Cherry Gale, senza ombra di dubbio, aveva sempre saputo di essere una bambina speciale. Anche in un mondo in cui ciascun essere umano possedeva poteri irripetibili, quasi magici, lei era del tutto, completamente certa di essere la migliore.
Era nata nei pressi di un piccolo paese di campagna, in una bella casa isolata al centro di un ampio appezzamento di terreno che conteneva un bosco, due colline, un grande orto in cui suo padre si affaccendava e persino un lago. La prima parola che aveva detto non era stata "mamma" o "papà", ma "mio". Sapeva benissimo cosa era suo e cosa non lo era, ma sapeva altrettanto bene che quello che ancora non era suo poteva diventarlo. La casa era sua, l'erba era sua, i cervi che incautamente si avventuravano nel suo bosco erano suoi, e lei aveva il diritto di disporre di tutto questo come voleva.
Sua madre, Gara J. Gale, le aveva insegnato che persino le vite degli altri erano sue. Suo padre, Tom Gale, le aveva insegnato che non doveva mai preoccuparsi. Entrambi i genitori di Cherry erano nati con poteri leggermente sopra la media nazionale: la madre poteva paralizzare per un istante gli animali semplicemente guardandoli negli occhi (ed era questo che la rendeva la miglior cacciatrice degli Stati Uniti), il padre aveva il dono di tranquillizzare la gente, dissipandone le paure e il senso di colpa.
Cherry era venuta alla luce dentro casa, nella camera da letto dei suoi genitori: Gara aveva sonoramente e solennemente rifiutato la presenza di un medico, dichiarando che suo marito sarebbe bastato e avanzato. Tom usò i suoi poteri per combattere le ansie e le preoccupazioni della moglie, concentrandosi così tanto che, quando la bimba nacque, Gara era serena come un monaco buddista, anche se con la fronte imperlata di sudore e il respiro affannoso.
«È una femmina!» Aveva gridato Tom per sovrastare le urla della neonata, pulendo sua figlia con un asciugamano caldo «Una bambina! Una bambina bellissima!».
Gara attese di riprendersi un po', prima di rispondere, e si mise a sedere al centro del lettone.
«Non abbiamo pensato ad un nome per lei» Disse, con tranquillità «Ero... ero sicura che sarebbe stato un maschio. Il dottore aveva detto che era... maschio. Ho fatto bene a non permettere a quel ciarlatano di essere presente al parto»
«Possiamo chiamarla con un nome simile, che ne pensi?»
«Un nome simile ad Abercrombie? Per una femmina?» la donna rise, asciugandosi la fronte con una mano.
Tom guardò sua moglie e sentì qualcosa muoversi nel suo petto, qualcosa che poteva essere un'ondata di affetto tanto grossa da far male. Lei non era bella in senso convenzionale: aveva lineamenti strani, i denti non proprio bianchi, gli occhi azzurri sgranati, i capelli castani tagliati molto corti e tutti spettinati che se ne stavano all'insù come la versione peluche degli aculei di un riccio, e non aveva un fisico particolarmente asciutto né formoso. Fin dal momento in cui si erano incontrati, Tom aveva pensato che Gara fosse la donna più bella del mondo. O forse dell'universo. Pensare che adesso lei gli aveva donato una figlia, che la piccina fra le sue braccia era frutto del loro amore congiunto, lo rendeva l'uomo più felice del mondo.
«Perché no?» Domandò, con la voce che tremava di gioia «Un nome simile... tipo... tipo... Abigayle?»
«Abigayle? Abigayle Gale?» Gara fece una smorfia, scoprendo le gengive «Nah. Suona un po' da circo. Fammela vedere adesso! Fammi vedere la mia bambina!».
Tom asciugò ancora una volta il faccino della sua piccola con l'asciugamano in cui l'aveva avvolta, poi la baciò sulla fronte prima di passare quell'adorabile fagottino alla moglie. Gara la raccolse con delicatezza e se l'avvicinò al volto, strizzando gli occhi.
La bambina, che piangeva a pieni polmoni, aveva una testina rotonda rotonda e bianca, ma le guance erano rosse come due piccole mele. Gli occhietti strizzati di quando in quando si aprivano, trasfigurandosi in due biglie di un azzurro intenso.
«Sembra una ciliegina» Commentò a bassa voce Gara, sorridendo «Una ciliegina bellissima. Così rotonda e... sembra tutta da mordere».
Tom rimase in silenzio, trattenendo le lacrime di gioia. Gara baciò la piccola sul naso, poi la allontanò un poco da sé, per vederla meglio, e rimase a guardarla pensierosamente.
«Cherry» Disse «La chiameremo così. Ti piace, Cherry? Ti piace piccola?» tubò affettuosamente.
La bambina non smise di piangere, anzi, si fece ancora più rossa e provò molto debolmente, essendo tutti i neonati deboli, a liberarsi dall'asciugamano nella quale era stata avvolta, guizzando come un pesciolino. Qualunque altro genitore avrebbe pensato che quel comportamento significasse che alla neonata non garbava affatto l'idea di essere chiamata come un frutto, ma Gara non era qualunque altro genitore e annuì soddisfatta: ormai aveva scelto.
Cherry fu cresciuta con l'idea di essere una specie di principessa, più simile a un feudatario che a una regnante delle favole, ma non era viziata: sapeva benissimo quando poteva opporsi ai suoi genitori e quando non poteva... ad esempio sapeva che suo padre non le avrebbe mai rifiutato niente e che avrebbe potuto tiranneggiarlo come e quando le aggradava, mentre con sua madre le cose erano un po' più difficili. Non piangeva mai per ottenere le cose, non si lagnava né pestava i piedi, non faceva i capricci, ma aveva imparato sin da subito a vincere il cuore dei suoi genitori con altre e ben più furbe tecniche.
Finché, ancora bambina, non aveva scoperto il proprio potere.
Nel mondo, le avevano spiegato i genitori, ogni essere umano possedeva uno di questi poteri, ed esso era unico e irripetibile, come le impronte digitali. Alcune persone, ad esempio, potevano far crescere i propri capelli a comando, oppure potevano produrre una saliva irritante, avere ossa di metallo, incantare le lucertole con il canto o magari prevedere il tempo atmosferico. Anche se due persone avevano poteri a prima vista simili, in realtà essi differivano sempre. Magari tre diverse persone avrebbero tutte potuto essere in grado di far sciogliere il ghiaccio, ma la prima avrebbe alzato esponenzialmente la temperatura delle proprie mani e con quelle avrebbe toccato il ghiaccio, la seconda avrebbe potuto usare il pensiero per eccitare le particelle del ghiaccio fino a disgregarle e farle tornare in forma liquida e la terza avrebbe magari usato il proprio sudore nella quale era contenuto un altissimo quantitativo di sale, che ha la proprietà di abbassare la temperatura di congelamento dell'acqua.
Cherry sapeva quali erano i poteri dei suoi genitori, ma non aveva alcuna intenzione di rivelargli il proprio. All'inizio, c'è da dire, nemmeno lei sapeva di quale potere si trattasse, perché era un'abilità difficile da inquadrare. A circa quattro anni, lei poteva guardare suo padre dritto negli occhi e ordinargli di fare qualunque cosa, anche quelle senza senso, e lui avrebbe obbedito.
Si chiese, con la sua mente ancora grezza di bimba, come funzionasse quella cosa. Iniziò a sperimentare, con la diligenza di una piccola scienziata. Provò a ordinare a suo padre di piroettare dieci volte in piedi sulla poltrona, ma senza guardarlo negli occhi, e suo padre la guardò stranito.
«Perché dovrei, tesoro?» Le domandò «Potrei cadere e farmi tanta bua».
Allora Cherry glielo aveva ripetuto, ma guardandolo in faccia.
«Sali sulla poltrona e piroetta! Piroetta dieci volte!».
Ancora una volta, Tom aveva sorriso docile come un agnello, ma aveva negato di eseguire l'ordine
«No, tesoro. Potrei farmi male, ti ho detto».
Cherry si era concentrata, una serie di piccole rughette erano spuntate sulla sua fronte pallida, e per la terza volta aveva ordinato, stavolta con un tono imperioso e puntando il ditino verso la faccia del padre:
«Sali sulla poltrona, papà. Piroetta! Piroetta dieci volte!».
Lo sguardo docile e affettuoso di Tom per un attimo era diventato del tutto inespressivo, prima di tornare quello di sempre, e l'uomo si era alzato in piedi ed era salito sulla poltrona. Lassù aveva piroettato su sé stesso per dieci volte, goffamente, come una ballerina ubriaca.
Cherry aveva riso e battuto le manine. Dunque, aveva compreso, non bastava usare la voce e nemmeno aggiungere lo sguardo: doveva metterci l'intenzione, doveva volerlo davvero, per ordinare alla gente di fare ciò che voleva.
A cinque anni, aveva deciso di condurre una serie di esperimenti, per perfezionare il suo potere, sui suoi compagnetti della scuola materna. Sua madre non permetteva che lei andasse a scuola tutti i giorni, poiché riteneva che i bambini "maleducati e ignoranti del volgo" potessero avere una cattiva influenza su di lei, se li avesse frequentati assiduamente.
Cherry non sapeva cosa significasse la parola "assiduamente", così il significato se lo inventò, trasformandolo in "violento". Che sua madre dunque non volesse vederla picchiare i compagnetti? O non voleva che i compagnetti picchiassero lei? In ogni caso, non aveva intenzione di fare né lasciarsi fare nessuna delle due cose, voleva solo sperimentare su di loro il proprio potere per vedere fin dove poteva arrivare.
Era una mattina tiepida di Ottobre quando la piccola Cherry entrò spavalda nell'aula e guardò i bimbi sparsi che, chini su piccoli banchi verdi, coloravano disegni. Nonostante non stessero facendo niente di male, Cherry non riuscì a frenarsi dal pensare che stava guardando i maleducati e ignoranti figli del volgo, quelli da non frequentare assiduamente.
«Cherry Gale!» Esclamò l'insegnante, la signorina Morrison, con un sorriso così finto che persino un bambino (letteralmente) avrebbe capito l'inganno «Vieni a sederti! Come mai non sei venuta negli ultimi sei giorni? Sei stata malata?».
Cherry avanzò senza riuscire a guardare la maestra negli occhi. Aveva un po' paura di lei. Non era tanta però, questa paura. Cherry non avrebbe mai ammesso di avere timore di qualcuno ma, se poteva, evitava di parlarle. C'era qualcosa nella signorina Morrison che le risultava profondamente sgradevole... forse il modo in cui tamburellava le dita, dalle unghie perennemente laccate di rosa, quando parlava con i bambini, o forse il suo odore stracarico di profumo floreale in contrapposizione all'alito che sapeva di alcool, o magari era il suo modo di guardare la gente, come se fosse alta dieci miglia invece che un metro e sessanta.
Cherry si sedette senza dire nulla, poi si chinò a recuperare un astuccio dal proprio zainetto. La signorina Morrison le si avvicinò, continuando a mantenere il suo sorriso palesemente falso
«Ti ho chiesto se sei stata malata» quasi abbaiò
«No» rispose Cherry, atona, afferrando una matita rossa
«E allora perché non sei venuta a scuola? Che è successo, Cherry?».
La bambina non rispose, ma afferrò un foglio e iniziò a disegnare con vigore. Macchie come di sangue fiorirono sul foglio.
«Cherry! Ti ho fatto una domanda!»
«La mia mamma dice che ho il diritto di non rispondere» Disse la piccola, a capo chino. Stavolta trapelò qualcosa nel suo tono, un pizzico di irritazione. Voleva davvero che la signorina Morrison si allontanasse, non voleva più sentire l'odore dei fiori e quello pungente delle bottiglie che tenevano in dispensa.
Le labbra dell'insegnante si assottigliarono, disegnando una linea dura con la contrazione della mascella. Non poteva parlare male dei genitori della bambina, ma era chiaro che la risposta non le faceva piacere.
«È buona educazione guardare le persone quando ti parlano, Cherry».
La piccola mano di Cherry, stretta intorno alla matita come se stesse brandendo un pugnale, si muoveva sul foglio del tutto casualmente. Era completamente concentrata sulla figura invadente dell'insegnante, tutti i sensi acuiti, sperando ad ogni respiro che si allontanasse. Non alzò la testa.
«Mi fa ombra» Le disse invece, sempre più agitata.
«Prego?»
«Mi fa ombra» ripeté la piccola, ostinatamente «Non posso disegnare».
Sentì il tic tic tic delle unghie della maestra sul bordo del proprio banco, poi una mano si richiuse sul suo polso, dando un piccolo strattone. Cherry cacciò un urletto e finalmente sollevò la testa per guardare l'insegnante ad occhi sgranati, lasciando cadere la matita sul banco.
«Non mi piace il tuo tono, signorinella» Disse la signorina Morrison, guardandola con durezza «Visto che non riesci a disegnare, ora la smetti e parli con me».
Cherry la guardò nel panico, cercando di spingere via la stretta della donna dal proprio polso, troppo debole per contrastarla. «Lasciami!»
«Ah, ora mi guardi! Adesso smettila subito di disegnare e ti vieni a sedere accanto a me alla cattedra, così parliamo».
La paura di Cherry era quella di una piccola faina alle strette, una bestiola ferale incapace di fuggire dal pericolo. Non aveva mai avuto affronto più grave di quello in tutta la sua breve vita: una donna, che non era della sua famiglia, che le metteva le mani addosso in quel modo!
Cherry digrignò i denti e afferrò la matita rossa, e con un solo movimento ne fece sparire la punta nella parte vulnerabile e carnosa della mano della signorina Morrison, tra pollice ed indice.
La donna la lasciò con un'esclamazione sorpresa, cullandosi la mano al petto incredula.
Cherry guardò la punta della matita, colorata da un liquido rosso e luccicante – sembrava che la punta si stesse sciogliendo, ed era un pensiero buffo – e si sentì vittoriosa.
Quella donna l'aveva offesa, ma lei l'aveva affrontata. L'aveva ferita.