9. Quattro settimane prima

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Dormi, dormi

Vasco Rossi

 

Le palpebre sembrano di cemento, sollevarle è un atto che ha del sovrumano. Non ho nemmeno sentito la sveglia, eppure ieri sera siamo andati a dormire presto.

Il ricordo di Andrea sopra di me accarezza i miei pensieri.

Sorrido.

Lo ammetto: non così presto, ma nulla che giustifichi questa spossatezza.

Andrea... Mio Dio, aveva quell’incontro così importante!

Vorrei sincerarmi che almeno lui si sia svegliato, ma aprire gli occhi è davvero impossibile, così come ruotare completamente la testa. Lo cerco con la mano: il braccio dopo alcuni centimetri si blocca.

La sensazione di smarrimento iniziale diventa angoscia, il cuore accelera i battiti.

Strattono il braccio a lato, ciò che ne esce è un movimento debole e contratto. Riprovo una, due volte, alla terza riesco a distendere l’arto; qualcosa si strappa, la pelle dell’incavo sopra il gomito si inumidisce.

Anche le palpebre obbediscono, si schiudono in una fessura attraverso la quale, finalmente, posso vedere.

E ciò che vedo non mi piace.

Apro completamente gli occhi, non è lo stesso posto dove mi sono addormentata ieri sera: il soffitto è chiazzato da un riverbero verdastro, ho la vista offuscata, mi rendo conto che tra me e il mondo c’è un telo di plastica trasparente.

Faccio leva sui gomiti e mi metto seduta: so dove sono, ma non è possibile.

Il contenuto della flebo continua a gocciolare sulla pelle, strappo anche la seconda striscia di stoffa adesiva che fissa il tubo al braccio.

Questa è la stanza dove da mesi accudisco la donna in coma, ma sotto la tenda a ossigeno ora ci sono io.

Riesco a mettermi sul bordo del letto, poso i piedi sul pavimento, le gambe reggono.

Muovo un passo, posso farcela, scosto la tenda.

Un secondo passo e la clip dell’ossimetro si stacca dall’indice, in quell’istante tutti i monitor impazziscono: per loro sono morta.

È certamente un incubo, ma non riesco a svegliarmi.

Proseguo camminando a fatica verso la porta e la apro.

Nessuno.

Oltrepasso la soglia e mi ritrovo nel seminterrato.

La testa gira.

Striscio contro il muro, impiego un paio di minuti per percorrere tutto il corridoio, molti di più per salire l’unica rampa di scale che porta al pianterreno.

La luce che arriva dal salone mi offende gli occhi, li riparo col dorso della mano, quando la tolgo vedo la mia immagine riflessa nella specchiera: ho un aspetto orribile, i capelli bianchi, che spuntano tra quelli neri, sembrano ancora di più.

Un rumore mi distoglie, guardo attorno e vedo il carrello porta mazze da golf di Andrea; scelgo il ferro più pesante, trascinandolo cammino in direzione dell’acciottolio proveniente dalla cucina, mi fermo con la spalla a lato dello stipite della porta, stringo con entrambe le mani l’impugnatura, pronta a “fare irruzione”.

Carico tutti i muscoli, conto mentalmente da tre a uno e mi lancio dentro la stanza. L’adrenalina non fa il suo dovere, sento le gambe sgretolarsi appena sotto le ginocchia: la mazza vola sul pavimento. Se resto in piedi è solo grazie al frigorifero.

Davanti a me in short e canottiera una donna, con gli auricolari alle orecchie, affetta alcune verdure. Non si è ancora accorta di nulla.

Respiro a fondo, riesco di nuovo a reggermi in piedi, con passo incerto mi avvicino alla mazza, piegarmi per raccoglierla è una sfida alla sorte: ovviamente vince lei e io rotolo a terra come un insaccato qualsiasi, con me porto un vaso di cristallo. Questa volta faccio davvero troppo casino e in pochi istanti la donna è sopra di me.

E io la vedo in faccia.

– Tu! – diciamo all’unisono.

Non svegliarmiWhere stories live. Discover now