FEAR - Contact Saga vol.1 [Ca...

Per Elaine_Morgan

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Primo capitolo della Contact Saga. Se l'inaspettato stravolgesse d'un tratto la tua esistenza, a cosa saresti... Més

CARTACEO ED E-BOOK
0 - Buio
1 - Un motivo per cui sorridere
2 - Sciacallo
3 (pt. 1) - Presenze nel buio
3 (pt.2) - Presenze nel buio
4 - Muore la speranza
6 (pt.1) - Colpevole
6 (pt.2) - Colpevole
7 - Scelte azzardate
8 - Calma apparente
9 (pt.1) - Bambole rotte
9 (pt.2) - Bambole rotte
10 (pt.1) - Lucchetti di carne
2° LIBRO PUBBLICATO!
3° LIBRO PUBBLICATO!
10 (pt.2) - Lucchetti di carne
La CONTACT SAGA È FINITA

5 - Senza meta

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Per Elaine_Morgan

Nel silenzio innaturale calato sul parco, d'un tratto una voce echeggia in ogni dove, rimbombando persino negli anfratti più reconditi del mio corpo: «Che cazzo ci fai tu qui?»

Raggomitolata come sono su me stessa, rilasso appena i muscoli contratti e mi guardo attorno, chiedendomi per quale oscuro motivo io sia ancora viva e vegeta. Si tratta di una specie di miracolo insperato? O sono già morta e non me ne sono nemmeno accorta?

Lancio un'occhiata a Owen, aspettandomi di vedere il suo ghigno distorto, le mani ad artiglio protese verso di me e gli occhi da cacciatore ridotti a due fessure, invece noto che anche lui sta tentando di capire chi sia stato a parlare.

Torno allora a scrutare tutto attorno a me, nella luce sempre più intensa dell'alba, e infine individuo la sagoma scura dello sconosciuto, colui che ha interrotto il mio - ex - migliore amico prima che mi saltasse alla gola. È in perfetto equilibrio sulla cancellata argentea che circonda il parco, le mani poggiate sui fianchi di un corpo piuttosto minuto, i capelli castani e scarmigliati che somigliano alla criniera di un leone. È... è una donna.

Per un attimo, un bellissimo, intenso attimo mi ritrovo a credere di essere in salvo. Penso che quella donna sia la mia eroina, colei che mi strapperà a una morte violenta e penosa e che mi permetterà di tornare tutta intera da Liam.

Tuttavia, non mi ci vuole che un istante di più per rendermi conto che anche lei è come Owen e sento il respiro frantumarsi in mille pezzi. Non so come sia riuscita a capirlo, in realtà. Forse dalla postura sicura e dall'aura di pericolo che emana, forse dal fatto che non sembra avere per nulla paura dell'essere che mi sta braccando. O più semplicemente grazie all'istinto di conservazione che ha acceso l'ennesimo campanello d'allarme nella mia testa.

«Che vuoi? Sono impegnato, al momento» ringhia Owen dal canto suo, digrignando i denti in direzione della sconosciuta. La sua postura si è fatta tutto a un tratto rigida, come se si sentisse minacciato dalla presenza della nuova venuta.

La donna, in risposta, ride in modo sguaiato, tanto da ricordarmi una iena. Scende dalla cancellata con un balzo e prende a camminare nella sua - nostra - direzione. «Sei impegnato, tesorino? E a fare cosa?»

«Sto cacciando, sei cieca? Lasciami stare. Vattene.»

«Stai cacciando» ripete lei mentre continua ad avanzare, chiudendo le mani ad artiglio per poi riaprirle. Mi lancia un'occhiata e vedo i suoi occhi scuri accendersi di desiderio, alimentati da quella che, ne sono sicura, è pura e semplice fame. «Vedo. Sembra appetitosa, la tua amichetta.» L'istante dopo, il suo sguardo torna sul suo simile e aggiunge in un sibilo minaccioso: «Questo, però, è il mio territorio, piccolo sgorbio. Sarebbe meglio che tu te ne andassi. E in fretta. O preferisci che ti apra la pancia?»

Owen sembra essersi del tutto dimenticato di me. Si volta, dandomi le spalle, e ride, sicuro di sé esattamente come quando era ancora umano. Forse persino di più. «Oppure potrei essere io ad aprire la pancia a te. Vogliamo scommettere?»

Non capisco. Perché quei due stanno discutendo, anziché allearsi per uccidermi più facilmente? Sarei una preda facile e scommetto che avrebbero entrambi di cui sfamarsi a sufficienza. Ma pare che la rivalità che scorre tra loro sia più forte persino della fame.

Non che me ne dispiaccia.

Approfitto del fatto che entrambi sembrano essersi dimenticati di me per indietreggiare lentamente fino a quando la siepe che circonda il parco non mi inghiotte del tutto. E dal mio nascondiglio assisto alla scena.

I mostri si studiano a vicenda, i corpi immobili, il silenzio rotto solo dai loro ringhi minacciosi, l'aria carica di elettricità statica. Dopodiché, a una velocità quasi impossibile da registrare per i miei occhi, i due si lanciano l'uno contro l'altra e prendono ad azzuffarsi come belve assetate di sangue. Dalle loro fauci scaturiscono versi e ringhi che sembrano grottesche imitazioni del mondo animale.

Prendo in considerazione di scappare mentre i due sono impegnati a scannarsi a vicenda, ma purtroppo lo scontro non dura molto, tutt'altro. Per qualche oscuro motivo, Owen è nettamente più debole della donna - nonostante la sua doppia stazza - e poco a poco lo vedo soccombe sotto i suoi colpi, fino a ricevere un pugno particolarmente violento alla mascella che lo fa accasciare a terra, privo di sensi.

L'altro mostro sogghigna, squadrando con soddisfazione il corpo svenuto dell'avversario, dopodiché si guarda attorno. Sta cercando me? Resto immobile, senza nemmeno respirare, il cuore che probabilmente ha smesso di battere. Avrei dovuto fuggire! Avrei dovuto provarci! Ora non ho scampo.

Eppure sembra che la donna non voglia me. Sta valutando cosa fare, almeno così pare. Un attimo dopo, a conferma di ciò, afferra Owen per le caviglie e lo trascina lontano, il suo corpo massiccio da giocatore di football che sussulta, inerme, sul terreno. E non so con quale intento lo stia portando via, ma - a essere sincera - non mi importa.

A questo punto, vorrei poter gioire nell'aver visto sparire entrambi i mostri, nel ritrovarmi di nuovo sola; ma ho il terrore che si tratti di una falsa speranza: e se quella creatura si fosse allontanata solo di pochi passi e stesse aspettando di vedermi uscire allo scoperto, convinta di essere salva, per acciuffarmi? Del resto, per lei come per Owen la caccia dev'essere un gioco. Probabilmente quei mostri traggono piacere nel torturare le loro vittime, prima di ucciderle e mangiarsele. È un pensiero tremendo, tuttavia non credo si discosti troppo dalla realtà.

Attendo per un tempo infinito nel mio nascondiglio, il corpo dolorante per i tremori dovuti alla paura, fino a quando mi ritrovo a dire a me stessa che non posso restarmene qui tutto il giorno a pregare: se lei fosse ancora nei paraggi sarebbe ormai uscita allo scoperto, no?

E se invece Owen, nel frattempo, si fosse ripreso e ora stesse per raggiungere casa mia, in cerca di vendetta? Liam potrebbe essere in pericolo!

È questo pensiero terrificante il motivo per cui mi costringo a racimolare le ultime briciole di coraggio e a strisciare fuori dalla siepe, lasciando da parte la prudenza.

Una volta fuori mi guardo attorno con circospezione, nella luce del sole mattutino che è da poco sorto, e mi accingo a scappare, arrampicandomi di nuovo sull'albero dai rami contorti e lasciandomi ricadere in strada. Nell'impatto con il terreno la caviglia ferita esplode di dolore, strappandomi un ringhio dalle labbra, ma stringo i denti e mi rialzo in piedi. Scruto la strada deserta e prendo a correre verso casa. Verso Liam.

***

Una volta tra le familiari e confortanti mura di casa, non perdo un solo secondo: mi dirigo all'enorme scalinata che dall'atrio porta al primo piano, dove ci sono le camere da letto, lo studio e via dicendo, e salgo i gradini due per volta. Sono sfinita e la gamba ferita pulsa con un'accanita insistenza, ma non mi fermo a pensare né a lamentarmi: non posso permettermelo.

Raggiungo il primo piano, quindi quella che una volta era la mia camera da letto. Si tratta di una stanza grande, ariosa, con le pareti azzurro cielo, il parquet a terra e un'immensa vetrata che dà sul giardino, dalle cui imposte bianche e chiuse riesce sempre a penetrare lo stesso qualche raggio di sole, il quale fa si che l'ambiente, a quest'ora del mattino, sia immerso in una penombra quasi magica.

Subito, comincio a cercare nell'armadio in legno di noce posto alla mia destra lo zaino di scorta, dal momento che quello nero è rimasto nel vicolo dove Owen mi ha trovata. Vorrei tanto poterlo recuperare, date le numerose scorte che contiene, ma non credo sia possibile, devo farmene una ragione.

Finalmente trovo lo zaino di riserva. È fucsia, non esattamente adatto a passare inosservato, ma non posso farci niente. Lo apro, quasi strappandone la cerniera nella foga, e vi infilo alla rinfusa due paia di jeans, un maglione, qualche felpa e della biancheria, presi dai cassettoni accanto al letto.

L'attimo dopo attraverso il corridoio e mi dirigo nella cameretta di Liam – anch'essa dalle pareti azzurre, ma con il pavimento ricoperto da una morbida moquette blu, diversi giocattoli sparpagliati su di essa. Spalanco cassetti e ante finché mi convinco di aver preso abbastanza abiti da poterlo tenere pulito e asciutto per qualche giorno.

Mi volto dunque, pronta a raggiungere mio fratello e spiegargli che dobbiamo andarcene il prima possibile da qui, quando noto stagliarsi sulla soglia buia della stanza una sagoma oscura che mi osserva.

Il cuore mi si ferma.

Mi ha seguita fin qui.

Era una trappola.

Siamo morti.

Il primo istinto è quello di gridare con tutto il fiato che ho in corpo, l'orrore che cerca di prendere il sopravvento sulla ragione; tuttavia mi rendo conto un attimo prima di lasciarmi sfuggire l'urlo di bocca che non si tratta di Owen, né dell'altra donna-mostro che ho avuto il piacere di incontrare poco prima. È Bonnie.

Sollevata al punto da sentirmi quasi male, raggiungo il pastore scozzese in pochi passi e mi lascio cadere accanto a lei. «Bonnie» sussurro in un ansito, a metà tra un sospiro e un singhiozzo. Stringo forte le braccia attorno al suo corpo caldo: mentre ero preda di Owen mai avrei pensato di poter provare ancora una sensazione di calore e conforto così intensa.

Introduco le dita nel pelo morbido della collottola e la carezzo. «Dobbiamo andare via, Bonnie.» La guardo negli occhi tondi e castani, così espressivi da sembrare umani. So che non può capire le mie parole, ma la mia voce trema terribilmente e così pure le mie mani: ho paura e questo sono certa lei possa avvertirlo.

Infatti Bonnie mi lecca un polso, insinuando la lunga lingua rosata sotto il polsino della felpa. Che stia cercando di tranquillizzarmi? Può essere, non me ne stupirei affatto: un cane può spesso dimostrarsi più empatico di molte persone. Malgrado ciò, c'è ben poco da stare sereni: dobbiamo scappare il prima possibile da qui, prima che Owen si riprenda e mi venga a cercare, decretando non solo la mia fine, ma anche la sua e, soprattutto, quella di Liam.

Con questo terribile pensiero che mi opprime, togliendomi il respiro, scendo velocemente le scale che portano al piano terra e imbocco subito quelle per lo scantinato, dove ho lasciato mio fratello ore fa. Una volta nel seminterrato, raggiungo Liam nel vano sottoscala e mi introduco senza troppi convenevoli nel piccolo rifugio.

È vuoto.

Il cuore mi fa una capriola nel petto.

«Liam!» bisbiglio cercando mio fratello tra le coperte. «Liam, dove sei? Liam, sono io.» Alzo la voce, continuando a frugare tra le lenzuola, insozzandole del fango che mi ricopre da capo a piedi. Non c'è! «Liam!» Ormai sono nel panico più totale, sto per sentirmi male.

«Lizzy?»

Oh Dio, grazie. «Liam, dove sei?» Esco dal nascondiglio, capendo che mio fratello non è sotto le coperte, e mi guardo attorno nel buio, ancora quasi del tutto cieca.

«Lizzy, sei tu?» chiede una flebile vocina, poco lontana.

Non capisco dove sia nascosto. «Sono io, Liam» rispondo in un singulto, sull'orlo del pianto. «Esci, ti prego! Dobbiamo andare via da qui. Subito.»

Finalmente, una piccola figura appare nel buio e mi viene incontro correndo. «Lizzy!»

Mi chino e abbraccio mio fratello, sollevandolo da terra. «Stai bene?» gli domando con un soffio di voce, scostandogli i capelli dal viso per assicurarmi che sia tutto a posto. Mi sembrano trascorsi secoli da quando l'ho lasciato, invece sono passate solo poche ore.

Lui annuisce in risposta, le gambe incrociate attorno ai miei fianchi. «Bonnie ha fatto la guardia e non è venuto nessuno nessuno!»

Gli sorrido, anche se non so dove ne trovo la forza. «Bene, cucciolo, siete stati bravi. Ora però dobbiamo andare via.»

«Dove? Andiamo a fare una gita?»

Mi mordo il labbro inferiore e avverto sapore di terra in bocca. «Una specie.»

Liam esulta.

Quanto vorrei poter essere anche io così spensierata, quanto vorrei che ci fosse qualcuno a prendere le decisioni al posto mio, levandomi questa terribile responsabilità.

Non voglio spaventare mio fratello, per cui mi sforzo di tramutare il tutto in una sorta di gioco. «Se vogliamo davvero fare questa gita però, ci sono alcune regole importanti da rispettare assolutamente» lo avviso mentre lo deposito a terra e gli risistemo con cura la canotta nei pantaloni.

«Cioè?»

«Innanzitutto, dovrai essere sempre molto bravo e fare tutto quello che ti dirò. Va bene?» Attendo il suo cenno d'assenso e aggiungo: «E, come seconda regola, dovrai sempre stare in silenzio, a meno che non sarò io a dirti che si può parlare. E non ti dovrai allontanare mai e poi mai da me e da Bonnie. Dovremo stare sempre insieme. È tutto chiaro?»

«Uff, va bene. Ma si vince qualcosa se si fa i bravi, vero?»

Oh, sì. La ricompensa è rimanere in vita. «Mmh... Si vince un bel gelato, tutti insieme.»

«Anche per Bonnie?»

«Anche per Bonnie» gli assicuro. Non mi piace mentirgli, ma in un caso come questo non ho molta scelta. «Inoltre non ci sarà nessuno di quei brutti mostri a darci fastidio.»

Per un momento mio fratello tace. Sembrava ormai convinto, entusiasta di iniziare il gioco che ho proposto, invece d'un tratto si rabbuia e chiede, scrutandomi di sottecchi: «E la mamma e il papà tornano da noi, se vinciamo?»

Mi blocco, senza idea di che cosa rispondere. Non posso mentire anche a tal riguardo. Non posso illuderlo. Sarebbe meschino da parte mia. «Loro... loro non...»

«Non tornano, vero?»

Guardo Liam. Incrocio i suoi occhi azzurri, sinceri. Scuoto la testa.

Lui continua a tenere gli occhi fissi nei miei. Il suo sguardo, solitamente dolce e caloroso, è ora duro, rabbioso. «Lo sapevo» ringhia, serrando le labbra in una linea sottile, facendole quasi scomparire. «Sono andati via e ci hanno lasciati da soli. Sono cattivi.»

Per un attimo mi convinco che il mio cuore si sia fermato nel sentire le parole appena pronunciate da mio fratello. «No, Liam. No» bisbiglio scuotendo il capo, nuove lacrime che minacciano di scendere. «Non dire così. Mamma e papà non sono cattivi. Non dirlo più.»

Ma lui non vuole saperne nulla di ciò che sto dicendo. Si dimena finché non lo libero dalla stretta in cui lo tenevo, dopodiché mi urla addosso: «Sì, invece. Ci hanno lasciato da soli! Se erano buoni mica lo facevano!» Poi scoppia a piangere e corre a nascondersi nella tana.

So che non c'è tempo, so che dovrei prenderlo di peso e trascinarlo con me, eppure non posso lasciare che Liam, il mio Liam, soffra in questo modo. Lo raggiungo attraverso il pertugio e lo abbraccio, stringendolo forte e cullandolo tra le mie braccia anche se lui non vuole e cerca di allontanarmi. «Non piangere, cucciolo mio» gli sussurro in un orecchio. «Va tutto bene. Ci sono io qui con te. Ci sono io.»

«Voglio la mamma!» singhiozza lui, nascondendo il viso nel mio collo, inondandomi di lacrime amare. «Voglio la mamma e il papà!»

«Lo so» gli assicuro, avvertendo i miei stessi occhi inumidirsi. Gli carezzo la schiena squassata da singulti tremendi e aggiungo con tutta la dolcezza possibile: «Ora però siamo io e te, Liam. Mamma e papà hanno fatto di tutto perché rimanessimo al sicuro e ora ci guardano dal cielo e ci proteggono.»

A queste parole, Liam si scosta appena e mi scruta con un'espressione così triste che mi piange il cuore. Tira su con il naso. «Come fai a saperlo?» chiede in un bisbiglio, asciugandosi gli occhi coi pugni serrati.

Gli sfioro una guancia con una nuova carezza. «Perché loro ci volevano tanto bene, cucciolo, e quando si ama qualcuno non lo si lascia mai per davvero. Ora sono qui» sussurro, premendo un dito al centro del suo petto. «Sono nel mio e nel tuo cuore. Lo saranno per sempre.»

«Davvero?»

«Davvero.»

«Però io non li sento.»

Gli sorrido. «Devi solo ascoltare con più attenzione. Io riesco a sentirli, sai?»

Le lacrime e la rabbia sono ormai scomparse dal viso di Liam mentre mi chiede: «E che cosa ti dicono adesso?»

Abbiamo già sprecato molto tempo prezioso, quindi prendo al volo l'occasione e sussurro: «Adesso stanno dicendo che ci vogliono tanto, tanto bene. E anche che vogliono che facciamo quel gioco di cui ti parlavo poco fa. Sei pronto?»

Liam mi lancia un'occhiata perplessa. «Vogliono che giochiamo?»

Annuisco. «Certo, perché è un gioco molto importante.»

Lui pare scettico, tuttavia la prospettiva di giocare lo alletta, quindi scrolla le spalle e infine si arrende alla mia volontà.

Entrambi strisciamo fuori dalla tana, prima io e subito dopo mio fratello. Mentre Liam mi segue con lo sguardo, io mi attardo a racimolare accuratamente tutto il poco cibo che ci rimane, sufficiente per appena un giorno – a essere ottimisti –, dopodiché lo prendo in braccio e raggiungo l'atrio. Una volta qui recupero Bonnie, che ci aspettava pazientemente vicino alla porta d'ingresso, e lo zaino con i vestiti, sistemandovi dentro le magre scorte che ho messo insieme; dopodiché mi dirigo all'autorimessa, decisa a "prendere in prestito" una delle auto di papà per fuggire da qui. Non credo se ne dispiacerà.

Una volta raggiunto il garage – un grande stanzone dalla pareti bianche, tutte tappezzate dei premi vinti da mio padre durante le numerose esposizioni a cui ha preso parte negli anni –, mi fermo sulla soglia, riflettendo. Ho la bellezza di due veicoli tra cui scegliere: un modello sportivo e un suv.

A differenza di mio padre, non sono un'esperta di automobili; anzi, so a malapena guidare senza infrangere il codice stradale, a voler essere sinceri.  È quasi esclusivamente il "fattore carburante" a condurmi nella scelta: non voglio rimanere a secco dopo poche miglia di strada, mettendoci ancor di più in pericolo. È per questo che, alla fine, propendo per il Range Rover.

Senza perdere altro tempo, recupero le chiavi dell'auto prescelta da una mensola, carico lo zaino sul sedile posteriore, in pelle chiara, e vi faccio salire anche Bonnie, che obbedisce senza esitazione. Dopodiché mi volto, pronta a sistemare Liam sul sedile del passeggero, ma, con sgomento, mi rendo conto che mio fratello è scomparso.

Mi faccio prendere dal panico all'istante e, anche se so che non dovrei farlo, mi ritrovo a urlare a squarciagola il suo nome mentre torno sui miei passi.

«Liam!» grido nell'atrio, sentendomi il cuore palpitare in gola. «Liam, ti prego! Rispondimi!»

Qualche istante dopo, grazie a Dio, lo vedo scendere due gradini alla volta la scalinata che porta al piano superiore. Tra le mani tiene stretto qualcosa.

Lo raggiungo a metà scala e lo sollevo da terra, stringendolo forte, rincuorata nel rivederlo sano e salvo. «Liam! Cosa ti passa per il cervello? Sei impazzito?» strillo, furiosa con lui per avermi fatto spaventare.

«Ho preso Buddy!» si scusa lui, mortificato. Mi mostra il delfino di peluche che ha recuperato dalla sua camera da letto e si nasconde dietro di esso, sapendo bene quanto sono arrabbiata.

Da parte mia, traggo un lungo sospiro e lo lascio andare. «Okay» dico, più a me stessa che a lui, come per rassicurarmi. «Okay, va tutto bene» ripeto ancora, subito dopo prendo di nuovo mio fratello per mano e insieme scendiamo le scale di marmo, dirigendoci di nuovo verso l'autorimessa.

Una volta lì, mi avvicino al suv grigio metallizzato, dal cui finestrino posteriore Bonnie ci spia, apro la portiera del passeggero e faccio subito sistemare Liam sul sedile di pelle, allacciandogli con accuratezza la cintura di sicurezza, le mani che tremano come impazzite. «Non farlo più. Davvero, Liam. Non farlo mai più. Mi hai spaventato.»

Attendo che annuisca, gli occhi bassi mentre stringe a sé il peluche che gli è costato la sgridata, dopodiché chiudo la portiera e prendo ad affaccendarmi per aprire la porta basculante che, in assenza di elettricità, deve essere manovrata a mano. Una volta che ci sono riuscita, monto in fretta sul suv e lo accendo, facendo andare su di giri il motore. Infine, con il cuore che batte a mille in gola, innesto la prima e parto, senza una meta.


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