«Esci dalla mia testa, esci dalla mia maledetta testa!» urlò rauco a qualcuno di inconsistente, contorcendosi da un dolore sordo e pulsante. La sua schiena si incurvò in avanti, all'interno dei vestiti quasi trasparenti si potevano contare le curve morbide di una colonna vertebrale perfetta. Colline invalicabili, da sfiorare solo con un tocco leggero di morbidi polpastrelli. Aveva la sensazione di stare impazzendo, di perdere il completo controllo di se stesso. La paura prese il sopravvento; i rumori esterni erano ovattati e la sua esistenza stava cadendo verso un buco nero dove avrebbe intravisto solo oscurità, distruzione eterna.
Fin quando, qualcosa in sottofondo non lo ridestò dalla sua viscerale alienazione. Si immobilizzò per ascoltare mugugni melodici, canto sommesso di una triste voce danzare tra soffi leggeri di un'eco portatore di nuova curiosità. Gli occhi del ragazzo rimasero a guardare la ghiaia e la terra arida, costernata di minuscole formiche camminare in fila indiana per tornare al loro nido fatto di cunicoli, gallerie sotterranee prive di luce. Rimase ammaliato da sospiri armonici, canzone sussurrata per un evento speciale.

Il giovane dai lineamenti affilati riuscì con difficoltà a calmare il suo sgomento. Si ricompose come si fanno con gli oggetti caduti a terra, per poi essere risistemati con la colla e rimessi al loro posto per vivere qualche altro anno, prima di finire tra frammenti di memoria dimenticati. Issò la schiena e guardò davanti a sé l'imponente muratura rossastra, diventata ormai sua seconda dimora dove poter riposare le sue stanche membra simili a porcellana. Il cortile era pregno della sua infanzia, di risate giocose di bambini alle prese nell'arrampicarsi sul noce, nello stendersi tra le spighe del grano e osservare tutte le forme più strane delle nuvole, zucchero filato di un mondo fatato rimasto intrappolato in un'immaginazione effimera.
Era rimasto colpito dal fatto di non ricordare come ci fosse arrivato. Sapeva a memoria la strada e non si rese neanche conto di quali cunicoli avesse imboccato, qualsiasi cosa lui facesse lo riportava sempre da Matilde. Era lei il suo centro gravitazionale, magnetismo autonomo usato per trasgredire le leggi stesse della fisica.

Si mise a cercarla con lo sguardo tra una finestra e l'altra. Non ricevendo alcun segno della sua presenza, gridò il suo nome per farsi sentire oltre il vetro. Le parole vennero trasportate in mezzo alla brezza del tardo pomeriggio, gli uccelli di rimando pigolavano tra un ramo e l'altro del noce. Nessuno rispose, ma la cantilena sommessa si fece sempre più vicina. Spostò lo sguardo verso sinistra, dove Alberto teneva un piccolo pollaio insieme ad alcuni conigli. Venivano allevati per poi essere mangiati da bocche fameliche, rabbiose di carne fresca, fino a riempire stomaci di ferro e fegati malati di alcool.

Ammaliato da mormorii soavi, si incamminò verso la recinzione e tra fili di ferro, staccionate distrutte dall'edera, notò la giovane accarezzare piume morbide di un marroncino tendente al rame di una gallina accovacciata in un nido di paglia. La bestia era assuefatta dalla voce delicata, vibrante, all'interno delle corde vocali, mentre la solita espressione vuota, lontana, studiava con attenzione ogni movimento dell'animale. Poteva sembrare all'inizio una scena bizzarra, a tratti divertente, ma nulla era come appariva. Matilde non faceva mai azioni insensate, dietro ai suoi gesti si nascondeva sempre qualcosa di macabro, inaspettato.

«Matilde, che stai facendo?» domandò il ragazzo rimasto a guardare da dietro le quinte, spettatore curioso di una tragedia greca.
Smise di cantare non appena sentì la voce del suo amico entrargli nei timpani. Il silenzio riempì l'atmosfera di una tensione lasciva al male, di movimenti rituali che non avrebbe mai voluto assistere. Non gli rivolse un minimo sguardo, doveva portare a termine ciò che aveva iniziato, ma le parole gli scivolarono dalle labbra come saliva superflua, liquidi in eccesso da sputare fuori, prima di affogare nel suo stesso muco.

«Questa gallina è troppo vecchia, non riesce più a fare le uova» pronunciò fredda, lisciando il manto pieno di sfumature tendenti al bianco fino al rosso rame. Era molto legata a ogni animale da lei accudito. Fin da bambina, amava canticchiare nuove melodie a esseri indifesi pronti per il macello. Si occupava spesso di farli restare tranquilli prima di essere uccisi dalle mani grosse e callose del padre, di veder svanire il loro luccichio negli occhi piccoli e scuri. Era la loro allevatrice prima della dipartita, una giovane divertitasi a prendere i panni di una morte pigra, a tratti sadica. «Mio padre mi ha dato il compito di ucciderla,» continuò, cercando di mantenere il controllo di ogni emozione; annullarle nell'attimo stesso in cui si presentavano all'interno delle sue sclere, arrossando fiumi e affluenti di capillari intrecciati «di solito mi limito solo a donarle qualche istante di tranquillità, ma stamattina mi sono fatta scappare una volpe e per punizione mi ha incaricato questo fardello.» Prese con delicatezza la bestia sonnolenta tra le sue braccia, bloccandole le ali tra le scapole e la curvatura del braccio in modo da non divincolarsi una volta afferrata la testa. Stava espiando una pena che non le apparteneva, dopotutto era solo una scusa per non far scoprire l'esistenza di un essere umano interrotto dalle ingiustizie della vita. Il suo corpo penzolante, rimasto per alcuni secondi appeso a un ramo di una vecchia quercia, ancora le attanagliava i ricordi e smembrava sogni rendendoli un ammasso informe di figure distorte, corrotte. Soprattutto non riusciva a dimenticarsi delle sue perlacee lacrime, mischiate all'icore intenso dei suoi capelli arruffati, simili a fiamme di un incendio ingestibile, divampato in una foresta e decimato l'intera selvaggina.

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