PRICELESS

By JennaG2408

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"Le cattive abitudini generano pessime dipendenze" 🌘Dark romance 🔞Forbidden love 💰Crime romance 📚 SCELTA... More

Avviso
C'era una volta una dedica
PARTE I
Prologo Lea
Prologo Trevor
1. FACCIA DA STRONZA
2. Finché qualcuno non ti compra
3. Fallo stabilire a me
4. Così poco di lei, così tanto di suo padre
5. Se l'orgasmo fosse un suono
6. Mi aspettavo di meglio
7. La sua degna erede
8. Un errore da 15 dollari
8.1 L'autrice si è dimenticata un pezzo di capitolo.
9. Tienila d'occhio
10. Non è Trevor
11. Non vali così tanto
12. L'anomalia emotiva
13. Il valore dell'innocenza
14. Quasi tutto quello che mi interessa avere.
15 Stasera quello rosso
16 Il mese prossimo potremmo essere morti entrambi
17 Non puoi urlare
18 La Dea più capricciosa dell'Olimpo
19. Aspettami senza far danni (parte1)
20 (parte2)Sei tu, la mia sola cosa importante.
21 (parte 3) Seppelliscimi con le scarpe giuste
22 (ULTIMA parte) Voglio sapere se posso urlare.
23 Who needs a boyfriend when you have puppies?
24 Sei uno stronzo fortunato, Trevor Baker
25 Ogni regina ha il suo scettro
26 Non puoi toccarla
PARTE II
27 Stanco, ma non di lei
28 La prossima volta ti farà male
29 Un nome per il sesso e uno per l'amore
30 Dolce figlia di un figlio di puttana
31 Ah, Auguri.
32 Quello che sta intorno al cuore
33 L'inferno non va bene per Sebastian Baker.
34 Non sempre un uomo di successo è un uomo di valore
35 Fragola, cioccolato e una goccia di veleno: mortale tentazione
36 Non fare di lei la tua Harley Quinn
37 Due affamati nello stesso letto
38 Niente di male a sanguinare un po'
39 E comunque questo è un Valentino, stronza.
40 Cattive intenzioni e voglie pericolose
41 La mia bambina non si tocca
42 Scorre sangue immondo
43 La sua pelle e la mia fame (parte 1)
44 Groviglio di carne e abbandono (parte 2 )
45 La migliore cosa sbagliata della mia vita (parte 3)
46 Il sesso come strumento di guarigione
47 Facciamo finta di no
48 Tutti i per sempre portano il nostro nome
PARTE III
49 Quello che sono disposto a fare per te
50 Scelgo il profano e il blasfemo
51 Il sapore di una truce Apocalisse
52 Non abbastanza. Punto
53 Eppure Lea è viva
54 Effetto domino
55 Cinquanta sfumature di BlueDomino
56 Londra è la mia puttana
57 Questo non può essere peggio
58 Gli affetti veri muoiono, quelli falsi uccidono
59 Innalzare le mie depravate pulsioni
60 Non c'è differenza tra una danza e una guerra
61 Benvenuti a tutti quelli come noi
62 Dimmi cosa ti ha fatto
63 Fammi male
64 Io mi salvo da sola
65 Mister SeLaTocchiTiUccido
66 La differenza tra stimolare e godere
67 Il grillo che mette nel sacco il gorilla
68 Pietà e rispetto
69 Non ti darei mai meno di tutto
70 Incassare, elaborare, espellere (parte 1)
71 Stavolta puoi urlare (parte 2)
72 Non lasciarmi solo
73 Ci sarò sempre
74 Stai attenta, bambina
75 Più incazzato che lucido
76 Scolpiranno il mio nome sulla tua carne
77 Domani è già arrivato
78 Sembra un addio, signor Baker
79 Esisti per me
80 A fanculo un'ultima volta
81 Non morire senza di me
82 Soffrire ancora un po'
83 Mentre fuori il mondo cade a pezzi
85 Ma tu non ci sei (parte 1)
86 Scopami nel modo sbagliato
87 UNLOCKED
PARTE IV
88 Morirò da re
89 Sono il vostro dio
90 Uno stronzo senza cuore
91 Tre baci sulla punta del naso
92 Un sollievo breve e inaspettato
93 Ciò che mi è dovuto
94 Ci sarò io, con te
95 Roba così
96 Nessuno di noi avrà conti in sospeso

84 Quella vita non è mai la tua

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By JennaG2408


Il problema dei ricordi belli è che diventano affilati come rasoi quando si affacciano in un momento della vita in cui va tutto a puttane. Fanno male, sanno ferire e far sanguinare e quella è un'emorragia difficile da arrestare. I ricordi belli, fanculo a loro, dovrebbero starsene alla larga nei momenti di merda se non sono in grado di trascinarti fuori dal pozzo disperazione, perché l'unico risultato possibile a quel punto è che s'immergono con te e s'imbrattano di sterco.

I cazzo di ricordi belli sono schiaffi sulla faccia dopo che la vita ti ha appena preso a pugni sul naso, sono perdite dolorose, l'ennesimo monito di un destino che ti fa dare un morso alla felicità solo per poi toglierti il piatto. E tu, piccola stronza inutile, resti con la tua fame che ti divora dentro, la sola compagnia del senso di colpa nei confronti di tutto quello che hai perso. Perché in fondo lo sapevi, lo sapevi che ogni regalo della tua esistenza richiede in cambio una vita. E quella vita non è mai la tua.

E quindi quel volto preoccupato, quello sguardo accusatore ma comprensivo fu il mio schiaffo sulla faccia dopo i pugni della vita.

«Miss Gessi...»

L'espressione del dottor Morgan, racchiuso nel piccolo display di Trevor, pareva la perfetta riproduzione della rassegnazione. Se a quel saluto affilato avesse aggiunto un "ve l'avevo detto", non mi sarei stupita. Ma quell'uomo era troppo raffinato per perdere tempo.

Dato che di tempo non ce n'era, ne fummo tutti sollevati e io non ebbi scelta se non quella di ricacciare indietro quella sensazione di fatidica tristezza che mi aveva attorcigliato lo stomaco nel rivedere il medico che ci aveva curati entrambi già una volta.

«Ustione profonda di secondo grado» sentenziò, nel vedere la situazione del mio polso e dell'avambraccio destro. «Con interessamento dello strato reticolare del derma. È dolorosa: se non è possibile prendere in considerazione un ricovero, procuratevi della morfina.»

Sospirò, forse per fare mente locale. Io faticavo a seguire le sue disposizioni in inglese, ma Trevor sembrava perfettamente lucido. Gli avevo tamponato la ferita con alcuni asciugamani puliti e l'emorragia sembrava sotto controllo. Ci contai, perché temevo di disperdere ogni informazione acquisita nel giro di pochi minuti. Il dottor Morgan si raccomandò più volte di fare attenzione affinché le vesciche rimanessero intatte: era fondamentale facessero il loro decorso da sole. Suggerì molte accortezze, ma ne compresi solo alcune. Ci inviò in digitale creme adatte alla cura dell'epidermide. Con l'aiuto di Trevor circondai le ustioni con uno strato di garze sterili imbevute di una pomata che al Sweety non mancava mai, dato che nel cucinotto e al bancone il rischio di tagliarsi o scottarsi era frequente.

«Probabilmente resterà la cicatrice, miss Gessi. Non escludo le salga la febbre. Se accade può prendere del paracetamolo. Si tenga idratata, non esponga la parte ustionata alla luce del sole in nessun caso, nemmeno se il cielo è coperto. Per i prossimi dodici mesi dovrà applicare sempre una protezione altissima. Faccia gli impacchi con le pomate che le ho inviato per almeno un mese e comunque prosegua per due settimane anche in seguito alla scomparsa delle vesciche.»

Annuii, anche se avevo capito solo una parte di tutto quello che ci aveva detto.

«E... miss Gessi?»

«Sì...»

«Si faccia visitare appena possibile: non posso escludere ci sia un interessamento dei nervi. Va bene?»

Acconsentii, anche se non riuscivo a dare davvero importanza a quell'eventualità.

Per Trevor la cosa fu più complessa. Pur accertato che il proiettile non era rimasto a incancrenirsi all'interno del suo corpo e che nessun organo era stato colpito, il medico ritenne essenziale non solo disinfettare la ferita, ma anche richiuderla. Da entrambi i fori.

Naturalmente dovetti farlo io e, altrettanto naturalmente, lo feci senza anestesia, con roba che di certo non era stata creata per cucire lembi di carne viva, con una mano quasi fuori uso, gli occhi annebbiati dal sudore, la morte nel cuore, due cadaveri a pochi metri, il mio migliore amico appena deceduto.

«Non serve sia una bella sutura, miss Gessi. Serve solo che sia una sutura.»

Trevor sopportò, anche perché scelte diverse non ne aveva. Impiegai una vita. Lui si scolò mezza bottiglia di una vodka da due soldi. Il dottor Morgan ci suggerì antibiotici per prevenire infezioni e disgrazie varie, dato che ne avevamo già abbastanza.

Ci disse di ricontattarlo nel giro di sei ore per riportargli i progressi.

«Grazie, William.»

Dall'altra parte del monitor lo sguardo aggrottato del dottor Morgan sembrava voler trasmettere milioni di messaggi, raccomandazioni e ramanzine al suo interlocutore. Si limitò, ma fu comunque efficace. «A Londra facciamo i conti. In tutti i sensi, signor Baker. Mi pare che le cose le siano sfuggite di mano.»

Con la schiena appoggiata al muro, i ciuffi neri e ribelli appiccicati alla fronte sudata, la camicia imbrattata del sangue di tutti quanti, mi sarebbe dovuto sembrare un uomo sconfitto. Al display rivolse un sorriso che pareva l'emblema del trionfo. «Se mi fossero sfuggite di mano quello morto sarei io, William.»

L'uomo scosse leggermente la testa, eppure la sua smorfia parve nascondere un briciolo di sollievo. «Voglio sperare che questa frase non sia profetica. Ci sentiamo tra sei ore. La signorina Gessi ha assoluto bisogno di riposo. Non si azzardi a coinvolgerla in fughe rocambolesche per le prossime 24 ore. E le tenga d'occhio la febbre. E deve alimentarsi e idratarsi. La ritengo responsabile, signor Baker.»

«E Trevor?» intervenni. «Oltre agli antibiotici, che altro?»

«Un po' di sale in zucca, miss Gessi. Ecco cosa gli ci vorrebbe.»

Con la coda dell'occhio vidi Trevor grattarsi una tempia. Mio malgrado, sorrisi. «Non ne ho abbastanza nemmeno per me, dottor Morgan.»

Per la prima volta in vita mia, ebbi l'impressione di avere a che fare con un uomo che mi riservava un affetto paterno. «Ne sono più che consapevole, miss Gessi, ma lei deve concedermi almeno la facoltà di scegliere con chi di voi due prendermela e, francamente, il signor Baker mi fa meno paura.»

Mi ritrovai commossa, ma con la voglia di cacciare fuori una timida risata dal mio corpo. Ne uscì una quasi muta, ma comunque viva.

Fu Trevor a porre fine alla videochiamata. «Tra sei ore, William. Grazie.»

Mi sentivo esausta. Lo era anche Trevor, ma non ebbe pietà. S'infilò il cellulare in tasca e mi prese il mento tra le dita.

«Lea, adesso devi aiutarmi a dar fuoco al Sweety.»

Mi chiesi cos'altro avrei potuto perdere ancora nel corso di quella giornata di merda.

***

«Non abbiamo più tempo, Lea. Mi dispiace.»

Sentivo il calore bruciarmi di nuovo la mano e il braccio già compromessi dalla fiammata generata dalla vodka di Andrey e dall'accendino di Trevor. Il Sweety illuminava tutto come un sole enorme sospeso nel buio. Dal piazzale del parcheggio, cercavo d'immaginarmi il mio giardino verticale che diventava cenere, il mio soffitto di vetro e acciaio che scoppiava e si scioglieva.

«È bello anche mentre brucia, vero? Mi piace anche mentre muore...»

Trevor mi prese il mento e mi fece voltare verso di lui. «Stanno arrivando, amore mio. Dobbiamo andare.»

Dentro al mio locale qualcosa esplodeva e s'infrangeva. Il Sweety ardeva, e aveva deciso di non farlo in silenzio. Forse era il suo ultimo sospiro, quello che sentivo. Il suo battito che lottava per resistere alle fiamme. O forse era il suo urlo di guerra. Odiava me? Ce l'aveva con me, perché non lo avevo salvato?

Non avevo salvato niente.

«Lea... ti prego, bambina. Arrivano...»

E per quanto cercassi di ancorare il mio sguardo a quello di Trevor, l'unica cosa su cui si posavano i miei occhi erano i lapilli infuocati della mia vita che svolazzavano nell'aria.

«Chi? Chi arriva? I Volkov?»

Trevor mi avvolse l'intero volto con le mani. Mi spostò sulla traiettoria del suo sguardo e attese, paziente, che mi concentrassi per riuscire a vederlo.

«I vigili del fuoco, Lea. Arriveranno presto. Sali in macchina.»

Ma io volevo vederlo un'ultima volta, il Sweety. Era così dannatamente bello che mi veniva voglia di bruciare con lui. Non poteva essere più caldo dell'inferno, giusto? Non mi sarei nemmeno accorta della differenza.

Potevo essere bella dentro il mio locale, un petalo di fiamma dentro un fiore di fuoco, elegante, pericoloso, letale e fragile.

Era calda anche l'aria, mi bruciava nelle narici, nella gola. Erano calde anche le mie lacrime.

«È bello anche mentre muore...» ripetei, mentre ad allontanarmi da lì ci pensava Trevor, prendendomi per il braccio sano.

Ed era caldo anche in macchina. Il Sweety non voleva restare solo, mi chiamava e io ne sentivo la disperazione, il terrore dell'abbandono. Le sue dita bollenti si allungavano verso di me, e io avrei voluto afferrarle e lanciarmi dentro di lui. Non volevo lasciarlo morire da solo. Era il mio locale. Era mio. Lo avevo cresciuto io, lui aveva avuto cura di me.

«Vorrei scendere...»

Era un bisbiglio il mio, perché sapevo che quello che volevo fare in quel momento non sarebbe stato accolto con favore da Trevor. L'auto partì in uno stridore di pneumatici sull'asfalto bollente.

«Lea, il Sweety non avrebbe potuto seguirti. Se ne va con Alice, amore mio. Mi dispiace, davvero. Ho bisogno di te, adesso. Lea, ho bisogno della tua attenzione.»

Il bagliore dell'incendio trasformava una notte qualsiasi in un capodanno fuori stagione, un'aurora boreale dorata che si sposava con un fumo così nero che il cielo notturno ne sembrava spaventato.

«Lea... non puoi scendere. Ho bisogno di te. Dimmi che sei qui, adesso, con me. Dimmelo.»

Ero lì? Con il corpo, sicuramente. Ma era la parte meno importante di me. Avevo perso il resto: qualcosa sull'incrocio nel quale era morto Denis, un pezzo nel sorriso defunto di Alice, un'altra parte nel mio locale che veniva ucciso da un incendio.

Perdevo tutto, proprio io, che pensavo di aver ormai poco da perdere. Scoprivo quanto era facile continuare a privarmi di qualcosa, quanto era facile scavarmi dentro con un cucchiaio per portarmi via pezzi di cuore.

«Lea, adesso basta, lo so che è stata una giornata difficile...»

Una giornata difficile.

«Non è stata una giornata difficile. Non è stata una giornata difficile, Trevor. Una giornata difficile è quando resti a piedi con la macchina e sul conto corrente hai solo cinquanta euro. Una giornata difficile è quando tuo figlio ha la febbre, tuo marito se n'è andato, tua madre è un'alcolizzata e tu non puoi assentarti dal lavoro. Una giornata difficile, Trevor, è quando hai fatto un turno di dodici ore in fabbrica e quando esci devi andare ad assistere un genitore infermo. Queste, sono giornate difficili. La mia non è una giornata difficile. Io ho visto morire due amici e ho dato fuoco al mio locale e...»

E la rabbia. La rabbia di non potermi imporre su di lui. Di non poterlo convincere. Di perderlo, consapevolmente. Di nuovo. Anche lui.

«Fammi scendere!» gridai, colpendolo a una spalla. «Fammi scendere, porca puttana!»

«Lea, Cristo, stai buona!»

«Voglio scendere! Non ci sto in macchina con te! Fammi scendere!»

Inchiodò sul ciglio della strada extraurbana, avvolta da una nebbia gialla perfettamente a tema con quella serata del cazzo. Mi afferrò per il braccio, costringendomi a voltarmi verso di lui.

«Tu stai in macchina con me, invece. E vieni a casa con me. E senti la voce di uno dei più grandi stronzi mai cagati fuori dal buco del culo del mondo, Lea, uno di quelli che ha ucciso tua madre. E la pianti, adesso la pianti, perché non crollerai proprio ora. Crolli a casa, Lea. A casa, sul divano, tra le mie braccia, puoi crollare, hai capito? Puoi piangere, disperarti, maledire il destino che ci ha fatti incontrare, mentre io mi prendo cura delle ustioni che ti sei procurata per scappare da Vitkor, mi accerto che non ti salga la febbre, ti costringo a mangiare anche se non vuoi e ti obbligo a bere due litri d'acqua prima di domani, perché tra sei ore chiameremo anche William e non sopporterei di sentirgli dire che ho fatto meno del massimo per te.»

Mi avvicinai, soffiando come un toro, al volto dell'uomo che nel lungo elenco di cose da fare, aveva sapientemente omesso il fatto che ci saremmo anche separati per sua volontà. «Trevor. Vaffanculo!»

Lottai per liberarmi da lui e dalla dannata cintura di sicurezza, ma era così terrorizzato all'idea di farmi male al polso fasciato, che ebbi la meglio. Spalancai la portiera e non trovai nessun sollievo nell'aria carica di umidità della sera. Presi una direzione inutile, che non mi avrebbe portata né al Sweety, né al rifugio, né all'inferno.

«Torna indietro.»

L'ordine impartito era aggressivo. Sbatté la portiera così forte che mi tremò anche lo stomaco. Andai avanti lo stesso, tra i rovi e i platani che si erano portati via molte giovani vite avvezze all'alcol e all'alta velocità. Ci mise poco a raggiungermi: non che avessi sperato il contrario.

Fu proprio contro un tronco d'albero, che mi inchiodò.

«Non c'è tempo per le scenate, Lea. Sali in auto. Dove credi di andare, si può sapere?»

«E tu? Tu dove credi di andare? Non ci torno a casa con te se è per salutarti, sai? Devi lavarti la coscienza con il dottor Morgan? Non serve. Non serve spalmarmi una cazzo di pomata sul braccio se mi uccidi andandotene anche tu!»

Mi afferrò le guance, incazzato come il fuoco che si divorava il Sweety. «Tu non manderai tutto a puttane, Lea. Farai la tua cazzo di parte, e io farò la mia. Funzionerà. Non rompere i coglioni, ragazzina. Troverò il modo di non farti sentire sola, e tu... tu te lo farai bastare. Quando sarà tutto finito verrò da te, e fatti trovare pronta perché a quel punto di me non ti libererai più. Riempirò i tuoi vuoti, ok? Ci riprenderemo quello che è possibile riprendere, te lo prometto, Lea, ok?»

Quello che è possibile riprendere.

«Non possiamo riprendere Denis...»

«No, amore, non possiamo riprendere Denis. Mi dispiace.»

«E neanche Alice possiamo riprendere...»

«No, neanche Alice.»

«E mami...»

«Lea, no. Non posso. Ma Denis ti ha chiesto una cosa, prima di morire, no?»

Mi sfuggì un singhiozzo. «Di non dimenticarlo.»

«Sì, era una cosa importante per lui, vero?»

Annuii con la testa, concentrata, tornando lentamente a uno stato quasi vigile.

«Ok, allora lo farai, ok? Mi starà un po' sul cazzo, lo sai. Beh lo sapeva anche lui, sicuro te l'ha chiesto apposta, lo stronzo...»

Tirai su col naso, nascondendo un sorriso che forse assomigliava un po' a una risata.

«...ma hai questa cosa da fare, eh? Devi fare la tua parte, io la mia, poi torno e tu mi indispettisci a suon di capricci facendo il nome di Denis ogni volta che mi vuoi fare girare i coglioni. Poi facciamo pace, e per fare pace m'infilo dentro di te in un sacco di modi osceni che avrebbero fatto girare i coglioni a lui. Ecco, vedi? Possiamo darci fastidio anche con l'inferno nel mezzo, io e Denis. Tutta la vita così, va bene? Capricci, sesso, tu che nomini Denis, io che sbuffo mentre ti preparo la cena... e se vuoi ne apriamo un altro di Sweety, ve bene? Come lo vuoi, Lea? Te lo faccio come vuoi tu. Lo vuoi con le pareti di cioccolato? Con gli unicorni in giardino? A forma di stella a sei punte? Te lo faccio come vuoi, amore mio. Faccio tutto per te, Lea. Tutto. Ma tu devi collaborare. Devi accettare un distacco...»

«No...» miagolai, un verso disperato.

«Sì, sì, Lea. Lo devi accettare. Se vuoi un per sempre, devi accettarlo.»

«Succederà qualcosa.»

«Non succederà niente.»

«Succede sempre.»

«Non stavolta. Te lo prometto.»

«È un prezzo così alto...»

«Lo stai già pagando, Lea. È tutta la vita che lo paghi e non sai nemmeno il perché, porca puttana. Ho pagato anche io. Adesso che sai quello che puoi avere, finalmente, non ti è concesso uno sconto. Tu farai la tua parte. Non farmi incazzare, Lea. Non sei arrivata fin qui per crollare. Sali in macchina. Siamo sporchi di sangue e guidiamo un'auto rubata. Se ci arrestano abbiamo un problema, Lea. E abbiamo un problema anche se non sali in macchina e non mi fai chiamare quel figlio di puttana di Aleksandr Volkov, bambina. Adesso non possiamo gestirli tutti da soli, i problemi, ok? Ne vomitiamo un paio su di lui. Non posso pensare a tutto.» Fece un profondo respiro, trasformò la presa sulla guance in una carezza. «Sali in macchina, amore mio. Abbiamo due omicidi e un incendio doloso da coprire, e una sola telefonata per farlo.»

Mi abbandonai a un suo abbraccio. «Va bene. Ma sono tanto stanca, Trevor.»

Mi baciò sulla tempia, quello me lo ricordo bene. Il modo in cui tornai alla macchina, invece, non me lo ricordo.

***

Era da stronzi pretendere che Lea potesse avere una reazione lucida e distaccata a tutto quello che le era successo in quelle ore, ma non c'era scelta. Mi aveva detto di essere tanto stanca, ma io sapevo che era più che distrutta dagli eventi, dalle violenze, dalle perdite e dalla paura. Era normale, cazzo, e in fondo era una cosina piccola, giovane, che al momento poteva contare solo su di me, che ero entrato nella sua vita da una manciata di mesi e, per di più, a suon di minacce e problemi.

Di tutto quello che aveva prima del mio arrivo, non le era rimasto nulla, ormai.

Stavamo per lasciarci tutto alle spalle, ma lei doveva fare i conti con la morte di Denis e di Alice.

In macchina ce l'avevo portata in braccio, con buona pace dei punti di sutura sbilenchi che lei stessa aveva improvvisato facendo del suo meglio. Sicuro me n'erano saltati parecchi. Amen, non sarei morto per quello. Ma la piccoletta era sfinita, a stomaco vuoto, reduce dall'ennesimo abuso e da un altro omicidio, inoltre alla collezione di sfighe atomiche avevamo aggiunto anche un incendio.

Si era svegliata comunque pochi metri dopo la partenza, per fortuna. Volevo che sentisse la telefonata.

«Ehi, bambina, ascolta, ora chiamo il pezzo di merda, ok? Tu stai muta, parli solo se ti do io un segnale»

Mi voltai appena per guardare il suo faccino pieno di polvere e lacrime. Dio, perché mi sembrava così spettacolare anche quando la vita l'aveva appena calpestata? Ero sempre in bilico tra il desiderio di infilarla in una teca di cristallo o il legarla a un letto e scoparla fino allo sfinimento.

«Sì, ok.»

Aveva una vocina che pareva un cinguettio. Come fosse potuta sopravvivere una robina così preziosa in mezzo a tanta merda, era un bel mistero.

Presi il cellulare che Lea aveva recuperato dal cadavere di Viktor e avviai la chiamata in bluetooth. La risposta arrivò dopo mezzo squillo.

«Soobshchite mne khoroshiye novosti

Sentii Lea inspirare, turbata, nell'ascoltare per la prima volta la voce profonda e composta di Aleksandr Volkov. Risposi in inglese, tanto per stabilire chi dei due doveva guidare la conversazione.

«Volentieri, ma è buona solo per me, Alek.»

Un attimo di silenzio, dall'altra parte. «Trevor.»

«Sì. Te la faccio breve. Viktor è morto. Ti mando le coordinate del suo cadavere, che al momento sta bruciando all'interno di un locale...»

«Quello della tua ragazzina?»

«Sì. Oltre al suo, all'interno c'è un secondo cadavere...»

«L'esca.»

Lea mi strinse la mano sul cambio, nel sentire la sua amica etichettata come un semplice strumento in un disegno grande e meschino. Non ero certo sarebbe stata in grado di seguire la conversazione tra un madrelingua inglese e un russo, ma evidentemente capiva quanto bastava. Inghiottii, mi concessi un secondo per portarmi alla bocca la sua manina fasciata e baciarla sulle garze. L'odore della pomata era forte, ma su di lei niente era fastidioso.

«Vedo che non ti sfugge niente, complimenti. Viktor ha cinque proiettili in corpo, ma è morto sgozzato dal suo pugnale. Non so come ha ucciso l'ostaggio, ma sono certo che dall'autopsia non sarà difficile capire che l'incendio non è responsabile di nessuno dei due decessi. Visto che il piano di merda e fallimentare è roba tua, mi aspetto che a sistemare il casino sia tu.»

«La figlia di Matteo Gessi?»

Feci sbiancare la nocche nello stritolare il pomello del cambio. Lea mi accarezzò il braccio per restituirmi una parvenza di lucidità.

«L'hai persa, Alek. Fuori dai giochi. Ma io ho tutto quello che serve.»

«Perché dovrei crederti, Trevor?»

«E perché non dovresti? Con cosa pensi ti abbia pagato il debito della RedAnt, sentiamo.»

Lo lasciai a meditare qualche secondo sulla situazione. Ma a negoziare, dovevo essere io. «Hai tre cadaveri nel magazzino di quel coglione di mio cugino. Vai a gestirli...»

«Hai ucciso anche...»

«Sì» tagliai corto. «Ho ucciso anche lui. I Baker non perdonano. Gestisci il magazzino, e gestisci il locale. Fammi uscire pulito, fai ricadere eventuali responsabilità su Lea, se proprio non ti riesce di fare meglio.»

La vidi chinare la testa di lato con la coda dell'occhio, più dubbiosa che turbata.

«Posso farlo, Trevor. Ora dimmi perché dovrei.»

«Perché non ho duplicato El Diablo, Alek, ma so come pilotarlo. Se voglio fottervi di nuovo conti e database, lo faccio.»

«Non credo tu possa farlo dal carcere.»

«No. Ma posso farlo mentre sono in attesa del processo. Vuoi scoprire se è più veloce il mio malware o la giustizia italiana, Alek? Perché ti assicuro che quest'ultima merita tutta la pessima fama che si è fatta nel corso dei decenni.»

«Incendio e magazzino non sono un problema, così come non lo sono i cadaveri. Ma tu, ragazzo, sarai un problema, sia per me che per tuo padre. Suppongo ne sia consapevole.»

«Naturalmente. Ma possiamo fare un accordo. Tenervi tutti per i coglioni con il malware fa di me un bersaglio. Non posso trascorrere l'esistenza a guardarmi le spalle e, al contrario di Lea, El Diablo non è collegato alla mia sopravvivenza.»

«Un accordo di che tipo?»

«El Diablo è versatile, Alek, e tu sei un uomo di grande fantasia. Per usarlo, devo essere vivo. Spartiamo i guadagni. Ma ne parliamo a Londra, quando sarò certo che qua in Italia avrai pulito il casino come si deve.»

«Sarò a Londra per l'inaugurazione... »

«... del circuito di formula uno. Lo so, dato che sono proprietario di una delle scuderie.»

«E da quando?»

«Da sei settimane. È previsto che io corra su quel circuito, Alek. Quindi vedi di scagionarmi entro quella data. Se non sarò sulla mia auto al semaforo verde, faccio partire El Diablo. Se invece va tutto bene, parliamo di affari non appena avrò superato la bandiera a scacchi.»

«Hai creato una polveriera, Trevor. Basta una scintilla, e scoppia tutto. Te ne rendi conto?»

«Sarò sincero, Alek: me ne rendo conto. Ma sai una cosa? Tra un paio d'ore avrai la prova della mia capacità di pilotare El Diablo. La borsa di Hong Kong è aperta. Vendi quattrocento azioni della China Mobile Limited al mio segnale. Farò sparire dalla transazione il 20% della tua parte. Sono briciole, quindi non farti venire le emorroidi per niente. Avrai la tua prova. Se al mio segnale non fai partire la vendita, avrai una prova ben più evidente e meno gradita del mio potenziale con El Diablo. Sono stato chiaro?»

«Non mi piacciono i ricatti, Trevor.»

«Allora consideralo un affare. Attendi il mio segnale per vendere. A presto, Alek. Salutami Sebastian.»

Interruppi la chiamata. Tirai un sospiro di sollievo. La conversazione era rimasta sui binari che mi ero augurato.

Senza distogliere gli occhi dalla strada buia e offuscata dalla nebbia, trovai la guancia accaldata di Lea e ci passai le dita.

«Ho bisogno di te tra un paio d'ore, amore mio.»

«Sì. Ho sentito.»

«Ce la fai?»

«Ce la faccio, anche se El Diablo è cablato su Wall Street. Ma non è quello a preoccuparmi.»

«Cos'è che ti preoccupa?»

«Mi preoccupi tu alla guida di una formula uno. Dannato bad boy ricco e viziato.»

Sorrisi. C'erano molte incognite ancora, davanti a noi. Mi guardai bene dal dirle a Lea. Avrei voluto spiegarle tutto, ma meno sapeva e meglio era, dato che le probabilità che se ne stesse fuori dai piani in caso di consapevolezza erano pressoché nulle. Se avesse immaginato quello che sarebbe successo al circuito, come minimo me la sarei trovata sul sedile al posto mio.

***

Eravamo luridi, pieni di cenere, polvere, sangue e traumi irrisolti. Ma Lea era un cazzo di capolavoro di perfezione lo stesso: il suo profilo da infarto illuminato dallo schermo mi faceva male al cuore, perché sarei stato senza vederlo per troppo tempo.

«Possiamo stabilire noi il prezzo? Mi renderebbe le cose più facili nell'individuare la transazione corretta...»

Si voltò verso di me, nel chiedermelo, e dovette leggere qualcosa di strano nella mia espressione. «Non guardami così, mister Sterlina.»

Era entrata in quella stanza senza incertezze, e davanti al pc che le aveva lasciato Denis non avevo colto imbarazzi o tentennamenti. Ma in quel posto aveva avuto origine il buio che si portava dentro, e lo sapevamo entrambi. Erano successe troppe cose in poco tempo, tutte brutte. Non volevo tenerla in quella cameretta più del dovuto.

«Ti guardo nel modo in cui un artista ammira l'ultima opera del suo rivale scoprendo che non ne potranno mai esistere di migliori.»

Allungò il braccio fasciato per lasciarmi una carezza sul viso. «Non sono una tua rivale, signor Baker.»

«Lo so, amore mio. Tu sei l'opera d'arte.»

Sotto la cenere, mi parve di vederla arrossire un po', e mi lusingò l'esserne la causa. «Comunque sì, stabiliamo il prezzo di vendita. Dimmi quale preferisci.»

Sospirò, riflettendo. «Spara 111,11 CNY. È un prezzo troppo alto, quindi la sua offerta non incontrerà la domanda. Comprale tu le sue azioni, ok? Rendiamoci la vita più semplice, Trevor, dato che già di partenza è complicata.»

Inviai le istruzioni ad Aleksandr Volkov. Attendemmo solo qualche minuto, poi Lea individuò l'offerta.

«Eccola! 400 azioni a 111,11 CNY. Acquistale, Trevor. Ho già cablato El Diablo.»

L'ennesimo scherzo del destino, fece sì che per avere una qualche speranza di sopravvivere e invecchiare felice insieme a Lea, dovessi fare l'acquisto meno redditizio della mia vita.

Acquistare le azioni a quel prezzo non era banale: le regole del mercato imponevano che le vendite avvenissero in ordine di prezzo, proprio per evitare manipolazioni.

Dato che sia i Baker che i Volkov erano più che avvezzi alla manipolazione illecita dei mercati finanziari, intercettai il prezzo di Aleksandr in modo illegale, causando per qualche tempo un'impennata del costo di tutte le azioni della società.

Il giorno seguente se ne sarebbe parlato un po' ma, come sempre, la vulnerabilità della finanza era argomento che veniva sgonfiato con grande prontezza ed efficacia.

«Fatto. La compravendita è andata a buon fine.»

Lea si voltò, un sorriso più imbarazzato che timido sul faccino imbrattato. «Anche il furto. Aleksandr Volkov riceverà il 20% in meno del prezzo. Ha la sua prova.»

«Ben fatto, mia deliziosa criminale informatica.»

Si prese un attimo, prima di parlare. «Hai capito tutto, vero? Da quella volta al Demons. So cos'hai comprato. Hai trovato gli ammanchi. E hai capito.»

Adoravo il fatto che continuasse a parlarmi per enigmi. Sì, avevo capito molto. E lo avevo rivelato ad Andrey. Ma non tutto, no. «Quando ho scoperto di Denis ho sospettato di lui, per un po'. Ma poi ho ripensato al nostro ritorno da Milano. Ho avuto l'impressione che Denis non sapesse tutto, al massimo aveva dei sospetti, come li avevo io. Ora ho certezze.»

Mise un broncio preoccupato, invitante come un segreto nascosto tra le pagine di un diario. «Sei arrabbiato perché non te l'ho detto?»

«No, non c'era bisogno di dirmelo. Ma non so tutto, bambina. Non ho nemmeno cercato di scoprire più del dovuto, perché i tuoi segreti ti tengono al sicuro. Non voglio sapere cosa ci hai fatto, ad esempio, con tutto quello che manca. Ma una cosa la vorrei sapere.»

«Sentiamola...»

«Puoi programmare la partenza della tua apocalisse? Mi serve un diversivo per distogliere l'attenzione da quello che accadrà dopo l'inaugurazione del circuito.»

Si strinse nelle spalle, serena. «Certo che posso.»

«Ok. Bene. Programmala per... diciamo tre ore dopo la fine della gara, ok? Indipendentemente dal come finirà, mi raccomando.»

«Ok. Quindi non appena finisce faccio partire il countdown?»

Ci pensai su. «Puoi modificare il timer in corso d'opera in caso di necessità?»

«Posso.»

«Ottimo. Adesso non pensarci più, ok? Faccio mente locale per stabilire in che ordine incastrare i nostri piani.»

«E quanto pensi ti serva per fare mente locale?»

La guardai attentamente. Mi stava chiedendo un'altra cosa, in realtà.

«Non andrò via prima di domani sera, Lea. Ok?»

Due lacrimoni grandi trascinarono via dalle guance un po' di sporco. «No, non è ok. Ma me lo farò andare bene, signor Baker.»

Mi alzai, e la invitai a fare lo stesso. Volevo portarla fuori da quella maledetta stanza.

«Ho ventiquattro ore per prendermi cura di te, bambina.»

Non fu facile nemmeno quello, naturalmente.

***

Il senso di vuoto iniziò a farsi largo dentro di me non appena realizzai le intenzioni di Trevor.

«Non ci entrerò. Lascia perdere.»

L'acqua, nella vasca, saliva non troppo rapidamente di livello. E più lei aumentava di volume, più io mi sentivo privata di tutto.

L'inventario di ciò che mi era rimasto era crudelmente ironico: l'appartamento in cui avevo visto sentito e vissuto il peggio della mia esistenza, e nient'altro.

Nient'altro, perché stavo per perdere anche Trevor.

«Ti farà bene.»

«Mi farà meglio una doccia.»

«No. Falla finita.»

Sospirai. Non avevo più nemmeno fiato da sprecare. Io non ci sarei entrata, lui non si sarebbe arreso. Alla fine probabilmente mi avrebbe costretta. Ci saremmo fatti male.

Dopo tanto farci bene, prima o poi doveva capitare.

«Starò attenta a non bagnare il braccio sotto al getto.»

«Niente doccia, Lea, non stasera: bagneresti la benda. Entrerai nella vasca. Ti rilasserai. Il braccio resterà fuori dal bordo e ne uscirai pulita. Fine del discorso.»

Ogni minuto che passava era un minuto in meno alla partenza di Trevor. Per quale cazzo di motivo la clessidra della mia vita era sempre girata nel verso sbagliato?

«Potrei venire con te» buttai lì, di punto in bianco, seduta sulla tavoletta del water e gli occhi fissi sull'acqua che, inesorabilmente, continuava a crescere.

Trevor chiuse i rubinetti, si raddrizzò, mi venne incontro come se fosse pronto a lottare e sicuro di vincere. Ma non mi fece alzare, come mi ero aspettata. Si piegò sulle ginocchia, mi sollevò il mento quanto bastava a costringermi a guardarlo. «Tu devi sparire, Lea. E non puoi sparire se sei con me. Adesso ti cercano anche le forze dell'ordine italiane, bambolina. Non dubito che Alek abbia scelto il sentiero più breve per insabbiare gli omicidi: addossare una qualche responsabilità a te.»

Feci spallucce. «Hai detto una cosa sensata, al telefono: la giustizia italiana è lenta, mister MettitiAlSicuroMentreIoScatenoL'Inferno. Avrei settimane, o mesi di tempo prima di una condanna. Potrei sparire durante il processo. Intanto io faccio quello che devo e tu... anche.»

Sospirò, mi incoraggiò ad alzarmi e mi sfilò prima la felpa, poi la maglietta. Glielo lasciai fare. Ero così stanca.

«La giustizia italiana è lenta, hai ragione. Quella russa meno, Lea. Quella dei Volkov poi, non ne parliamo. Non si può fare, è rischioso. Ora sfilati i pantaloni, da brava.»

Rassegnata, me li sfilai, ma quando mi alzai di nuovo mi ritrovai incazzata con lui.

«Mi vuoi fuori dai piedi, vero?»

Allungò una mano, rifiutai la sua coccola, anche se mi costò tanta fatica. Nel modo in cui mi guardò colsi per la prima volta la nostra effettiva differenza d'età: i molti anni di tormenti e infelicità in più che aveva vissuto lui.

«Ti voglio al sicuro, Lea. E con il tuo aiuto sarò al sicuro anche io.»

Abbassai lo sguardo e vidi che indossavo ancora i calzini. Parlai mentre realizzavo che erano spaiati. «Posso nascondermi a Londra. Mi vieni a trovare in un posto che conosci solo tu, e solo quando puoi, o quando vuoi.»

Era una proposta idiota, e continuai a osservare i calzini, incapace di sparare puttanate colossali guardandolo in faccia. Naturalmente, Trevor mi alzò il mento con il tocco delicato di due dita.

«Spogliati ed entra nella vasca, Lea. Londra è la bocca del lupo e tu sei Cappuccetto Rosso. Lavati via di dosso i resti del tuo incendio e gli avanzi delle tue idee del cazzo.»

Non ci volevo entrare. Lui lo sapeva. «Userò il lavandino. Mia aiuti tu.»

Si mise dietro di me, mi abbassò le spalline del reggiseno, mi lasciò tanti piccoli baci sulle spalle, mentre mi accarezzava la pelle. Mi fece stare meglio, ma mi fece stare anche peggio. Ogni cosa carina era un granello di sabbia in più nel lato sbagliato della fottuta clessidra.

Mi tolse la biancheria, lo fece piano, le dita che parevano ali di farfalla sul mio corpo. Sentii sulla schiena il suo volto contrarsi in un sorriso che avrei voluto vedere per starci male un po' di più. «Pensi di collaborare nel toglierti quei calzini, miss AccettoLeImmersioniSoloSeVedoUnaStronzaDiTartaruga?»

Il ricordo australiano mi colpì come un'onda anomala: improvviso e spaventoso. Mi voltai di tutta fretta in cerca di un abbraccio che mi proteggesse dalla travolgente forza di quello strappo di felicità che in quel momento mi sembrava lontano anni luce, irripetibile e ineguagliabile.

Sulla camicia stropicciata e lurida di Trevor rovesciai i miei singhiozzi disperati, difficili da contenere in un corpo sciupato come il mio. Mi strinse forte, passandomi le dita tra i capelli, con tutta la pazienza di cui avevo bisogno, e che quell'uomo sembrava aver conservato per tutta la vita solo per me, ennesimo dono di un amore nato e cresciuto in fretta e, forse, destinato a finire nel peggiore dei modi altrettanto brevemente.

«Ascolta, Lea, ti sei fidata di me, quella volta, ricordi? E la tartaruga l'abbiamo vista. Fidati di me anche stavolta. Vengo con te, in un modo un po' diverso, ma vengo con te in un posto nuovo. Dimmene uno in cui saresti disposta a immergerti, in cui accetteresti di farti guidare ancora una volta da me. Dimmene uno.»

Ma che ne sapevo io, del mondo? Avevo evitato tutto per non rischiare di perderlo, perché di mancanze ne gestivo già troppe, e almeno quelle non essenziali avevo preferito non conoscerle. Da Trevor, alla fine, mi sarei fatta accompagnare anche a piedi nudi su un sentiero di vetri rotti.

Era solo una vasca, in fondo. Non mi aveva uccisa da bambina, cosa poteva farmi, ancora, che non avessero già tentato di farmi altri, fallendo?

Alzai la faccia dal suo petto che mi accoglieva sempre, anche quando ero incazzata. «Ci entro nella vasca, adesso ci entro.»

Ma non mi lasciò neanche allontanare, una mano invitò la fronte a ritrovare la pace contro il suo torace, le braccia che mi cingevano come se non avessi neanche espresso l'intenzione di fare, finalmente, quello che mi aveva detto.

«Dimmi un posto, amore mio. Uno che vorresti visitare.»

Non ne volevo visitare altri. Non me ne servivano altri. Avevo già il mio posto. «Voglio tornare a Cairns. Le tartarughe. Il pub con le cameriere ultra fighe. I pipistrelli grossi come Boeing. Le puttane eteree. Le tane vuote dei granchi. Gli insetti stecco sul letto. Le lucertole da trenta chili sulla passerella. E la spiaggia. La nostra spiaggia. Mi porti lì?»

Mi baciò tra i capelli. «Sì. Chiudi gli occhi.»

E invece alzai lo sguardo perché avevo paura potesse sparire se li avessi tenuti chiusi troppo a lungo.

«Chiudi gli occhi, Lea. Ti porto a Cairns, va bene?»

Trattenendo tutte le mie lacrime, annuii e chiusi gli occhi.

«Mi allontano solo di due passi» mi bisbigliò all'orecchio. «Solo due passi, ok? Poi torno ad abbracciarti. Sono vicino, Lea. Anche se non mi vedi, se non mi senti. E questa è una cosa cui dovrai abituarti.»

Il suo corpo scivolò via dal mio e venni scossa da un singhiozzo. Dopo un paio di secondi, il buio dietro le palpebre divenne ancora più nero. Sentii il rumore della tapparella abbassarsi. E poi, di nuovo, il rassicurante calore della braccia di Trevor intorno a me.

«Ok, siamo a Cairns, Lea. Apri gli occhi.»

Sbattei le palpebre un paio di volte, abituandomi a quel buio infranto da una vaga luminescenza verde. Le luci spente, porta e finestre chiuse, il nero trafitto da una luce dolce.

«È sera, a Cairns. Anzi, è notte. Siamo nella foresta, perché lo sai che non si può stare in spiaggia a quest'ora, vero?»

E annuii, come se mi stesse dicendo la cosa più ovvia del mondo. Dalle sue labbra mi sarei bevuta qualunque cosa, anche una condanna a morte. E se Trevor mi diceva che eravamo a Cairns, noi eravamo a Cairns. E andava tutto bene.

«Bene, il nostro alloggio ha una veranda, adesso. E in veranda c'è una vasca, amore mio. Non ha l'idromassaggio, ma fa lo stesso, vero? Ci rilassiamo lì, io e te. Sono accanto a te. Non posso entrare in acqua, perché una stronza di medusa mi ha pizzicato a un fianco. Entri tu. Ti tengo la mano. Chiudi gli occhi, ti riposi, e mi prendo cura del tuo corpo, Lea. Va bene?»

Sì, andava bene. Benissimo. Alla fine in acqua ci entrai con addosso le calze e nessuno dei due se ne preoccupò più di tanto.

La luce soffusa verde proveniva dal monitor del cellulare di Trevor, appoggiato al lavandino. Mi accompagnò finché mi ritrovai con la schiena appoggiata al bordo della vasca. Mi tenne la mano fasciata sollevata, e quando fui sistemata si sedette sul bordo, la schiena alla parete.

«Puoi riposare, Lea. Ti faccio uscire quando l'acqua diventa fredda. Non ti faccio ammalare, te lo prometto.»

E mi permisi di chiudere gli occhi, mentre Trevor mi passava la spugna sul corpo, mi spostava i capelli, mi accarezzava, mi regalava un altro ricordo bello nel bel mezzo di un inferno che mi aveva sequestrato quasi tutto.

Eppure...

«La mia vita è una collezione di perdite, Trevor. Ma la tua è l'unica cui non potrei mai sopravvivere.»

Mi passò la dita sulle palpebre, e l'ultima cosa che ricordo è il tono incerto di una promessa che non era certo di poter mantenere. «Non mi perderai, Lea. Ti troverò.»

Poi, mi addormentai nella vasca, cullata dalle sue mani che mi lavavano via la sofferenza dalla pelle con una spugna. 

SPAZIO AUTRICE

Il Sweety è andato. Alice pure. Denis è freddo da un pezzo. Viktor fuori dalle palle. 

Al momento il bilancio non è a favore dei Levor. 

Mi prendo un p' di tempo in più per scrivere della loro separazione, mie regine, perchè in pochi capitoli sono successe tantissime cose (tutte brutte, come hanno detto i protagonisti)

Qualche giorno per digerire la morte di Denis e Alice, l'incendio del Sweety e la morte di Viktor per addentrarmi nella parte incasinata, quella che li vede separati a cercare di cambiare i connotati del mondo. 

Ma ogni cosa ha un prezzo, mie regine. Lea e Trevor non hanno finito di pagare, mi dispiace. 

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