La Regina di Spade

By ViolaDesiati

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- Ci ritroveremo. - urlò. - E ti amerò di nuovo, te lo prometto. Nella prossima vita. In cento prossime vite... More

La Regina di Spade
0. Il Matto - La Follia della Fine e l'Inizio del Destino
1.1 Il Mago - Parigi
1.2 Il Mago - I segreti della città
1.3 Il Mago - L'eredità del padre
1.4 Il Mago - Regina del Passato e del Futuro
1.5 Il Mago - Il Gioco delle Alleanze
1.6 Il Mago - La Pietra nel Fango
2.1 La Papessa - Dublino
2.3 La Papessa - L'Abilità del Ladro
2.4 La Papessa - Il Potere della Spada
2.5 La Papessa - Colui che Volse lo Sguardo alla Luna
3.1 L'Imperatrice - Singapore
3.2 L'Imperatrice - Come i Diamanti
3.3 L'Imperatrice - A Forma di Carta, A Forma di Uomo
3.4 L'Imperatrice - L'Eco dei Secoli
3.5 L'Imperatrice - La Ragazza Dietro l'Obiettivo
4.1 L'Imperatore - Kolkata
4.2 L'Imperatore - Al Crocevia del Destino
4.3 L'Imperatore - L'Ombra del Mago
4.4 L'Imperatore - Il Cavaliere del Lago
4.5 L'Imperatore - Nei Cieli D'Argento
5.1 Il Papa - Oceano
5.2 Il Papa - La Tessitrice, Il Custode e La Camminatrice
5.3 Il Papa - Il Tempio delle Tempeste
5.4 Il Papa - Notte di Fine Estate
5.5 Il Papa - Mondo Sottosopra
6.1 Gli Amanti - Amsterdam
6.2 Gli Amanti - Quello che Eri
6.3 Gli Amanti - Quello che Sei
6.4 Gli Amanti - Ladro in Catene
6.5 Gli Amanti - Il Mondo Fino a Domani

2.2 La Papessa - Notti Insonni

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By ViolaDesiati

Villa Courteney, Dover. 20 Luglio 2011

Verity non riusciva a dormire. Da quando era morta sua madre aveva iniziato ad avere degli incubi. Si svegliava con un dolore acuto al petto e le gambe tremavano e ci metteva quelle che sembravano ore prima di calmarsi. E una delle poche volte che aveva trovato il coraggio di alzarsi per andare in bagno si era ritrovata piegata in due a vomitare. All’inizio ancora credeva che la causa di quei dolori potesse essere di origine fisica, forse le mestruazioni o un’influenza atipica, ma le medicine e gli antidolorifici non facevano mai effetto e le rigettava.

Dopo tanti anni aveva iniziato a capire sua madre. Non ne era felice, avevano sempre avuto un rapporto teso finché lei non se ne era andata di casa a diciotto anni abbandonando quella donna ai suoi demoni e ai suoi errori e a fatica si era costruita una vita sua mentre sua madre cadeva sempre più in basso nel corso del tempo e lei all’inizio aveva cercato di aiutarla senza successo lasciandole i suoi spazi. Piccole cose all’inizio: usciva e rientrava molto tardi. Verity all’epoca aveva dodici anni e aspettava di sentire la porta aprirsi e prima prendere sonno. A quindici anni non poteva più negare l’evidenza, i soldi non bastavano più e Verity passava le mattinate a scuola e i pomeriggi a lavorare in un bar per poter avere qualche soldo in più in casa. Sua madre aveva lasciato il lavoro per trovarne uno part-time in modo da passare quasi tutto il suo tempo a bere. E Verity aveva iniziato a rientrare sempre più tardi e a lavorare sempre di più pur di mettere via qualcosa. Faceva fatica a stare attenta a scuola e i voti erano precipitati ad appena alla sufficienza e i professori avevano iniziato a guardarla storto accusandola di essere svogliata.

Quando riuscì ad ottenere la sua qualifica professionale decise di rinunciare alla scuola e di andare a lavorare una volta per tutte. Si trovava bene e il fatto che parlasse inglese e fiammingo, oltre che italiano, la avvantaggiava. Grazie all’alberghiero che aveva frequentato capiva anche un po’ di francese e riusciva a rendersi utile, ma era la situazione disastrosa a casa che la preoccupava. La maggior parte dello stipendio della madre finiva in alcol scadente e Verity doveva lottare con tutta per riuscire a mettere qualcosa da parte per fare la spesa. Tutti i soldi che guadagnava servivano per pagare le bollette e l’affitto del loro piccolissimo appartamento, ma nonostante le difficoltà c’era qualcosa che ogni mese Verity faceva il giorno stesso in cui riceveva lo stipendio: correva in banca a versare qualcosa sul conto intestato al suo fratellastro prima che la madre potesse metterci le mani sopra. Era un rituale di cui non poteva fare a meno, qualcosa che le ricordasse che oltre a sua madre, lei aveva avuto anche un’altra famiglia. Aveva avuto un padre anche se si era risposato e aveva un mezzo fratello che viveva in Olanda. Se non metteva via qualcosa per Jamie tutti i mesi non era in pace con se stessa. – Questo mese non gli ancora mandato i soldi. – borbottò davanti la tazza di tè caldo che si era preparata quando aveva rinunciato al sonno.

Se il giorno dopo Chris l’avesse lasciata libera, sarebbe andata in banca. Doveva avere ancora qualcosa da parte che poteva dare a Jamie nonostante avesse lasciato il lavoro a Parigi per seguire Christian.

Una piccola figura in pigiama sfrecciò davanti al tavolo per poi spalancare la porta del frigorifero e tirare fuori un succo di frutta. Verity guardò l’orologio da muro e poi la bambina indiana che stava prendendo i biscotti dalla dispensa arrampicandosi su una sedia. – Nyvie, – chiamò gentilmente Verity. – non dovresti essere a letto?

La piccola la squadrò con i suoi grandi occhi verdi spaventata per essere stata colta sul fatto o semplicemente perché Verity non era Christian e la piccola era sempre tesa quando non c’era lui in giro. Nyvie si ficcò in bocca un grosso biscotto con le gocce di cioccolato continuando a guardare Verity.

Da come masticava e si arrampicava, Nyvie le ricordava un po’ uno scoiattolo, ma a Verity piaceva quella bambina di nove anni, standole vicino aveva sempre un senso di pace che scacciava via i pessimi ricordi.

– Sai che a Chris non piace che tu stia sveglia fino a tardi. – proseguì Verity. Un’altra occhiata spaventata da parte di Nyvie e un altro biscotto sparito alla velocità della luce. Forse la preoccupava che lei andasse a dire a Christian che aveva trovato Nyvie in cucina da sola di notte. Del resto, anche lei era sveglia nell’enorme villa di Christian. Era un’ospite trattata bene, non poteva negarlo. Aveva la sua stanza con il bagno privato e tutti i comfort. E Christian aveva inviato anche il suo maggiordomo a comprarle degli abiti nuovi il giorno stesso che era arrivata. Ora aveva il cassettone color abete pieno di costosissimi pantaloni di lino, cargo e jeans, shorts e canotte colorate. Maglie e camice con i bottoni di madreperla ben stirate e appese in ordine per colore. I pigiami estivi erano coordinati con quelli di Nyvie su desiderio di Christian e nel grande armadio a specchio erano stati sistemati più abiti di quanti lei ne avesse mai portati. E tutto era stato completato da decine di scarpe, sandali e anfibi in ecopelle.

Tutto quello di cui lei poteva aver bisogno, Chris glielo procurava o chiamava qualcuno che glielo procurasse per lui, ma c’erano delle cose che lei non poteva fare: gironzolare per la villa da sola senza che qualcuno dei domestici la guardasse male e non poteva uscire senza che Mikelich la seguisse. Chris le aveva detto che era per la sua sicurezza e per impedire che si perdesse, in realtà si sentiva una prigioniera speciale sotto sorveglianza.

Nyvie fece sparire altri due biscotti e Verity le sorrise. – Non glielo dirò. Tu mangia in fretta e torna a letto.

Nyvie scese dalla sedia con il bricco del succo in mano e aggirò il tavolo sedendosi accanto a lei in silenzio. Gli unici suoni in cucina furono quelli della ghiacciaia e Nyvie che beveva rumorosamente tenendo il succo alla pesca con due mani.

Verity rimase in silenzio godendosi il tè che si era preparata. In quella villa tutto veniva fatto dal personale, le bastava suonare il citofono e la cameriera del turno di notte le avrebbe preparato tutto ciò che desiderava. Scherzando aveva chiesto se potesse avere una pizza alle tre del mattino e loro si erano mossi per preparargliela spiegandole che Chris aveva dato loro delle indicazioni precise. Farsi quel piccolo tè in cucina, senza avvertire nessuno le dava un senso di cupa soddisfazione. Chris poteva anche mettere una fila di piccoli punti chirurgici su un braccio, ma non sapeva nemmeno fare un caffè, doveva sempre affidarsi a qualcun altro. E Verity considerava di importanza vitale saper preparare un buon caffè.

Finiti i rispettivi spuntini le due ragazze fecero sparire le prove del misfatto e si scambiarono uno sguardo di intesa prima si separarsi sulla porta della cucina. Christian e Mikelich non avrebbero mai dovuto saperlo.

Salì le scale a chiocciola che portavano verso la sua stanza ricordandosi dove fosse la camera rispetto al resto della villa. Chris le aveva fatto fare un giro veloce dei luoghi che potevano interessarle fermandosi sulla biblioteca di famiglia e la piscina coperta. Quando aveva guardato il padiglione della piscina la prima volta Verity si era chiesta quanti soldi avesse Christian e come potesse pensare che la gente comune potesse permettersi una piscina come quella. Poteva ignorare i mosaici sul fondo della vasca, ma non poteva fingere di non vedere il complesso di statue da cui usciva acqua bollente che percorreva dei rigagnoli prima di gettarsi nella piscina. Chris le aveva detto che sua madre aveva fatto costruire quelle statue quando era nato per festeggiare la nascita di un Arcano in famiglia. La statua centrale, la donna che teneva spalancata la bocca del leone rappresentava lui: La Forza. Le altre statue più piccole rappresentavano gli altri Arcani Maggiori. Ventidue statue diverse e ognuna aveva uno sbocco per l’acqua calda. Riconobbe tra esse la Temperanza, il Sole e la Luna. Erano tutte rappresentate come apparivano nelle carte classiche e Verity non osava avvicinarsi alla piscina. Era inquietante fare il bagno con ventidue paia di occhi puntati contro.

Se Chris si fosse fermato a mostrarle solo la piscina lei avrebbe continuato a pensare lui fosse un ragazzo po’ eccentrico e viziato, ma più lui proseguiva con la visita, più Verity si chiedeva da dove Christian fosse saltato fuori. Non solo il parco della villa poteva concorrere con quello di Villa Borghese, ma aveva anche la sua chiesa personale costruita in fondo a un viale di querce e nella cripta c’erano sepolti i suoi antenati. Decine e decine di nomi scritti su marmo bianco e otto sarcofagi con i volti dei capostipiti scolpiti nella pietra e lo stemma di famiglia con il motto inciso sul soffitto.

Nell’oscurità rischiarata solo da una manciata di lampadine Verity era rimasta incantata a guardare il volto di una donna dai tratti delicati immortalati per sempre nel marmo. – Lisa Courteney, – le aveva sussurrato Chris quando si era avvicinata. – Madre di Thomas e James Courteney. – indicò gli altri sue sarcofagi vicino. Gli uomini scolpiti non potevano avere di più quarant’anni e tra le loro mani c’era scolpita una rosa dei venti. – Caduti entrambi mentre erano al servizio di Sua Maestà, re Carlo I Stuart. – c’era un’impronta di orgoglio nella sua voce, felice che i suoi antenati fossero morti per una causa nobile come proteggere l’Inghilterra. Verity non glielo aveva detto per rispetto ai morti, ma in quel momento si era arrabbiata e lo aveva invidiato. Era già tanto se lei conoscesse il nome dei suoi nonni, riuscire a risalire fino al 1647, la data incisa sul sarcofago, era impossibile.

La ragazza sospirò in cima alle scale ripensando ai suoi primi due giorni in quella casa Chris le aveva dato tutto, più di quanto lei avesse mai avuto nei suoi ventidue anni, eppure non riusciva a godersi nulla. Non riusciva a godersi la tv a schermo piatto, non riusciva a godersi l’enorme letto matrimoniale, non riusciva a godersi la vasca idromassaggio con tanto di cromoterapia.

Christian era gentile, un vero cavaliere, ma in realtà le mancavano le cose semplici. Le mancava giocare con l’xbox di Alessio e fare mattina tra le sue braccia, ridere al bar quando i ragazzi si riunivano per la partita e tifavano la Roma. Le mancava fare fotografie ai paesaggi e stringersi ad Alessio quando lei aveva dei giorni liberi e lui la portava a Ostia e Fiumicino. Le mancavano le sue sorprese quando preparava lo zaino e la portava fino a Ladispoli o a Bracciano. Quante volte si era lamentata con lui per le buche sull’Ardeatina e la scarsa illuminazione stradale? Ora le mancavano anche quelle. Sperava sempre di svegliarsi e scoprire che gli ultimi mesi erano stati un sogno, che Ale dormisse ancora accanto a lei. Voleva ancora sentirlo imprecare imbottigliati nel traffico e borbottare un “turisti” quando un gruppo di giapponesi attraversava la strada seguendo la loro guida con l’ombrellino colorato.

Verity poteva anche essere di origini inglesi e olandesi, ma il suo cuore apparteneva a Roma. Avrebbe volentieri scambiato tutto quello che aveva adesso con un altro giorno nel suo piccolo appartamento con la doccia che aveva le manopole dei rubinetti invertiti e il materasso vecchio e bitorzoluto pur di avere accanto ancora il suo ragazzo. Invece quella casa aveva i sigilli della polizia e Alessio era stato assassinato mentre lei faceva la spesa. – Vorrei tornare a casa mia. – sussurrò appoggiandosi contro il muro.

La porta di fronte si aprì e Christian apparve sulla soglia. Aveva ancora addosso i jeans blu scuro e la camicia ben stirata e non era ancora andato a dormire nonostante l’ora tarda. – Mi sembrava di aver sentito una voce. – disse lui con un sorriso. – Credevo fossi a letto. – forse la stava rimproverando o forse era stupito, Verity non sapeva dirlo, ma sembrava che non gli piacesse vederla andare in giro di notte per casa sua.

– Facevo fatica a prendere sonno. – si schermì lei. – Dovevo cambiare aria.

Chris annuì e le fece cenno di seguirlo in biblioteca. – Il materasso non è abbastanza comodo? Posso farlo cambiare se vuoi... o sono le lenzuola? Chiamo qualcuno per farti cambiare il letto? – non lo diceva per malizia, Verity vedeva che era preoccupato per lei, solo che cercava le cose sbagliata. I ricchi, pensò amaramente, non capiscono che non basta cambiare qualcosa per far andare tutto bene.

– Il materasso e le lenzuola sono perfette così come sono. Ho avuto un incubo.

Si scambiarono un’occhiata veloce e poi lui annuì versando del liquido ambrato in un bicchiere da una bottiglia di vetro. L’odore dell’alcol le diede la nausea e fece un passo indietro cercando di sottrarsi. Lavorando in un bar aveva visto decine di persone rovinarsi con l’alcol, aveva visto sua madre rovinarsi in quel modo. Lei stessa aveva servito alcolici con le mani tremanti sapendo che stava facendo dei danni. Alessio la prendeva un po’ in giro mentre beveva una birra in compagnia degli amici, ma rispettava la sua scelta e non la forzava a bere.

– Vuoi? – domandò Chris indicando il bicchiere che lei fissava allarmata. – Whiskey della migliore qualità.

Verity fece un altro passo indietro quando glielo offrì. Non le piaceva come quell’odore impregnasse la pelle di chi ne abusava, come impregnasse i vestiti e la casa. Tutto. Più forte era, più la nauseava.

Chris mise il bicchiere sul tavolino di legno scuro e le prese le mani. – Ehi, – sussurrò. Era perfino nel suo alito e lei distolse la testa, trattenendo un conato. – Sei pallida. Ti senti bene?

Fissò il bicchiere, luminoso alla luce del lampadario d’ottone. – Mia madre era un’alcolista. – disse meccanicamente. La bocca era secca e la lingua impastata, ma le parole le uscire sicure. I primi tempi ammettere che sua madre avesse problemi con l’alcol era stato difficile, trovava mille scuse per spiegarsene la ragione e far finta di non vedere e non sentire. Anche con i compagni di scuola e con i professori non aveva mai aperto bocca, inventandosi qualcosa quando lei non si presentava mai al ricevimento genitori.

Il giorno che sua madre alzò le mani su di lei senza alcun motivo, Verity aprì gli occhi e si rese conto di cosa fosse diventata. La cosa assurda è che lei aveva già trovato un lavoretto in un bar e le piaceva parlare con la gente. E grazie a una birra non fermentata aveva conosciuto Alessio. – Ho mal di testa, meglio che vada a dormire. – doveva uscire da quella stanza e sfuggire allo sguardo condiscendente di Chris.

– Anche io ho gli incubi. – disse lui a un tratto con aria grave. – Li ho da sempre. Da quando ero bambino. A volte il whiskey aiuta, annebbia la mente e...

– Non aiuta mai! – proruppe Verity con forza. – Mai! Non venirmi a raccontare cazzate come queste! Non... – Chris la afferrò per i polsi e la strinse a sé.

– Non dico che ci fa bene. – disse piano. – Anzi. Ma ho bisogno di dimenticare. Sogno da sempre le mie morti, le morti dei miei familiari, sogno di fare l’amore con donne vissute mille anni fa, sogno di crescere i miei figli, di morire per la peste e mi sveglio sentendo ancora la pelle tesa e dolorante per i bubboni. Ogni notte sogno cose diverse e non avrà mai fine perché la Forza ha vissuto migliaia di volte prima di arrivare a me. – provò a divincolarsi nella presa di Christian con scarso successo. Quelle parole la stavano uccidendo dentro. Era questo che provava sua madre quando urlava di notte? Cercava di sottrarsi a questo? – Tu non puoi capire. – proseguì imperterrito Christian. – Sei una carta da poco, sei ancora confusa. Il tuo potere deve ancora stabilizzarsi; io so chi sono fin da bambino dal giorno in cui mio padre è morto in quell'incidente d’auto. Io capisco tua madre. Sai cosa vuol dire vedere il rogo della propria sorella minore e sentire l'odore della carne bruciata? Io sì, l’ho visto, l'ho sentito. Le nostre carte hanno attraversato i secoli Verity. Vedo la guerra, sento l’odore del terreno intriso di sangue, mi sveglio con le grida della gente morente nelle orecchie. È facile studiare storia in un libro, non è altrettanto facile viverla ogni notte. Migliaia di ricordi per migliaia di vite. E vedo solo quelli più forti, quelli che nessuno può scordare. Più vivrò, più torneranno a galla anche gli altri. Siamo condannati a rivivere i nostri passati finché non moriremo. Cercare di fuggire dalla memoria è l’unica soluzione per non impazzire.

Verity rimase senza parole immobile come una bambola tra le braccia di Chris.

Sua madre aveva iniziato a bere quando lei aveva dodici anni, ma era una Carta da molto più tempo e aveva avuto una vita normale. Si era sposata, aveva avuto una figlia, poi il matrimonio era naufragato quando Verity aveva quattro anni. Lei ricordava il divorzio e l’arrivo del suo mezzo fratello. Aveva passato le estati ad Amsterdam con il padre. Ricordava sua madre metterla sul treno a Copenaghen e suo padre andarla all’arrivo. Ricordava il trasferimento a Roma per lavoro quando aveva nove anni e la risata di sua madre quando Verity aveva visto per la prima volta il Colosseo. Aveva avuto un’infanzia difficile, ma felice. Fino ai suoi dodici anni. Che sua madre avesse tentato di resistere e poi anche lei si era arresa al peso dei ricordi? Provò a scavare meglio nella memoria cercando di ricordare quando la madre avesse dato i primi cenni di cedimento, ma il dolore che provò le offuscò la vista. Aveva sempre mal di testa quando pensava alla sua infanzia. Secondo Alessio poteva essere un modo per proteggersi da ricordi ancora più dolori e faceva di tutto per non ricordare.

 – Meglio che vada ora. Ho...

– Rimani. – le chiese Chris. – Rimani con me. So cosa vuol dire non dormire la notte. Ho provato di tutto: dall’alcol ai sonniferi, ma riesco sempre a dormire meglio quando non mi sento solo.

Verity si sedette in silenzio su una poltrona vicino al camino spento. Quel piccolo angolo della biblioteca era confortevole con le vecchie poltrone in pelle e il divano coperto di velluto. Sul tavolino accanto c’era un libro dalla copertina consumata. Tra le pagine ingiallite spuntava un pezzo di tessuto colorato.

– Me l’ha fatto Nyvie. – disse Christian sedendosi sulla poltrona davanti alla sua. – Il segnalibro intendo. La stoffa viene dall’India, lei l’ha ritagliata e incollata sulla carta. È doubleface, dietro ci sono dei fiori secchi.

Studiò il volto di Chris e il modo in cui i suoi tratti si ingentilivano quando parlava di Nyvie. Lui le insegnava a leggere in inglese, deciso a mandarla in una scuola in Inghilterra. Si comportava con la bambina come un fratello maggiore. – Sorridi sempre quando parli di lei.

Chris annuì accarezzando il tessuto liscio del segnalibro. – Nyvie è stata la mia salvezza in India. Mi  ha fatto capire cosa fosse il valore della vita.

Verity non capì cosa stesse dicendo, Christian era un po’ pomposo e brusco in certi momenti, ma non era cattivo. L’aveva raccolta a casa di Michael e aveva nascosto la sua natura a Mikelich. Inoltre lui era... – Tu sei un medico. Salvi la vita delle persone. – si sentì un’ingenua nello stesso momento in cui lo disse ad alta voce.

La risata senza gioia di Chris confermò il disagio che provava. – Io sono un medico, vero. Sono un medico perché mio nonno ha scelto l’università per me, perché mi ha scelto il liceo e mi ha sempre spianato la strada verso la chirurgia. E cosa c’è di male in tutto questo? – chiese retorico con un sorriso crudele. – Assolutamente niente. E lo sai perché? Perché mi sentivo un dio. Mi sentivo un dio a operare, mi sentivo un dio quando il mio nome lasciava basite le persone, mi sentivo un dio quando avevo tra le mani la vita degli altri. Sai cosa si prova a tenere in mano un cuore umano? Ti sembra di tenere il mondo. Mi sentivo migliore degli altri perché una mia parola poteva dare speranza o distruggere una persona. Me ne fottevo del codice deontologico, mi interessava il potere che esercitavo. – allungò le gambe in avanti e alzò la testa verso il soffitto cesellato, perso nei propri ricordi. Anche se disgustata, Verity pendeva dalle sue labbra. – Nyvie fu l’unica a farmi capire dove stessi sbagliando. Ci avevano provato in tanti, ma l’unica fu quella piccola bambina e il suo orgoglio. Io sono egoista. Voglio dare un ottimo futuro a Nyvie. Voglio che abbia tutto, ma soprattutto, non voglio separarmi da lei perché mi ricorda quanto fosse misera la mia vita prima che arrivasse. Quando guardo i suoi occhi mi ricordo cosa vuol dire non avere nulla, ma essere felici e cosa vuol dire avere tutto e non sapere cosa vuol dire vivere. – sbuffò e suoi tratti si ingentilirono. – Non sai cosa darei per poter tornare in India. Qui mi sento oppresso. Osservato, soppesato e giudicato. Odio questo posto. – le ultime tre parole gli uscirono con un ringhio cupo e lo sguardo si diresse alla porta della biblioteca. – Avevo detto che non volevo essere disturbato, Mikelich.

Il maggiordomo entrò con la testa china e lo sguardo pentito. Beh, pensò Verity, pentito come poteva essere un gigante di quasi due metri.

– Vostra madre ha inviato un fax. – mormorò l’uomo porgendogli il foglio. – Dice che non potrà tornare neanche anche questo finesettimana. Vi esorta comunque a continuare a inseguire Dubois e a ucciderlo il prima possibile.

Negli occhi azzurri si accese una luce pericolosa e per un attimo Verity si chiese quale dei due uomini fosse il più pericoloso in quella stanza: la guardia del corpo o il medico. – Immagino che i lavori stiano procedendo bene. – disse freddo Christian strappando il figlio dalle mani di Mikelich. – Ci sono stati altri incidenti oltre a quello di tre giorni fa?

L’uomo drizzò le spalle con le mani dietro la schiena. – Un rallentamento, signorino. Alcuni carichi di cemento non sono arrivati a causa del maltempo. Pensano che la costruzione possa slittare di uno o due mesi.

Chris strappò il figlio in pezzi finché non divennero piccoli quadratini irregolari. – Cazzate! Dimmi la verità, quanto è arrabbiata per essermelo fatto sfuggire?

Verity non sapeva di cosa stesse parlando, lui era sempre molto attendo a non parlare davanti a lei del motivo per cui dava la caccia a Michael. Sapeva solo che c’entrava la madre di Chris e che lei lo aveva mandato alla ricerca del ladro forzandogli la mano.

– La signora vi consiglia di recuperare il tempo perso.

Chris chiuse gli occhi, pallido come un morto. – Ritirati, Mikelich. È un ordine.

A Christian non gli piaceva dare ordini, Verity lo aveva sempre visto ringraziare tutti i membri del personale e anche se era ingenuo e chiedeva delle cose assurde a orari altrettanto assurdi, usava dei toni gentili che faceva sì che tutti facessero quanto richiesto. Si comportava così con tutti, tranne che con Mikelich. Chris non provava nemmeno a nascondere il disprezzo che provava per quell’uomo.

Quando il maggiordomo se ne andò, Chris scolò in un colpo il bicchiere di whiskey che aveva abbandonato prima. Tremava e stringeva così forte il bicchiere che la ragazza temeva che lo frantumasse tra le dita. – Christian. – chiamò.

Lui la ignorò e riprese a bere fissando cupo il caminetto spento. – Chris... – chiamò in tono più alto. Aveva paura ad avvicinarsi a lui. Le ricordava fin troppo la madre in quello stato, ma come una stupida non voleva nemmeno lasciarlo da solo. – Non devi farlo per forza. Non devi bere per scappare, puoi trovare altri modi per sfogarti.

– Ah sì? Allora dimmi come posso dimenticare tutto quello che sta succedendo. Dimmi come posso dormire la notte senza essere perseguitato, non solo dai miei predecessori, ma anche ai miei demoni. – lei tremò sotto il suo sguardo furioso e folle. – Dimmi Verity, come posso dormire bene la notte quando so che per salvare migliaia di vite devo diventare un assassino e tradire tutto ciò che mi ha insegnato Nyvie?

Verity non trovò la risposta e se ne andò chiudendosi la porta della biblioteca alle spalle, lasciando quel ragazzo da solo a combattere una battaglia in cui si era già arreso.

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