the Blue Neighborhood | VK

By berenicelibri

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🪁 Mini-fiction ispirata alla trilogia del Blue Neighborhood di Troye Sivan, in cui si raccontano le vicende... More

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Prologo.
WILD.
TALK ME DOWN.

FOOLS.

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By berenicelibri

Aveva iniziato a fumare nell'estate fra il terzo ed il penultimo anno delle superiori. Io con lui, imitavo qualsiasi cosa facesse, sebbene quello non me lo avesse mai proposto. Jeongguk teneva alla mia salute non tanto quanto me, e già era venuto a conoscenza del mio vizio del bere. Una cosa c'è di buono in questa mia depressione cronica: la voglia di tutto che svanisce, persino quella dell'alcool e di talune dipendenze sopracitate.

Lo vidi un pomeriggio frugarsi nei pantaloni sulla spiaggia, proprio al confine con la pineta, là dove gli aghi degli alberi si confondono con la sabbia. "Accidenti." Diceva. Era in procinto di strappare quel che teneva in mano. Lo chiamai: "Aii!" l'espressione giapponese era diventata il nostro segno distintivo; un richiamo per lucci, un ululato di lupi in calore: se non fosse ciò che davvero eravamo, per lo meno rimaneva riconoscibile a miglia.

"Taehyung!" diversamente, Jeongguk era sorpreso. Nascose ciò di cui frucchiava fra le gambe, come se fosse qualcosa che io proprio non dossi vedere. "Hyung, che ci fai qui? Sono le quattro di pomeriggio. Non sei a studiare matematica?"

"No." Scosse la testa, e, con la confidenza di due amanti, frucchiai anche io di ciò che avesse fra le cosce. "Hey!" mi gridò sulla faccia. La nostra vicinanza mi faceva emozionare, e rimpiango quanto potessi essere patetico a quell'età. Se solo mi rimanesse ancora un po' di quello zucchero; la mia malattia perenne del razionalizzare morirebbe un poco e si acquieterebbe per lasciare respiro ad un animo stanco. Ci si ammala per molto di più; mi basta l'assidua cogitazione per sprigionare ancora sostanze tossiche che minano la mia immunità alla salute. È cinico da parte mia, ma il corso delle cose ha per forza voluto che fossi così e che reagissi così alla vita. Jeongguk non mi ha mai offerto una sigaretta; fui io il coglione che insistentemente gliene chiedeva (e rubava) sempre una; fui io il coglione che comprava assiduamente i pacchetti di Lucky Strike a stecche, che nascondevo nella ghiacciaia della sua catapecchia.

Non fu affatto contento della mia decisione. "Dammi qua!" gliela strappai di mano con rabbia, perché se aveva deciso di morire, allora anche io avrei voluto morire con lui. Bravo ragazzo all'apparenza, ma teppista delinquente qualora si parlasse di sigarette. "Cos'è?" gli chiesi.

"Non lo vedi? È una sigaretta, Taehyung." Talvolta i nostri litigi cominciavano da lì. A me non andava bene qualcosa che Jeongguk non faceva, a Jeongguk non andava bene qualcosa che io facevo. Uno dei pregi, e non un difetto: Jeongguk è sempre stato sincero con me, anche quando la diversità d'opinione venne a marcare oltre la necessità. Storceva le labbra solo quando accennavo ai miei sogni, che indubbiamente sarebbero stati anche i suoi: lui un ingegnere, io con probabilità certa un disoccupato.

"Dammela, voglio provare anche io!"

"No, Taehyung. Ti fa male!"

"E allora perché lo stavi per fare anche tu?"

Jeongguk sospirava spesso. In poche parole, me le dava tutte vinte. Sarebbe stato equo solo se in quella relazione fossi stato da solo: mi biasimavo più che lo capivo, ma non mi sono mai rimproverato tanto così come sto facendo adesso. Lasciava intravedere che forse avrebbe voluto; il suo essere realista glielo impediva, come se stesse cercando di spiccare il volo dalla scogliera e qualcosa lo trattenesse giù. Mi diceva spesso che, prima di arrivare a scuola, passava un po' di tempo lì davanti al faro; si sedeva proprio a picco, respirava l'aria salmastra (motivo per cui entrava in classe sporco di salsedine) e allargava le braccia per gridare, aspirare a pieni polmoni e far finta di gettarsi giù, accolto dalle onde dell'oceano che bagna Busan.

Non mi rispose, lo lasciai di stucco non appena: "Ecco, si vede che sei inesperto. C'è troppo vento non puoi, non puoi accendere nemmeno un fiammifero."

"E allora cosa facciamo?"

Jeongguk era ancora più maldestro di me. "Andiamo in pineta." Gli dissi. Mia madre non fuma, mio padre solo qualche volta. È il suo circolo d'affaristi a Perth che gli mette in bocca dei sigari cubani per realizzare una postura da business-man. Che fosse per imitazione di mio padre o di Jeongguk, mi misi a fumare con lui quelle due o tre Lucky Strike nella pineta.

"Ma se fumi, poi ti si rizza?" Fu particolarmente erotico aspirare alla francese davanti a lui, ancora di più passarci la stessa sigaretta come se fosse un bacio indiretto.

"No." Era così sciocco ed ingenuo, anche con una Lucky Strike fra le labbra, anche con l'aria da piccolo teppista dallo sguardo scuro e i capelli mori.

"Ma che cazzo!" gettò a terra la sigaretta fra la sabbia e gli aghi di pino. "Non lo faccio più!"

Per poco non si mise a piangere. All'epoca ero stronzo, con Jeongguk e senza Jeongguk, sia per scherzo sia per finta. All'epoca ero molto più egoista di adesso, che cerco di modellarmi sul suo possibile bisogno, se accettasse di rivedermi.

"Scherzo, cretino." Un altro sorso di sigaretta, più che inalavo più che la puzza di marcio e di bruciato scompariva. Non che lo fosse davvero del tutto; man mano che fumavamo, ci abituavamo a quel tanfo infernale che ci avrebbe fatto diventare i denti e i polmoni marci.

"Dio, mi hai fatto prendere uno spavento."

"Ci avresti perso a non poter più scopare con uno come me."

"Ci avrei perso a non poter più scopare." Mi disse.

Si prese, allora, una pacca sulla spalla, ma scorsi il suo sorrisetto malizioso. Le mani di Jeongguk si rigiravano fra loro un'altra sigaretta, la guardavano mentre il mozzicone della precedente si consumava fra le sue labbra, quel mozzicone che avevo succhiato anche io.

"Ci pensi mai a come sarebbe?" mi chiese.

Nel silenzio più sperduto della pineta al di là della spiaggia, alle prime ore del pomeriggio, prima di studiare matematica insieme o da soli, Jeongguk mi faceva una domanda dal sapore tanto simile a quella del "Che vuoi fare da grande?".

"A Come sarebbe cosa?"

"A come sarebbe se tu fossi un po' meno ricco e io un po' meno povero."

Ugualmente a come avrei reagito ad ogni domanda sul futuro, a meno che non mi avessero chiesto se avessi voluto diventare ricco e famoso come Elton John, non risposi. L'accenno di Jeongguk evocava una serie di cose di cui non discutevamo nemmeno per sbaglio: l'unico atto di mio mancato egoismo. Dire di un padre abusante e di una madre ed un figlio che ne subivano era dire una parte di sé che Jeongguk non affrontava. Un trauma in corso, fin troppo alla mente vigile, palese tanto quanto vivido e pulsante. Avrei potuto toccarlo con le dita; Jeongguk non lo aveva mai accennato, e premevo che col tempo me ne parlasse almeno per farsi aiutare.

"Vieni a stare da me." Fuori discussione: scosse la testa e s'impuntò per non lasciare sua madre da sola. Ecco perché pulsante, vivido e palese; gli occhi, le guance, il sorriso di lui prendevano i tratti del trauma e del dolore, l'unico sentimento che rimane più impresso, l'unico che dunque, se provato sempre e costantemente, genera uno smacco che non si può più rimarginare, ma col quale si può solo convivere.

A quella mezza baracca mi ero poi affezionato. Il venerdì sera, quando suo padre lavorava, andavo a cena da lui, il sabato pomeriggio veniva lui da me e facevamo i compiti; la domenica spesso copulavamo in camera mia. Quella caserma era deserta, perché, sebbene mio padre tornasse da Perth per il fine settimana, la domenica andava in luna di miele riproposta a Busan con mia madre. Dicevano che gli piacevano i grattacieli e lo shopping; io ne approfittavo per fare l'amore con Jeongguk.

Guardavo film, serie tv, documentari sulle malattie sessualmente trasmissibili, i virus e quel che gli scienziati ne dicessero sull'HIV; proponevo a Jeongguk tutte le varietà possibili di preservativi, e, per mia sfortuna, quelli alla fragola mi causarono una reazione allergica. Per quanto mi fossi rimbecillito a guardare tutti quei video, temei che Jeongguk mi avesse tradito e contratto la malattia da qualcun altro. "Sta' tranquillo, Taehyung, non ho fatto niente con nessuno. Diamine, siamo gli unici due omosessuali della zona, con chi altro avrei dovuto scopare?!" Mia madre mi fece i test allergici e fu così che scoprimmo la mia intolleranza alle fragole.

"Visto, che ti avevo detto? Il mio pisello è lindo e pulito." Fu una delle tante domeniche quando me lo disse, ma quella volta non facemmo sesso. Ci guardammo una serie scadente sulla piattaforma che piratava HBO (sì, quella del Trono di Spade), e mangiammo tanti dolcetti di Perth fino a stare male.

"Mio padre non mi regala mai i dolcetti."

Come lo disse e non ciò che disse. Jeongguk ne biascicò un pezzo ed abbassò gli occhi. Fu solo una conferma ai tanti impulsi che vidi in casa sua quando andavo a fare matematica infra-settimana. Arrivavo spesso nel primo pomeriggio, quando la cucina deve essere ancora pulita dopo il pranzo; salutavo sua madre, lei mi sorrideva e correvo in camera da Jeongguk. Contornata dalle pareti di legno, la stanza di Jeongguk era un piccolo rifugio con una finestrella che dava sulla strada e dunque sulla spiaggia. Ogni volta che entravo, lo vedevo disteso sul letto mentre contemplava il soffitto, con tutti i libri già aperti e preparati per terra o sulle coperte, mentre si mangiucchiava una penna bic blu.

"Quando ti scoppierà in bocca e ti affogherai con l'inchiostro, non ti vorrò portare all'ospedale." Lui replicò assai saccente: "Non dovrei darti il benvenuto?" chiusi la porta alle mie spalle, Jeongguk venne verso di me che sorrideva. Mi dette un bacio sulle labbra e mi toccò la pelle sotto la maglietta.

Le nostre giornate di studio finivano proprio così: dopo un attento lavaggio del cervello di lui che mi spiegava cosa fosse quelle cose astruse, quali funzioni e leggi della fisica, restavamo abbracciati sulle coperte senza dire niente, con lui, che si ripassava mentalmente la lezione di matematica, io che semplicemente lo guardavo. Tracciava in aria col dito dei simboli che forse erano studi di funzioni, e gli restavo con le braccia attorno al corpo e il collo sulla spalla. Altre volte fumavamo dalla finestrella, con la premura di non farci beccare da nessuno, né dalla madre di Jeongguk, né da qualche pettegolo passante.

Ma furono quelle volte, in cui il padre di Jeongguk rincasò presto, per cui mi accorsi che doveva esserci qualcosa a turbare la sua armonia familiare. "Cosa sta succedendo in cucina?" per mia ingenuità, la prima volta glielo chiesi. "È tutto a posto, Tae." Non diceva mai il mio nome abbreviato: o mi chiamava col mio nome intero o non mi chiamava affatto. Chiuse gli occhi ed abbassò lo sguardo mentre mi accarezzava i capelli e mi stringeva a sé, e solo una volta ebbe il coraggio di dirmi: "È tornato mio padre da lavoro."

Jeongguk era riservato, soprattutto circa la sua vita privata; non parlava mai dei suoi genitori, se non di quanto amasse sua madre. Nemmeno una parola, nemmeno un sorriso d'affetto per suo padre, se non quel piccolo accenno ai biscotti di zucchero che non gli erano mai stati portati. Mi disse di star tranquillo, che tutto presto sarebbe finito, e che lui era stato abbastanza sveglio da avere la premura di chiudere a chiave la camera.

"Ma no, Jeongguk! Scendiamo giù dai tuoi. Magari hanno bisogno di una mano." oltre dalla vergogna e dall'imbarazzo, il suo volto era segnato dalla paura, né rossore, né una lacrima, Jeongguk riempiva i suoi occhi di terrore quando suo padre era vicino.

Non mi accorsi mai di nulla, "Resta con me, per favore." se non fin lì. Riusciva a scamparla ogni volta potesse. Mi prese il polso e mi trattenne a sé: io ingenuo, così attratto da lui, il suo corpo, la sua persona, caddi nell'errore di non parlare, di lasciare che ogni mossa si compiesse a discapito di sua madre. "D'accordo, Jeongguk." E gli detti un bacio.

Non mi accorsi mai di nulla, se non per una stupida voce di corridoio.

Mia madre mi chiese dei Jeon. A lei è sempre piaciuto spettegolare e, talvolta, fare le sue maldicenze coprendosi la coscienza "In casa mia dico quello che mi pare." Ne ragionava assiduamente con la vicina di casa che le conservava sempre i pacchi ed in cambio mia madre le riversava la sana dose quotidiana di rumori del paese.

"Pare che il signor Jeon abusi di sua moglie."

"Che?"

Io e Jeongguk eravamo diventati il loro argomento preferito. Sapere in giro che un ragazzo ricco e di buona famiglia come me fosse "amico" (e agli occhi degli altri avremmo dovuto essere tali) del figlio di un uomo violento ed alcolizzato pareva assai strano. Ribadivo sempre a mia madre che la signora Jeon era una donna per bene: ad oggi sono in contatto con lei, mi piace passare del tempo insieme, parlare di Jeongguk mentre prendiamo il thè. Meritava tutta la mia stima e confesso che spesse volte andavo a casa di Jeongguk solo per il Kimchi che faceva. "Dammene un po' anche a me." Jeongguk si lamentava, e gli dicevo di stare attento, di non urtarmi e lasciarmi mangiare in pace, perché quel sughetto delizioso non sarebbe andato via dalle coperte immacolate: "Non far durare il doppio della fatica a tua madre che è sempre in casa a sgobbare per te." Con l'aggiunta di un "Ingrato!"

Nel cosmico vocabolario della mia filosofia comparivano solo le parole di un mondo bello: "abusare" mancava. Noi ragazzi di provincia (in fondo sono quello, anche se con un padre ricco e fanatico) cresciamo e ci formiamo con la cultura della strada, non esiste la conoscenza individuale, se non quella scolastica, piuttosto una serie di racconti e credenze che, crescendo, mi rendo conto siano solo falsi stereotipi e luoghi comuni. In sostanza, quello di cui mi avvalevo era lo stereotipo della checca: strano che nessuno, fin ora, se ne fosse accorto; la mia unica spiegazione era che chi mi guardasse attentamente non fosse abbastanza progredito per capire che gli omosessuali esistono e non sono una leggenda. Bastava vederci con la coda dell'occhio per capire che fossi innamorato di Jeongguk, anche solo una sbirciata in più per sapere che il sentimento era fisico e ricambiato.

La parola abusante sorse solo nell'attimo in cui realizzai che fra due persone, oltre che l'amore e l'odio, potesse esserci anche la violenza. Abusare significa molte cose, ma l'aspetto per cui ancora rimango attonito è il suo primario: il potere esercitato sull'oggetto di propria appartenenza. La relazione fra i genitori di Jeongguk si basava su un rapporto di possesso.

Nessun ladro, nessun problema entrava in casa quando Jeongguk si chiudeva con me nella sua stanza per studiare matematica. In sostanza, lo faceva perché sapeva; molte volte aveva visto la madre essere picchiata dal padre e spesse lui stesso era stato al suo posto. Lei gli diceva che doveva andarsene quando suo padre tornava dal lavoro: "Jeongguk, tuo padre è stanco e stressato. Non è capace di controllarsi." E, per accontentare lo spirito di protezione di sua madre, Jeongguk dopo pranzo, dopo la fine del turno di suo padre al fast-food di Amisan, filava in camera sua con la velata scusa del "Faccio matematica, perché domani interroga." Sua madre intendeva che il figlio fosse più perspicace ed intelligente di quanto la sua aria da ragazzetto stralunato facesse presagire, e così come ogni volta che il padre era di ritorno da qualsiasi dove, ubriaco. "Lascia perdere, Jeongguk. Tuo padre è solo ubriaco."

Il senso di sopportazione aumentava giorno per giorno; Jeongguk, per quanto potesse, fuggiva in ogni momento morto per evitare il susseguirsi del pericolo. Nascondeva per sé le lacrime che gli scendevano nei giorni più malinconici: era un terno all'otto ogni volta che lasciava sua madre da sola al piano di sotto della casa. Stizzava gli occhi e si tappava le orecchie per non sentire le grida e che venivano da giù; immaginavo che si rintanasse fra le coperte e che mettesse la testa sotto al cuscino per vivere nell'ovatta quando fuori era tempesta. Jeongguk non curò mai quel lato di sé, Jeongguk è ancora fin troppo rigido col sé del passato: sua madre mi ha raccontato che non riesce a fare a meno della colpa per non averla protetta. "Mi dice di essere stato un figlio pessimo." Le parole di sua madre riecheggiano convinte, come se lui stesso fosse stato il principale carnefice, ed io non certo del mio egoismo. Egocentrico e narcisista, mi comparo, persino in una disgrazia del genere, a lui, i cui problemi sono esistenziali, corretti, a ragione, mentre io faccio del mio individualismo un dramma.

Provai ad accennargli un minimo di conversazione, una volta; Jeongguk si mostrò più restio del previsto. "Mio zio vive e lavora a Seoul."

Lo introdusse così, quel fantomatico parente, sebbene da lì alla capitale ci fossero solo poche ore di viaggio. Jeongguk immaginava Seoul e lo zio come un sogno lontano, messo in ripetuta crisi dal suo eccessivo realismo. Che la sua condizione glielo imponesse mi pareva assai ovvio, e più cercavo di dargli un'alternativa, più ritornava fermo alla sua condizione di galera.

"Ho sempre voluto far crescere Jeongguk in un posto lontano dalla vita frenetica. Che stesse in una famiglia per bene, che crescesse sano, e che poi un giorno decidesse lui se andarsene o restare. Ma non c'è un manuale per essere bravi genitori." Mi rammarico a chiamarla "Signora Jeon"; me lo confidò un giorno durante il thè. Che Jeongguk se ne fosse andato per riprendersi la propria vita la distrusse giorno per giorno; ad ogni decina che ne passava, lei piangeva il doppio. "Ma una madre vuole sempre il meglio per suo figlio, e quindi ho lasciato che partisse." Desidero uno spirito materno tale che demolisca il mio egoismo, e tento all'infinito ricadendo nella mia condizione confortevole: il fallimento non è mai stato così monotono.

"Mio zio mi invita sempre a casa sua. Lo sento spesso al telefono." Gli chiedeva di partire, stare con lui a Seoul. "È più facile ricordarsi della sua voce che della sua faccia." Quel giorno mi mostrò una sua foto: alle spalle una distesa di palazzi, era giorno, e Jeongguk lo abbracciava con la stima di un figlio che stringe un padre. Un peluche sotto il braccio, quello che è rimasto sulla mensola di camera sua, e le mani che stringevano il collo dello zio abbassato per farsi toccare. Jeongguk era un bambino ilare, molto di più di quanto lo fosse da ragazzo. Quella foto era stata scattata durante le due o tre volte che era andato nella capitale.

Gli chiesi se avesse voluto tornare da lui, "Sì." e se avesse voluto vivere a Seoul: "Non è possibile, Taehyung." Per mio insano egoismo tirai un sospiro di sollievo, ma quella volta la follia superò l'individualismo possessivo: "Dai, ci trasferiamo a Seoul da tuo zio!" Jeongguk fece una smorfia: sognare non gli era concesso, se lo precludeva viste le sue circostanze. Cresceva dentro la mia testa, oltre all'egocentrismo malato e la voglia di futuro, il pensiero costante che Jeongguk potesse non volere ciò che io volessi. Che fossimo diversi mi parve più che palese da quella prima volta del succo alla pera alla staccionata sul mare, ma il voler essere accecato, il mio eccesso di sognare, giustificato dai bisogni della giovinezza, si riversarono sulla realtà dei fatti rendendomela incomprensibile: ero pronto a superare ogni nostra differenza, metterla da parte, che fosse di ragione sociale o personale. Per Jeongguk avrei sdolcinatamente fatto tutto.

Questo buon sentimento, quale l'amore, non rese la nostra relazione tenera e confortevole. Certo, ci amavamo, lui più di quanto lo amassi io ed io più di quanto lui amasse me. Ciascuno riteneva giusta la propria parte: io che provassi sentimenti oltre la norma, oltre i suoi stessi, che in realtà divenivano solo egoismo; lui che diceva di amarmi e poi mi baciava facendomi capire che la sua affermazione su di me era fisica e sentimentale. Nulla di più irrazionale di quel sentimento, un sentimento cattivo, che era nato come puro; nessuna consolazione, niente che fosse di conforto per la sua vita disastrata e la mia monotona. Nessuno era il porto sicuro dell'altro, ma per amor proprio egoista – perché non poteva essere diversamente – ci sentivamo attratti l'uno dall'altro.

È colpa di questa scriteriata adolescenza che ci fa confondere il sesso con l'amore; Jeongguk è fuggito, io ancora resto avvolto a questa forte convinzione, per cui quello che mi dette Jeongguk fu amore fuori da ogni limite. Amore che non servì certo a curarmi, quanto piuttosto ad ammalarmi e costringermi al fallimento. Giorno per giorno realizzavo che fossi stato un completo stupido ad essermi innamorato di lui. Ci dividevano i sogni, le aspettative, i caratteri senz'altro, e tutte quelle cose che infilano in testa alle bambine sull'amore che mi ero fatto proprie dai cartoni animati. Lo spezzarsi delle illusioni, che quella primavera ciclica e fisica, che giunge fra marzo e giugno, non porti alcunché di buono e niente di nuovo se non drammi ulteriori ed esperienze rinnovate, tristi ma cristallizzate. Non do conforto, non racconto la fine, perché nemmeno io la conosco; Jeongguk mi lascia in bilico fra un sì ed un no, un incontro forse mancato ed uno all'avvenire che chissà se ne avrò il coraggio di fare.

"Ti ho appena detto che non posso, Taehyung, e nemmeno voglio." Mi rispose a tono, e per la prima volta percepii dell'astio cattivo nei confronti di suo zio. "Era per dire." Ribolliva di gelosia dell'impossibilità, il fatto che suo zio fosse libero in una città dove i suoi sogni potessero realizzarsi, in cui, nel sogno utopico della scelta, che lui nemmeno ammetteva, nessun figlio vedeva il padre picchiare la madre. Per quanto lo amasse, Jeongguk era diviso fra il buon sentimento, che davvero nutriva, e quello cattivo, che si vergognava a dire: odiava suo zio, oltre a considerarlo un secondo padre, così come odiava suo padre. Jeongguk non capiva sé stesso, perché comprendere il perché un padre picchi una madre, accettare che tutto ciò accadesse proprio a lui lo divideva fra il contrasto di come realmente voleva fosse la sua vita e di quella che in realtà era. Il tutto si tramutava in un'apprensione nei confronti del futuro, non di me. Fin troppo sicuro; Jeongguk poteva confondere l'amore con l'attrazione sessuale, ma che il suo non fosse reale affetto era l'unica bugia che avrei potuto dire.

"Mi parli di lui?"

"Chi? Ancora di mio zio?"

"No, di tuo padre."

"Sei sicuro?"

"Sì."

Speravo solo che mi accennasse a qualcosa per cui potessi offrirmi di aiutarlo. A quel tempo il mio egoismo aveva ancora qualcosa di sano: tenere Jeongguk morbosamente vicino a me significava averlo salvo ed in salute. Ma mi confessò di voler uccidere il signor Jeon, quello stesso sentimento d'odio che nasceva dal contrasto fra l'amore e la vergogna, quello stesso sentimento brutto che proprio rigurgitava all'idea. Jeongguk moriva dalla voglia di diventare grande al più presto, per essere un adulto che non assomigliasse affatto al padre, che avesse certo una moglie, forse uno o due figli; si sentiva responsabile nei confronti della madre e la signora Jeon così per lui. La paura di farlo crescere davvero a Seoul con lo zio, quella di sradicarlo dal piccolo mondo borghese in cui Jeongguk era nato, e da quello stesso padre che nei sogni architettava di uccidere. Fra lui e sua madre era una sorta di rapporto nutrito di scambi reciproci, di morbosità e di dipendenza, di cui il padre aveva la metà della colpa.

"Ti va del pollo fritto?" Jeongguk compensava sempre in qualche modo: col cibo, ma non ingrassava; col fumo, ma non si ammalava; col sesso, e non si innamorava. Jeongguk era fragile ed era vuoto. Avrei voluto avere io la sua mancanza di libertà solo per il desiderio di potermi ribellare. Così tanto, il mio specchio; Jeongguk mi infilò un'aletta di pollo piccante in bocca perché piuttosto che parlare preferiva mi lamentassi. Mi disse che in quel fast-food suo padre lavorava part-time e che spesso gli orari variavano dalla mattina presto fin dopo l'ora di pranzo o dal tardo pomeriggio alla notte; il tempo libero che gli rimaneva da lavoro lo passava a bere. Non dava la colpa all'alcool, a differenza della madre; quel suo pensiero così lucido e poco coinvolto mi indusse a pensare che il suo corpo rigettava naturalmente l'idea di avere un padre, che ributtasse quell'idea per cui ad un padre bisognasse voler per forza bene. Il menefreghismo era diventato la sua strada naturale verso la catarsi, ma Jeongguk lo ingurgitava a fatica.

"Tutto sommato chi va d'accordo coi propri genitori?" Non fece un minimo d'accenno a quel che sapeva benissimo accadesse, talvolta anche sotto i suoi occhi. Il suo generalizzare tanto spontaneo mi fece capire che i processi psicologici nella sua testa funzionavano perfettamente per rendere, quanto più normale possibile, quel che stesse vivendo, tutto ciò che volesse accettare con forza.

Non riuscivo a mettermi l'anima in pace: "Ma perché sei così?" Suonò come una critica, e Jeongguk si stizzì a tal punto che mi rispose a tono. "Parla la bocca di un ricco." Sì, un ricco, un ricco finocchio; un ricco finocchio ricchione, che sarebbe stato disposto a tutto pur di aiutarlo. Lui non comprese mai, pensava volessi fargli l'elemosina per salvarlo: un principe azzurro che lo porta in salvo in stile sposa verso la sua casa. Jeongguk non accettò mai un centesimo da parte mia, nemmeno da suo zio; o almeno, non prima di trasferirsi del tutto a Seoul. Il lavoro più sicuro era quello di sua madre: stipendiata dagli uffici pubblici, utente a tempo pieno nel settore delle pulizie. "La donna che pulisce i cessi." Se lo lasciò sfuggire suo padre, morso dall'invidia, un pomeriggio mentre lei rigovernava prima di partire per il turno pomeridiano. Col poco stipendio della signora Jeon, riuscivano a mandare Jeongguk a scuola: quello, il poco, con la casa ereditata dai nonni, lasciatale per sé.

"I miei genitori riposano entrambi nel cimitero fuori Amisan, quello più lontano dal faro." Si confessò per molto tempo con me, dopo che Jeongguk lasciò in definitivo quel piccolo borgo. Era come se gli ricordassi suo figlio: dopo tutto i tratti del nostro volto si assomigliano abbastanza da scambiarci per fratelli. "I tuoi capelli mori, Taehyung. Hai gli stessi occhi neri, solo che... hai i capelli ricci." Sorseggiava del thè in quei pomeriggi in cui mi ritrovavo con lei. Erano sempre le cinque; a settembre, ottobre dell'anno successivo al nostro diploma, il sole tramontava molto tardi e restavo sulla piccola terrazzina deserta coi raggi arancio sulla vista.

Jeongguk non ne avrebbe parlato. Per mio egoismo avrei voluto, e cercai, di fatto, ogni strada buona per tirargli fuori dalla bocca tutto ciò che volessi sapere. Desideravo che mi dicesse di aiutarlo, che quello sarebbe stato il punto di svolta della nostra relazione, con lui che m'intesseva in trama il suo vissuto traumatico e io che gli avanzavo di stare con me, andarcene, qualsiasi cosa avessi voluto. "Quel che voglio dirti, Taehyung, è che siamo troppo diversi." Non accettavo mai le sue parole dozzinali riassumibili in quella semplice frase che mi disse. "Io sono pronto a mettere da parte le nostre differenze." Non mi torna nemmeno la voglia dei buoni sentimenti. Convito fino allo spasimo, Jeongguk distrusse col suo realismo tutto ciò che mi ero costruito: io non capivo. Era voluto, non volevo assolutamente capire; non ce n'era proprio bisogno, il mio fisico continuava ad ingannarmi che avrei potuto usare Jeongguk.

"Mettiti l'anima in pace. Non ci vedi proprio via di scampo? Guarda che non diventi famoso come Elton John." E non sarei nemmeno diventato famoso come Elton John, proprio l'ultimo dei miei desideri. Il progredire di quelle conversazioni mi rivelarono il dubbio, ora meno palese, che Jeongguk mi avesse cercato, amato, solo al fine di usarmi. Oltre che l'ultimo dei miei desideri, anche l'ultimo dei miei problemi; il primo era sempre stato lui. Mi affidai totalmente alla sua persona che non pensai alla mia: il mio unico desiderio, mi sento di dire, era la mia realizzazione tramite lui. La cerco in qualcun altro perché a lavorare da me proprio non sono in grado, e sfido quest'atteggiamento disimpegnato col timore del fallimento. Cerco il rifiuto perché forse è davvero ciò che voglio, perché tutto rimanga così com'è.

Scossi la testa e non ci pensai, quelle parole di Jeongguk mi facevano male. Cercavo di mettere da parte l'ego, ma si ributtava fuori sempre più forte. "Non voglio litigare, voglio solo discuterne."

"Per te è facile." Non me lo avrebbe mai detto; la differenza sociale, lo smacco ed il trauma dell'abuso lo segnava così tanto. Jeongguk non riusciva ad esser geloso di me, perché in fondo ero stato l'unico che nel suo dramma lo aveva sempre accolto, mai giudicato. Nemmeno la libertà gli serviva – quella fu l'unica cosa che non gli ho mai proposto –, perché nemmeno c'era abituato. S'impara a sopportare il dolore e così diventa monotonia e normalità. Jeongguk, più resistesse, più fortificava una parte di sé che non aveva obbligo di esser tale, quasi meglio avesse pianto ed ammesso il fatto.

"Ma la smetti, Jeongguk. Non ti ho fatto mica niente! Perché mi rispondi così?"

"Io? Come avrei dovuto risponderti? Mi hai fatto proprio passare la voglia!"

"A me non passa mai."

"Vado a prendere delle ciliegie." Quelle che sembrano plastica, geneticamente modificate, perché vicino al mare crescono solo le amarasche gialle e pepose. Mi convinsi che per lui fosse un gesto d'amore, l'altro lato di me mi diceva invece che fosse solo un modo per fuggire. Se avesse voluto uccidermi, sarebbe andato a prendere delle fragole.

Mi disse che suo zio molte volte gli aveva avanzato la proposta di trasferirsi a Seoul con lui; sua madre proprio era riluttante, tranne per ciò che ammise anni più tardi. "Non aver cresciuto Jeongguk lontano da qui è l'unica cosa di cui non mi pento." Guardava il fuori e poi me. Lo zio di Jeongguk si chiamava Kim Min-gi e lavorava in un ufficio import-export di relazioni col continente australiano. Chissà se mio padre lo aveva anche qualche volta incrociato, o se avesse visto scritto il suo nome. Aveva una moglie con cui si era sposato da poco, "Si chiama Sakura, non ho mai avuto il coraggio di chiamarla zia", però lei lo baciava, lo stringeva e lo abbracciava appena arrivava al loro appartamento. Guardavo Jeongguk mentre parlava, lui mi mandava delle occhiate di sospetto, ma poi si lasciava andare ad una lieve risatina di compensazione alla vergogna. Capivo che ero stato uno stupido, uno sciocco, un incosciente ad essermi innamorato di lui; uno stupidissimo bambino che si era lasciato abbindolare da qualche "Come è bella la tua casa" o da delle richieste di succhi alla pera farlocche. Jeongguk non avrebbe mai ricambiato, Jeongguk non ricambiò mai, e ora sono all'ultima spiaggia, quella della disperazione e dell'impegno, quella della disperazione impegnata e faticosa che mi porta a far tutto pur di non rimanere un fallito di scapolo come tanti altri. Forse lo voglio, forse no; chi lo sa. Nemmeno io riesco a darmi una regola.

"Lascerei da sola mamma."

"Ti senti in dovere?"

"Forse."

"Sei troppo duro con te stesso." Sottovalutavo il pericolo perché a fronte di ciò non ero niente. Non ero niente per lui, solo quel piccolo esperimento adolescenziale che per me sfociò in qualcosa di più. So che per lui fu lo stesso, ma il suo non voler pesare al prossimo rifiutava con disgusto la possibilità di dare un altro problema, oltre ad una madre abusata e un padre violento. Pure un figlio frocio: i soldi, nel mio caso, compravano la felicità.

"Io a volte mi immagino insieme." I miei presupposti erano altri. Se per lui era tanto arrivare a fine giornata senza avere un graffio e buoni voti, io lo pensavo sull'altare ad aspettarmi vestito in giacca e cravatta. È complesso da spiegare, ma spero che la situazione si sia adeguatamente ribaltata: io alla mercé del giorno (sicuramente), lui felice e con un gruzzolo di soldi da spendere per il futuro. Jeongguk non mi ha lasciato nemmeno il suo numero di cellulare nuovo.

"Sei troppo differente."

"Allora perché ci amiamo, Jeongguk?"

La risposta è la stessa che darei io oggi. Dopo aver saputo di come vive a Seoul per conto di sua madre, anche io avrei guardato in basso e detto umilissimo "Non lo so." È esercizio di intelligenza dimostrare che ci sia una risposta razionale in grado di dare un perché. Se anche Jeongguk confondesse amore e sesso, la follia del sentimento adolescenziale senza freni e senza mezzi termini, non sarebbe stato in grado di darmi l'addio con cui mi ha lasciato. Piangere gli fece assai bene, e le mie parole gonfie di retorica brava, in fondo sono solo gonfie di niente, molto sporche e senza contenuto; non contarono niente, perché unicamente dopo molto ammise la possibilità di scelta.

Tanto disperato e bisognoso quanto lo fossi io, e forse un po' di più "Mi dai un bacio?" che non ha niente a che fare con tutte quelle cose d'opposizione realista e quelle di futuro sdolcinato che mi imbastivano il cervello. Jeongguk, nonostante tutto, mi voleva bene, e nemmeno lo sapeva. Non è uno di quei buoni sentimenti con cui cerco spesso di giustificarmi; le dichiarazioni facili con cui copro quel che realmente voglio fare suonano spesso come una bella scusa del voler rimanere a brulicare nel niente. Mi spaventa ancora di più l'incontro con lui, non lo ritardo perché fingo di essere coraggioso. E rimango a metà dell'opera, prospettando il disastro.

La proposta di lasciare Amisan, fin lì, non era proprio stata contemplata. Ero finito in una spirale dolorosa, senza nemmeno essermene reso conto. D'altronde cosa ci si aspetta da uno che ha fallito per tutta la vita? Di fatto, la mia, iniziò proprio con il primo, con Jeongguk, a seguirne una serie infinita, in cui sguazzo, perché la paura del confronto va molto oltre. Dico che la mia è un'identità in cerca, ma mento e son bugiardo: se anche guardarlo in faccia adesso mi spaventa, è ovvio che la mia identità sia oltremodo minacciata.

"Come avrei potuto fare? Mio fratello la faceva così facile. Dove avrebbe potuto andare una donna sola con un figlio, abusata dal marito?" La casa è di sua proprietà; quell'eredità fortunata dei genitori defunti fu l'unico spiraglio di luce che rimase acceso negli anni dell'adolescenza di Jeongguk. Un luogo di perdizione e disfacimento: lo divenne molto presto, dopo il matrimonio, il parto e l'infanzia del figlio; un covo di vipere. "Rifugiarsi a casa propria." Mi sorrise con affanno. Il luogo più sicuro, che anche la sua d'infanzia aveva abitato, ne divenne il contrario. "Avrei dovuto denunciare mio marito? E continuare a vivere in casa con lui col terrore che mi facesse fuori la sera stessa che ero stata in centrale? Cosa avrei potuto fare con Jeongguk ancora minorenne?" Lamentava la sua condizione in quanto trauma: andarsene con Jeongguk, come se fosse stato un viaggio senza rischi o pericoli.

"Quando ha saputo di noi?" Glielo chiesi una sera in confidenza; col fiato sospeso finché non mi disse che aveva iniziato a capirlo molto tardi. Gli occhi accecati dalla sua di storia; le premeva di crescere il figlio, ignorando i suoi stessi bisogni. L'obiettivo di farlo senza particolari intralci del tutto morto con le memorie dei suoi avi. Alla fine, le restava solamente che portare a casa i soldi per mantenere un figlio promettente ed un marito ubriaco, che in cuor suo sperava gli capitasse qualcosa di brutto. È scorretto, ma l'ho sperato anche io, dopo le rivelazioni in famiglia.

Quegli stessi affari familiari, di Jeongguk e della signora Jeon, erano diventati (sono ancora oggi) dei brutti affari familiari anche miei. Continuo a disperare, a discapito della libertà di Jeongguk: sua madre credeva di poter decidere per lui anche se fosse stato lontano da quell'orribile quartiere.

Si tingeva di rosso la sera di fine settembre, poi di blu perché calava la notte. A quel sentore ed all'arietta fredda che veniva in direzione del mare, la salutavo cordialmente e tornavo a casa. Mio padre si era trasferito in pianta stabile a Perth: quindici ore di trasferta settimanali, un'ora di fuso ed altrettante di jetlag erano ormai stancanti per un vecchio. Mia madre con lui, perché l'idea era quella di lasciarmi la casa negli anni avvenire perché magari "Taehyung, non hai intenzione di mettere su famiglia e di lavorare in azienda con tuo padre?" Con una donna, neanche morto.

Sulla spiaggia al di sotto del faro, con gli ultimi schiamazzi dei lupi di mare che scaricavano il pescato da portare a Busan l'indomani. "Hai da passarmi i riassunti di filosofia per il compito?" Usato e bistrattato da vittima fallita quale mi piace essere, Jeongguk chiedeva ed io davo nutrimento. "Sì. Posso avere i compiti di matematica?" Se gli avessi chiesto un bacio sotto quei pini, mi avrebbe risposto a tono. Smisi di provarci, e iniziai a viverlo consapevole di ogni contradizione che poteva comportare il nostro rapporto. Se faceva l'amore, sembrava un uomo adulto; quando mi chiedeva di passargli i compiti o chicchessia, un bambino. Non che fossi meglio, ma che si fosse mostrato fragile ai miei occhi era come un sasso tirato senza esser consapevole delle conseguenze. Jeongguk provava ogni via possibile per mostrarmi una parte di sé che non aveva mai mostrato a nessun altro, e pochi attimi dopo se ne pentiva amaramente: chiudeva i battenti e non voleva più saperne. Ogni passo in avanti erano cento passi giù fin verso il baratro, e mi chiedo ancora se per la paura di essere additato frocio, o semplicemente quella di essere in qualche modo ferito.

Ero disposto ad appianare le differenze, fare anche mille passi indietro, peggiorare e crepare nel baratro della solitudine, ma insieme. Tutti buoni propositi che mi rendo conto non abbiano portato a niente. Quale cinico sentimento quel che ritenevo amore, perché fu solo fonte di disagio e imbarazzo. Scelsi di amare Jeongguk per il mio sano masochismo; non misi affatto in conto tutto ciò che potesse comportare una soggettività complicata come la sua. La mia fu tensione individuale, ignorarlo, e sano egoismo su cui costruii castelli fragili. Non mi propongo affatto di tornare indietro, perché il tempo non si riavvolge e non vedo che altre possibilità differenti: avrei scelto ancora di finir male. Né mi pongo il problema, dunque, se so che la mia reazione sarebbe stata la medesima. Jeongguk non era disposto ad appianare proprio nessuna differenza: scelse di desiderare almeno la libertà che non aveva mai avuto. Dimostrai così di fatto anche il suo proprio egoismo.

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