva da morire in più di un modo.

Con il tempo si era abituato: aveva fatto suoi alcuni elementi d'appoggio e cancellato quelli vecchi, gli piaceva più il pavimento sicuro di adesso che quello in legno di prima, i rumori che non sapeva spiegare li aveva lasciati felicemente alle spalle.

C'erano comunque alcuni punti fermi che lo mantenevano a suo agio, che gli davano la sensazione di essere nel posto giusto per lui: la trama rassicurante della palla da pallavolo, che passava tra le dita tracciandone le cuciture con devozione, ad esempio, e l'odore antisettico dello stesso ragazzino di anni prima, ormai diventato uomo.

TheoremWhere stories live. Discover now