Capitolo 16.

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Elena

Arriviamo al suo locale che abbiamo percorso quasi mezza città ed è buio pesto ormai, tanto che sono costretta a far luce con la torcia del telefono per riuscire a fargli infilare la chiave nella serratura della porta ed aprirla.
Mi fa strada tra i tavoli, con le luci centrali della sala che iniziano a riscaldarsi e ad illuminarci.
E' questo che mi permette di guardarmi attorno, è il vuoto del locale, le sedie sopra i tavoli, il silenzio intorno, a farmi provare qualcosa che non dovrei, o forse sì.

Eppure mi blocco automaticamente lì in mezzo, il mio stomaco ha un tumulto e il mio cervello inizia ad elaborare tutte le informazioni e le immagini di noi due, soli, di notte, dentro il suo locale e non ce la faccio, non di nuovo.

Le mie braccia si stringono da sole, in modo istintivo, intorno al mio cardigan, c'è qualcosa di molto sbagliato in tutto questo, non mi piace e non dovrei essere qui, nulla di tutto questo fa parte dei piani, quella passeggiata, le sue mani, i nostri sguardi, niente, niente.

E non riesco a controllare il mio corpo, né il mio sguardo che si accende di tutto il rimorso, il senso di colpa, la rabbia che provo per me, per lui, per quello che ha fatto a Megan e, a... me.

Me ne voglio andare, adesso.

«Sta' tranquilla, prendo i documenti che volevi e ce ne andiamo. Puoi restare lì imbambolata se vuoi, torno subito.»

Di nuovo mi sente e mi vede, come a leggermi dentro e mi dà le spalle sparendo nel suo minuscolo ufficio, lasciandomi lì come una ragazzina di cinque anni, solo che la sua voce sarcastica e tagliente ha l'effetto di una corda ed invece di spezzarsi e scagliarmi via, mi tira a sé.

Lo raggiungo con pochi passi, aspetto si accorga di me, o mi parli, mi guardi, mi dia quei fogli e mi lasci libera di andarmene da qui.

Ma lui traccheggia, si siede sulla poltroncina, apre i cassetti della sua scrivania, tira fuori delle carte, le osserva, le rimette a posto, poi ne trova delle altre e ripete il ciclo. Sposto per un attimo lo sguardo, infastidita da non so bene neanche cosa, lo faccio ruotare su cose indefinite, non faccio in tempo a chiedermi a cosa possa servirgli un divano che mi rispondo da sola e provo un senso di disgusto pensando a tutte le donne passate da qui, compresa probabilmente la mia migliore amica.

Picchetto nervosa con le dita sulle mie braccia incrociate, ma gli occhi mi cadono sulla parete alle sue spalle, sullo scaffale in legno scuro dove due foto mi bloccano a mezz'aria le mani.

Non lo ricordavo così suo fratello, in realtà non lo ricordavo affatto, aveva più o meno la mia età, lo vidi di sfuggita per la prima volta un pomeriggio a casa Spencer, eppure non lo incontrai quasi mai in nessuna festa, era davvero poco più di un ragazzino anche lui, gli occhi però erano gli stessi dell'uomo nella foto.

Rideva Mattew e lo abbracciava, mentre Ian lo guardava con uno sguardo che non avevo mai visto, scocciato come al suo solito, ma dolce, amorevole quasi.

E poi l'altra, la foto accanto, di una donna bellissima, con i capelli raccolti in uno chignon morbido, gli occhi di un azzurro che invece conosco e un sorriso tenero mentre stringe tra le braccia un ragazzino di poco più di cinque anni, di cui si scorge appena il viso imbronciato, che ha tutta l'aria di essere proprio l'uomo che ho davanti.

E' il rumore di un cassetto chiuso con forza ad allertarmi, è Ian che ha raccolto tutto e si è alzato dalla sedia per venirmi incontro.

«Quando hai finito di impicciarti, questo è tutto quello che sono riuscito a trovare.»

Mi passa accanto superandomi, senza rivolgermi neanche uno sguardo e non ne comprendo il motivo, non capisco il suo tono ora, non so cosa io abbia fatto per scatenare il suo fastidio e la sua distanza, non penso di meritare nulla di tutto ciò, sono io a poter avere invece tutte le ragioni.

Relazioni PericoloseWhere stories live. Discover now