PRICELESS

By JennaG2408

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"Le cattive abitudini generano pessime dipendenze" 🌘Dark romance 🔞Forbidden love 💰Crime romance 📚 SCELTA... More

Avviso
C'era una volta una dedica
PARTE I
Prologo Lea
Prologo Trevor
1. FACCIA DA STRONZA
2. Finché qualcuno non ti compra
3. Fallo stabilire a me
4. Così poco di lei, così tanto di suo padre
5. Se l'orgasmo fosse un suono
6. Mi aspettavo di meglio
7. La sua degna erede
8. Un errore da 15 dollari
8.1 L'autrice si è dimenticata un pezzo di capitolo.
9. Tienila d'occhio
10. Non è Trevor
11. Non vali così tanto
12. L'anomalia emotiva
13. Il valore dell'innocenza
14. Quasi tutto quello che mi interessa avere.
15 Stasera quello rosso
16 Il mese prossimo potremmo essere morti entrambi
17 Non puoi urlare
18 La Dea più capricciosa dell'Olimpo
19. Aspettami senza far danni (parte1)
20 (parte2)Sei tu, la mia sola cosa importante.
21 (parte 3) Seppelliscimi con le scarpe giuste
22 (ULTIMA parte) Voglio sapere se posso urlare.
23 Who needs a boyfriend when you have puppies?
24 Sei uno stronzo fortunato, Trevor Baker
25 Ogni regina ha il suo scettro
26 Non puoi toccarla
PARTE II
27 Stanco, ma non di lei
28 La prossima volta ti farà male
29 Un nome per il sesso e uno per l'amore
30 Dolce figlia di un figlio di puttana
31 Ah, Auguri.
32 Quello che sta intorno al cuore
33 L'inferno non va bene per Sebastian Baker.
34 Non sempre un uomo di successo è un uomo di valore
35 Fragola, cioccolato e una goccia di veleno: mortale tentazione
36 Non fare di lei la tua Harley Quinn
37 Due affamati nello stesso letto
38 Niente di male a sanguinare un po'
39 E comunque questo è un Valentino, stronza.
40 Cattive intenzioni e voglie pericolose
41 La mia bambina non si tocca
42 Scorre sangue immondo
43 La sua pelle e la mia fame (parte 1)
44 Groviglio di carne e abbandono (parte 2 )
45 La migliore cosa sbagliata della mia vita (parte 3)
46 Il sesso come strumento di guarigione
47 Facciamo finta di no
48 Tutti i per sempre portano il nostro nome
PARTE III
49 Quello che sono disposto a fare per te
50 Scelgo il profano e il blasfemo
51 Il sapore di una truce Apocalisse
52 Non abbastanza. Punto
53 Eppure Lea è viva
54 Effetto domino
55 Cinquanta sfumature di BlueDomino
56 Londra è la mia puttana
57 Questo non può essere peggio
58 Gli affetti veri muoiono, quelli falsi uccidono
59 Innalzare le mie depravate pulsioni
60 Non c'è differenza tra una danza e una guerra
61 Benvenuti a tutti quelli come noi
62 Dimmi cosa ti ha fatto
63 Fammi male
64 Io mi salvo da sola
65 Mister SeLaTocchiTiUccido
66 La differenza tra stimolare e godere
68 Pietà e rispetto
69 Non ti darei mai meno di tutto
70 Incassare, elaborare, espellere (parte 1)
71 Stavolta puoi urlare (parte 2)
72 Non lasciarmi solo
73 Ci sarò sempre
74 Stai attenta, bambina
75 Più incazzato che lucido
76 Scolpiranno il mio nome sulla tua carne
77 Domani è già arrivato
78 Sembra un addio, signor Baker
79 Esisti per me
80 A fanculo un'ultima volta
81 Non morire senza di me
82 Soffrire ancora un po'
83 Mentre fuori il mondo cade a pezzi
84 Quella vita non è mai la tua
85 Ma tu non ci sei (parte 1)
86 Scopami nel modo sbagliato
87 UNLOCKED
PARTE IV
88 Morirò da re
89 Sono il vostro dio
90 Uno stronzo senza cuore
91 Tre baci sulla punta del naso
92 Un sollievo breve e inaspettato
93 Ciò che mi è dovuto
94 Ci sarò io, con te
95 Roba così
96 Nessuno di noi avrà conti in sospeso

67 Il grillo che mette nel sacco il gorilla

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By JennaG2408

Nella hall della Baker tower incrociammo Sebastian. Nell'uscire dall'ascensore, il passo di Trevor non conobbe nessuna esitazione, ma lui di certo era abituato a vedere suo padre; io lo avevo visto tre volte in tre giorni dopo averlo evitato per una vita intera, limitandomi a costruire un sofisticato meccanismo di distruzione a distanza a suo danno. Se non bastavano le cazzo di sfere vaginali a trasformare la mia camminata in un'arrancata, di certo lo avrebbe fatto lo sguardo carico di biasimo di quell'uomo.

D'improvviso, le Louboutin divennero trampoli precari e dovetti aggrapparmi al polso di Trevor per improvvisare un'adeguata stabilità. Il mio piccolo grande Baker finse di non accorgersene, ma accorciò la sua falcata in mio favore.

L'inequivocabile intenzione di Trevor era quella di uscire di lì senza imbrattare la nostra giornata scambiando parole con suo padre, ma Sebastian richiamò suo figlio con un tono perentorio che ci impose di fermarci. Forse per ricordare a tutti gli sguardi affamati di gossip in quella hall che lì dentro non c'era nessun erede al trono ma solo due sovrani che si scornavano, Trevor non concesse a Sebastian niente di più: rimase dov'era, con me accanto, costringendo lui ad avvicinarsi a noi.

Mi fece il favore di non degnarmi di uno sguardo, probabilmente ritenendo che la cosa mi avrebbe offesa anziché sollevata.

«Siete voi i responsabili della pagliacciata qua fuori?» sibilò.

Mi scambiai uno sguardo veloce con Trevor: chiaramente nessuno di noi due capiva a cosa si riferisse la vecchia mummia.

«No. Non ho idea di cosa sia successo fuori mentre lavoravo con la mia nuova socia in affari.»

Le pupille acquose di Sebastian si soffermarono meno di un secondo su di me. Tanto mi bastò a sentirmi sporca.

«Mandi a puttane il buon nome della famiglia per una ragazzina?»

«Non abbiamo un buon nome, papà. E se non sbaglio qua si va a puttane da un paio di generazioni, dato che non manchi mai di ricordarmi di chi sono figlio.»

Notai con un certo disgusto che quando Sebastian Baker doveva gestire l'incazzatura senza poterla esternare pubblicamente, gli si allargavano le narici e il suo respiro diventava catarroso.

«Fai in modo che quei buffoni là fuori spariscano. E fai anche in modo che la tua ragazzina si vesta in maniera adeguata, Trevor. Questo non è un night club.»

Vidi Trevor mettere in canna la sua risposta, ma per quanto lo stomaco cercasse di zittirmi avvolgendosi su se stesso, decisi di far sentire la mia voce, nel mio inglese spigoloso, sperando che th suonasse porno anche alle orecchie di quello stronzo senza onore.

«Rivedrò il mio abbigliamento, signor Baker, non si preoccupi. Sappiamo entrambi quanto contino le apparenze quando si ha così tanto da nascondere, dico bene?»

Mi si avvicinò, il viso così tanto vicino al mio da causarmi un'ondata di nausea: mi guardò come se volesse pugnalarmi con gli occhi. Trevor spostò la sua spalla davanti alla mia: un gesto minuscolo, quasi impercettibile ai più, eppure efficace nel ricordarmi che anche se ritenevamo entrambi che potessi cavarmela da sola, lui non mi avrebbe permesso di subire una sconfitta senza intervenire. Sebastian mi colpì comunque con la sua lingua impietosa. «Tu, piccola stronza, vali così poco che qualunque apparenza è sprecata. Persino tenerti nascosta è una perdita tempo.»

E anche se avvertii il corpo di Trevor irrigidirsi all'istante, pronto non solo a incassare al posto mio, ma anche a respingere e a colpire, io ignorai tutto il mio disgusto e annullai la già esigua distanza tra me e Sebastian, avvertendo il fiato infame schiantarsi sulla mia faccia e soffocando un conato che avrebbe decretato il mio fallimento. Riuscii a rispondergli senza vomitare. «Allora è un bene che io non mi nasconda più, signor Baker. Perché a lei di tempo ne è rimasto davvero poco.»

Non avrei retto un'altra risposta, sapevo di aver varcato il mio limite. La fuga era la mia sola via d'uscita. Sgusciai via dal campo visivo di quell'uomo nel più breve tempo possibile, ignorando le Louboutin, il disagio, la vibrazione delle sfere e la vigliaccheria della mia scelta. Non pensai che così facendo costringevo anche Trevor a seguirmi, dato che la sua mano era ancora intrecciata alla mia. Non pensai che con la mia ritirata stavo mettendo in discussione l'equilibrio di forze messe in campo da padre e figlio. Non appena l'aria umida di Londra mi schiaffeggiò la faccia nel piazzale della tower trovai il coraggio di guardarlo negli occhi.

«Scusa. Non ho più retto la pressione.»

Ma Trevor portava avanti con testardaggine la sua convinzione che le mie capitolazioni fossero solo vittorie ben travestite.

«L'hai retta bene, invece. E ricordare a mio padre che qualunque cosa accada a noi, non c'è modo di impedire a lui di morire, prima o poi, è sempre un modo efficacissimo di far sanguinare il suo inutile ego fossilizzato.»

Cercai di dare vita a un sorriso, ma fu un parto molto difficile. Avevo l'impressione che l'unico ego sanguinante fosse il mio. Trevor cercò di restituire la vita al sorriso baciandomi la punta del naso, ma vidi la sua fronte aggrottarsi e lo sguardo perdersi dietro di me, mentre le sue labbra si appoggiavano alla mia pelle.

Chiaramente, non rinunciai alla mia coccola e mi godetti quel pegno d'amore sulla punta del naso, ma poi mi voltai in cerca del qualcosa che aveva catturato la sua attenzione.

Poi la vidi. Ci misi qualche attimo a mettere a fuoco il bandolo della matassa.

«Non posso crederci...» commentai.

«Siamo noi quelli che si limonano sulle magliette in vendita in quel chiosco?»

Il sorriso che poco prima aveva rischiato di morire prima ancora di nascere, si fece largo sulla mia faccia. «Oh, mister Nike, a me quello sembri proprio tu mentre mi ficchi la lingua in bocca sul red carpet. E la scritta glitterata Levor subito sotto la stampa dovrebbe spazzare via ogni ulteriore dubbio.»

«Sei bella anche bidimensionale, bambina.»

«Tuo padre ha detto che dobbiamo farli sloggiare, se non ho interpretato male il suo inglese.»

Mi prese per mano. «Vieni con me.»

Più ci avvicinavamo al piccolo chiosco, più i volti dei due venditori di facevano preoccupate. In effetti era raro che Trevor fosse rassicurante. Ma si impegnò per esserlo, una volta raggiunto il banchetto con le magliette.

«Signor Baker...»

«Sono belle» tagliò corto. «Chiaramente state violando un paio di decine di leggi vendendo la nostra immagine senza permesso in un piazzale privato, ma questo non è un problema.»

«Ah no?»

«No. Ma devo chiedervi di non farlo qui.»

I due ambulanti si scambiarono un'occhiata rassegnata.

«Potete andare al Westfield Statford City. Ho una quota di partecipazione del centro commerciale. Potete spostarvi sul piazzale est, davanti all'entrata principale. Gratis. Ai permessi penso io. Andate tra un paio d'ore, non prima.»

Non attese alcuna risposta, naturalmente. Trevor si girò, portandomi con sé.

Io mi voltai un'ultima volta per fare l'occhiolino ai venditori. Mi risposero con un sorriso.

***

C'erano occasioni in cui era difficile sentirsi all'altezza di un Trevor Baker, persino quando mi concentravo a interpretare BlueDomino.

Mi capitò anche quel pomeriggio, uscendo dal negozio, con la mia sportina che conteneva un abito che fino a un attimo prima mi sembrava perfetto e che all'improvviso mi parve lontanissimo anche solo dall'essere accettabile.

Avevo insistito affinché Trevor mi spettasse fuori: non volevo vedesse l'abito in anticipo. Naturalmente notò la mia bugia travestita da sorriso. Lui notava tutto. Sempre. Se non fosse stato un talento tanto ammirevole, l'avrei detestato.

Mi prese la sportina dalle mani e mi baciò sulla tempia.

«Cosa c'è?»

«Niente.»

«Bugiarda.»

Mi presi il tempo di guardarlo per capire cosa, davvero, non andasse. E mi venne in mente solo quella sensazione che mi era risalita dalla pancia anche settimane prima, quando mi stava portando a casa dopo avermi allenata sul ring la prima volta.

Il tuo aspetto è insopportabile.

Così, gli avevo detto. Ed era la stessa sensazione che mi aveva travolta nell'uscire dalla boutique e vederlo svettare tra la folla del centro commerciale, con le mani in tasca e la giacca aperta, quello sguardo che pareva essere un chiaro invito a stargli alla larga e l'espressione di chi era capitato tra gli esseri umani per un fastidioso errore divino. Trevor sembrava il frutto di una disattenzione, qualcosa di sovrannaturale racchiuso con un involucro di carne che lo conteneva a fatica, rivelando nella postura e nel fascino quel di più che lo distingueva dal resto del mondo.

«Forse ho fatto un acquisto inadeguato.»

Sollevò il sopracciglio, e per una frazione di secondo mi parve di veder comparire un sorriso sulle sue labbra. Ma fu talmente rapido che non potei in alcun modo tenermi stretta la certezza di quella breve esistenza.

«Sorridevi, mentre pagavi un vestito che avrei voluto regalarti io. Cos'è successo nei due metri e mezzo che separano la cassa dall'uscita, bambina? »

C'era stato un tempo in cui pensavo che Trevor mi vedesse sempre, attraverso le sue microcamere. Poi un tempo in cui avevo sperato che invece mi guardasse, attraverso i suoi occhi elettronici. Ma già da prima di partire per Londra, avevo realizzato che Trevor mi studiava, e lo faceva con tutti i mezzi possibili a sua disposizione. Mi capiva molto più di quanto mi capissi io. Con lui non lo avrei mai ammesso.

«È successo che ti ho visto.»

Mi mise un braccio intorno ai fianchi e mi costrinse ad incamminarmi accanto a lui, in una direzione a caso, ma lontano dal negozio.

«Il vestito va bene, Lea.»

«Non l'hai nemmeno visto.»

«Non serve. Se lo indossi tu, va bene. Se te lo sfilo io, è perfetto. Accadranno entrambe le cose quindi non perderemo altro tempo.»

Non mi convinse. Però mi piacque l'idea di farmi sfilare l'abito da lui e mi aggrappai a quella speranza per regalargli un sorriso dietro il quale non avrebbe visto una bugia. «Torniamo al lavoro adesso?»

«No. Adesso pranziamo. Io scelgo il posto e ordino anche per te, Lea. Non ti farai venire mal di pancia oggi pomeriggio, perché ti devo portare in un posto che ti piacerà tanto e ti voglio in forma.»

«Una libreria?»

«No. Ma ti ci porto domani, in libreria, va bene?»

«Va bene. Allora oggi andiamo al cinema?»

«No.»

«Luna park?»

«Neanche.»

«Allevamento di unicorni?»

«Quasi.»

Tentai a lungo di farmi dire che intenzioni avesse, ma Trevor fu inamovibile.

«Ti piacerà», ripeté più e più volte. Ero così distratta dall'indovinare i programmi del resto della giornata, che non persi tempo a fare i capricci per quel pranzo leggero spruzzato da Coca Cola che ordinò senza consultarmi. Ma non potei non notare che controllava il mio piatto, verificando la quantità di olio con cui condivo l'insalata. Un paio di volte mi disse anche di masticare più piano. Gli avrei rovesciato addosso il vassoio, se non avessi scorto un velo di preoccupazione nel suo tono. E per una come me, non era poi così difficile immaginare le origini di comportamenti ossessivi compulsivi, autodistruttivi o morbosi.

«È Sebastian che ti ha addestrato a considerare il cibo come una forma di disciplina?»

Alzò lo sguardo dal piatto, interrompendo la masticazione per un attimo. Sospirò, prima di inghiottire un boccone che dalla sua espressione pareva aver assunto le dimensioni di pallina da tennis dentro la sua bocca.

«Il cibo aveva varie funzioni. Anche quello di strumento di disciplina, sì.»

«Però cucinare ti piace.»

Mi versò un po' di Coca Cola nel bicchiere prima di rispondermi. Quando lo fece, aveva già cambiato espressione.

«In una vita piena di merda, bambina, ho avuto il tuo stesso raggio di sole. Una madre. Cucinavo con lei.»

«Dov'è adesso?»

«In Florida. Sta bene. Non farti venire strane idee. Non ha bisogno di essere salvata dalla tua apocalisse, ho tutto sotto controllo.»

Parlò con un distacco che mi fece rabbrividire. Forse il suo raggio di sole non lo aveva scaldato abbastanza.

«Trevor...»

«Mmmh?»

«Ti ha abbandonato?»

Ecco, Trevor era una creatura che aveva il potere di amplificare tutto, inseguendo la grandiosità sia nel bene che nel male. La ricchezza non era abbastanza: serviva il potere. La disciplina non era niente: serviva il controllo. La vendetta era poca roba: serviva l'apocalisse. La morte, poi, era ridicola: serviva l'eterna sofferenza.

Chiaramente, nemmeno l'amore era sufficiente: serviva la reciproca e inarrestabile completezza.

Per questo, mi dilaniò vedere in lui un sentimento inedito: non un semplice dolore, ma una profonda e inguaribile lacerazione. Era una condizione così famigliare che trovai inaccettabile sopportare il fatto che fosse costretto a sopravviverle.

Vidi tutto questo nel suo volto contratto e nell'ostinazione con cui evitò accuratamente di guardarmi negli occhi: se avessi dovuto indovinare il suo stato d'animo solo dalla risposta che mi diede, avrei colto una crepa laddove in realtà c'era un abisso. «E' scappata da Sebastian. Poteva salvarsi solo così. Lui non avrebbe mai lasciato andare anche me: il divorzio dalla moglie, di cui io e mamma siamo stati causa, era stato già uno scandalo inaccettabile, per lui.»

Fu una fortuna, per sua madre, che a salvarla dalla mia apocalisse ci avesse pensato Trevor.

Io, che avevo una madre che era morta in tutti i modi possibili, figurati e non, pur di salvarmi, non avrei mosso un dito per aiutarne una che per salvare se stessa aveva offerto in sacrificio all'orco il proprio figlio.

«Perché non sei scappato anche tu? Avresti potuto fare le valigie dieci anni fa e andare da lei.»

E che bello fu rivedere quella rassicurante arroganza riprendersi il proprio posto negli occhi si Trevor.

«Perché non volevo perdermi lo spettacolo della sua disfatta, perpetrata per mano mia.» Sorrisi, ma lui proseguì. «Ma adesso qualcosa è cambiato.»

«Cosa?»

«Adesso non voglio perdermi lo spettacolo della sua disfatta, perpetrata per mano nostra, amore mio.»

E se la vita non è altro che un mosaico di milioni di momenti ordinari e una manciata di momenti unici e decisivi, allora quello fu uno di quelli decisivi: quello in cui seppi per certo che io non avrei mai abbandonato quell'uomo. I suoi vuoti erano grandi quanto i miei, ugualmente dolorosi, terribilmente insani. Amavo anche quelli, nonostante avesse cercato di colmarli con un sacco di cose sbagliate e cattive. Eravamo così velenosi, l'uno accanto all'altra, che forse il mondo sarebbe appassito al nostro passaggio, uccidendo anche il buono. Ma a volte, si sa, è meglio ricostruire che aggiustare. E allora, fanculo, avrei lasciato che morisse tutto, e poi avrei guardato il mondo rifiorire tenendo per mano la carogna di Wall Strett.

***

Non mi aveva apertamente chiesto di sfilarle le geisha balls, prima della doccia, ma sapevo che avrebbe voluto. Non le concessi niente, tanto sapevo che ci si stava abituando. A pranzo, seduta davanti a una cesar salad che aveva inaspettatamente gradito senza fare i capricci, si era anche dimenticata di averle ancora dentro.

Quando camminava le avvertiva, lo capivo perché la contrazione dell'addome la costringeva a inarcare la schiena e, da dietro, il culo di norma ipnotico diventava irresistibile per quasi tutti gli sguardi maschili. Ma la stimolazione aveva smesso di essere sofferenza, e quel piccolo esercizio stava aiutando Lea a comprendere meglio il proprio corpo.

Io invece il mio corpo lo comprendevo fin troppo bene, ma c'era una parte di lui che non avevo mai imparato a comandare.

Sì, bravi, proprio quella parte del corpo.

Fu lui, come al solito, a tradire il mio apparente stato di equilibrio emotivo alzando la testa di scatto sotto i pantaloni, vedendola scendere le scale dopo la doccia, con indosso l'abito che lei aveva definito inappropriato e che invece le stava benissimo. Le scarpe le aveva in mano, un blu scuro ma lucido che si sposava bene con il colore del vestito. I capelli, naturalmente, erano ancora umidi: figuriamoci se la bambina mi risparmiava per una volta il suo piccolo atto di ribellione.

Mi studiò con la testolina inclinata di lato, appena arrivata ai piedi delle scale, come se stesse valutando seriamente quanto saremmo risultati perfetti l'uno accanto all'altra.

«Sei da infarto, signor Baker. E il blu del tuo abito è quasi uguale a quello delle mie scarpe.»

Mi avvicinai e le baciai la fronte. «Sei bellissima, come sempre.»

Abbassò lo sguardo per guardarsi. «Forse il grigio non è il mio colore.»

«Non è grigio.»

«No?»

«Fumo di Londra. Si chiama così.»

«Saputello...»

«E tu, mia queen, stai bene con tutto.»

Ma soprattutto, stava bene con il suo stesso sorriso.

Lea aveva optato per un tubino piuttosto corto e decisamente aderente, senza fronzoli, che tanto non ne aveva bisogno. «Porta con te anche un paio di scarpe comode. Poi le lasciamo in macchina.»

Sollevò le decolltè davanti al viso con un broncio molto convinto. «Sono delle Gucci molto comode, mister Nike.»

Gliele sfilai dalle dita, agguantai un bacio dalle sue labbra e mi chinai per infilarle quei trampoli ai piedi. Quando tornai a guardarla in viso, ritrovai il suo broncio convinto. Ma io ero più convinto di lei. «Non sono abbastanza comode, bambina.»

«Dobbiamo arrampicarci?»

«No.»

«Scalare una montagna?»

«No.»

«Olimpiadi?»

«Nemmeno.»

«Scappare dagli zombie?»

«Niente zombie, no.»

«Allora sono abbastanza comode.»

Sospirai, cercando un'altra fetta di pazienza tra le molecole d'ossigeno. «Fidati di me, Lea. Per favore.»

«Ho solo un paio di anfibi.»

«Andranno bene.»

«Faranno a pugni con il vestito.»

«In realtà no. Credimi. Daranno un tocco sbarazzino al look.»

Mi squadrò di nuovo, e quando lo faceva in quel modo sembrava cercare in me qualcosa con cui misurarsi solo per accertarsi di perdere.

«Tu non sei sbarazzino, mister Sterlina.»

«Lea. Io ho addosso un Dior da milleduecento sterline e ai piedi un paio di Nike che ne valgono meno di cento.»

Soffocò una risata. «Va bene. Anfibi in macchina. Non garantisco di indossarli.»

Mi bastò.

In auto, mi scribacchiò un sacco di cose sui finestrini, evitando accuratamente di guardare Londra. Lea non mi aveva chiesto di visitare la città, di vedere Buckingham Palace, di mostrarle il Big Bang, di passeggiare lungo il Tamigi. Lea non guardava Londra nemmeno attraverso i vetri.

Mi era chiaro, fin troppo, il motivo di quella scelta. L'avevo assecondata a sufficienza, le avevo lasciato un pochino di tempo, confinando Lea tra la tower, la mia villa e il centro commerciale.

Era ora di mostrarle altro.

Da fuori, lo sketch non era altro che uno dei tanti edifici bianchi e dal sapore antico di Londra.

Quando fummo davanti al portone, Lea espresse il suo dubbio.

«Forse è un po' troppo presto per cenare, signor Baker.»

«È l'ora del the, signorina Gessi.»

«Ah, giusto. Siete il popolo con quel rito pagano che prevede infusi e biscottini.»

«Questo è un the che ti piacerà un sacco.»

Ci ero stato una volta sola, in quella sala. Lo sketch è più di un ristorante, più di una sala the...più di tutto: un intrico di idee artistiche, personalità, stili. Ma quella sala...beh quella sala sembrava fatta apposta per lei, e lo avevo capito con il tempo, perché quando ci ero stato io, con una donna che non era Lea e che mi ero scopato una volta sola, non mi aveva lasciato niente.

Ma già nel seguire il personale che ci guidava verso lo sketch Glade, scostando la tenda, aprendo una porticina piccola e ben nascosta, seppi di averla portata nel posto giusto.

Appena dentro si fermò, immobile, gli occhi grandi grandi che finalmente si guardavano intorno, riempiendosi di meraviglia, affamati di scoperta, ribollendo di stupore. Sulla bocca molto più di un sorriso, l'espressione di Lea era un bouquet di spumeggiante fervore. Mi lasciò la mano, si coprì la bocca con le dita, quasi dovesse trattenere un urlo di gioia. Si ricordò di me solo dopo aver scandagliato ogni angolo, i molti dettagli, apprezzato i colori, valutato l'atmosfera. Mi guardò con gli occhi lucidi che parevano aver appena visto nascere una stella.

«Mi hai portato in una foresta incantata...»

Sì, la sala Glade restituiva proprio quella sensazione. Dal soffitto pendeva un vero e proprio giardino al contrario, colorato e vivace. Le luci erano soffuse, perché la foresta era fitta, i raggi del sole non potevano svelare tutti i suoi segreti. Le pareti e il mobilio erano integrati nell'ambiente con le loro decorazioni a tema, e i tavolini piccoli e tondi, colorati sulle sfumature dell'ocra e del viola, erano circondati da sedie imbottite in tinta e divanetti soffici ricamati con arabeschi e vegetazione dipinta. Fogliame fitto, rami in fiore, liane: tra ciò che era dipinto sulle pareti e ciò che ornava il mobilio, nulla era lasciato al caso. Era davvero come camminare in una fiaba.

«Sì. Ti piace?»

«È il posto più bello del mondo.» Me lo disse con tanta convinzione, e mi spezzò il cuore perché Lea, il mondo, non lo aveva visto.

«Quello è il nostro tavolo» le dissi, indicando quello che aveva al centro il cappello a cilindro con la carta della regina di cuori che spuntava da un occhiello.

Lea si sedette e si morse il labbro osservandolo, evidentemente desiderosa di afferrarlo.

«Puoi metterlo, è tuo.»

Lo fece subito, raggiante. «Come sto?»

«Sembra fatto apposta per te.»

Si prese un attimo per guardarsi ancora intorno. «Come mai ci siamo solo noi?»

«Secondo te?»

Abbandonò l'attento studio del soffitto a vetri colorati con il giardino pendente per guardare di nuovo me.

«L'hai prenotato tutto?»

«Sì.»

«Sei un miliardario molto arrogante, signor OtuttoOniente.»

«Ho anche dei difetti. Pochi, però.»

«Lo posso tenere il cappello?»

«Certo. Non scherzavo quando dicevo che è tuo.»

«Perché tu non ce l'hai? Sei il mio re di...beh sia di cuori che di denari.»

«Tu non hai bisogno di un re, mia regina.»

«Io ho bisogno di te. Anche se ho fatto di tutto per evitare che accadesse.»

«Tu, mia queen, ancora non sai distinguere tra quello che semplicemente vuoi, e quello di cui hai bisogno.»

«Forse perché ho bisogno di tutto quello che voglio.»

Mi concedetti di sorridere. «Viziata. Allora, bambolina, ordiniamo questo the?»

E sapevo che avrebbe gradito anche i tanti dolcetti in formato mignon, che le consentivano di assaggiare tutto senza riempirsi tropo la pancia. Lea si nutriva anche con gli occhi, e tutte quelle cosine colorate e graziose la mandavano in visibilio.

Non tolse mai il cappello, e non smise mai di sorridere. Sapevo che avrebbe voluto ordinare altri biscottini e che si sarebbe volentieri abbuffata delle piccole meringhe ripiene di panna e fragola, ma la convinsi a tenersi un po' di posto libero nello stomaco per la cena. Però al suo broncio deluso dovetti cedere almeno un po', e le feci una promessa che in realtà rese felice anche me.

«Ti ci porto ancora. Te lo prometto.»

Fosse stato per lei, ci avrebbe pure dormito, lì dentro. Si guardò indietro con un po' di nostalgia anche quando la porticina si chiuse alle nostre spalle, e la tenda tornò a nasconderla alla vista dei comuni mortali. Mi venne voglia di imprigionare la mia bambina in una fiaba, tra fate ed elfi ma senza orchi e mostri.

In testa aveva ancora il cilindro con la carta della regina di cuori. S'intonava al cappottino nero. Ma tanto Lea stava bene con tutto. Persino il suo sguardo un po' afflitto era spettacolare.

«La giornata non è finita, sai? Facciamo ancora cose belle insieme.»

Fuori dall'edificio, nel frattempo, la sera stava iniziando a importunare il giorno. Lea si bloccò in mezzo al marciapiede e mi fece ben intendere che volesse dirmi qualcosa guardandomi in faccia. Ne approfittai per baciarle la punta del naso, che era già freddo.

«Questo era anche meglio, signor Baker.»

«Meglio di cosa?»

«Dell'allevamento di unicorni.»

Se solo ne avessi avuto il tempo, forse avrei smesso di creare app e malware, per cercare di incrociare tra loro tutte le creature dotate di corna o zoccoli per ottenere un dannato unicorno per Lea.

«Adesso andiamo alla macchina così ti cambi le scarpe, ok?»

«Di già?»

«Sì, queste le metti di nuovo quando ti porto a cena.»

«E dove mi porti con gli anfibi?»

«A zonzo.»

Aggrottò la fronte sotto il cilindro che le avevo regalato. «A zonzo? Nel senso in giro senza una meta?»

«Esatto.»

Sapevo che Lea avrebbe dovuto gestire due disagi: quello di camminare con le geisha balls ancora dentro di lei, e quello di attraversare una città sconosciuta. Immaginavo anche che il secondo disagio avrebbe soffocato quasi del tutto il primo. Ebbi ragione.

Con gli anfibi scuri, il cappottino nero, i capelli rossi e il cilindro con la carta di cuori, Lea sembrava un prodigioso personaggio uscito dal Paese delle Meraviglie.

Lungo il Tamigi, erano diversi gli itinerari che si potevano fare a piedi per ammirare qualche scorcio iconico di Londra.

Io non subivo il suo fascino, forse perché ci ero nato e cresciuto, o forse perché ci ero nato e cresciuto in compagnia di Sebastian, ma se guardavo quella città con un occhio distaccato, da turista, potevo scorgerne il potenziale. Lea quel potenziale non lo voleva proprio vedere: camminava con la testolina alta ma gli occhi bassi, silenziosa e assorta. Le permisi di evitare l'inevitabile fino al Westminster Bridge. Arrivati lì, sotto un cielo che non sapeva scegliere se vestirsi di blu o di nero, favoriti da una perfetta prospettiva per ammirare il Big Ben e il palazzo del Parlamento, presi il visino di Lea tra le mani e la obbligai a guardarmi negli occhi.

«Non privarti del mondo, Lea.»

«Avrò un mondo tutto mio. Questo non lo voglio.»

Sarebbe stata anche convincente. Con chiunque altro.

«Londra non ti mancherà. Io la lascio in continuazione, ma torno solo perché devo. Però guardala, Lea.»

Espresse il suo conflitto interiore torturandosi il labbro con i denti. Non seppe né vincere né perdere. «E se poi mi piace?»

«Rinuncerai a Londra per qualcosa di meglio. Pensi che possa piacerti più della tua libertà? Nessuna città è più affascinante di una vendetta impietosa.»

«Puoi raccontarmela tu. Tu hai visto il mondo. Posso guardarlo attraverso di te. Così hai un motivo in più per non morire, per raggiungermi all'interno dei confini del mio nuovo mondo. Saresti proprio stronzo a crepare portandoti via tutte le cose che non ho mai visto.»

Era difficile spiegarle certe cose, convincere un'anima calpestata che conosceva il dolore della perdita che valeva ancora la pena avere qualcosa da apprezzare, anche se potevano portartela via.

«Certo, bambina. Lo farò. Non abbiamo abbastanza tempo, prima della tua apocalisse, per mostrarti tutto. Ma abbiamo ancora il tempo di vedere qualcosa. Ci ero già stato a prendere il the allo sketch Glade, Lea, sai? Ma non lo avevo davvero visto.»

«Perché?»

«Perché le cose sono diverse se le guardo con te. Sono più belle, Lea. Persino Londra, porca puttana, mi dà meno fastidio da quando ci hai messo piede. Ti amo così tanto, bambina, che se anche mi seppelliranno io troverò il modo di uscire dalla tomba per raggiungerti e raccontarti tuto quello che ho visto senza di te. Hai capito? Hai capito bene quello che ti ho detto? Te lo devi ricordare.»

«È un po' inquietante ma ho capito.»

«Bene. Ma adesso mi fai un regalo tu. Guarda le cose con me. Non privarti di quello che possiamo ancora vedere insieme prima di sputtanare il mondo. Io farò in modo che non ti manchino, ok? Farò in modo che siano un ricordo bello e caldo e non una mancanza appuntita e dolorosa.»

Tirò su con il naso e sembrò pensarci un sacco. «È una cosa che mi fa troppa paura.»

Fu come morire. Io lo capivo, coglievo il modo in cui i meccanismi della sua testolina si mettevano in moto. La nostra sopravvivenza, dopo le apocalissi, sarebbe stata legata a confini prestabiliti, confini che Lea aveva scelto ben prima di incontrare me. La sua radicata consapevolezza unita ai traumi delle troppe perdite subite, avevano generato la tendenza a evitare di affezionarsi a qualcosa cui già sapeva di dover rinunciare. Valeva per le persone, valeva per le cose, e valeva anche per il mondo.

Quando salirò su un aereo sarà per non tornare mai più.

Era venuta per me, fermamente convinta di evitare Londra, perché non ci sarebbe mai più tornata, mentre io, se fossi sopravvissuto, avrei potuto raggiungerla nel posto che aveva scelto per ricominciare a vivere. Un compromesso che sicuramente le aveva causato parecchio tormento.

«Ti fa paura, lo capisco. Ma io ti chiedo di fidarti, Lea. Ti prometto un lieto fine ok?»

«Hai detto che i dark romance dovrebbero finire tutti nel sangue.»

«E allora il nostro sarà un cazzo di romance pieno di cieli stellati, poesie, mazzi di fiori, golden boy e alberi di Natale.»

«Non è possibile, perché c'è già stato troppo sangue nella nostra storia, signor Baker.»

«Ok, allora è un dark romance. Uno di quelli scadenti che finiscono bene, ok? Quindi io ti prometto un fine così lieto che tutte le cose belle che avrai visto prima sembreranno la brutta copia delle cose belle che vedrai dopo. Ma sarai contenta di averle viste, e non avrai rimpianti, non ti chiederai mai se il Big Ben ha il fascino antico del tempo che scorre o se sembra semplicemente un enorme fallo che cerca di penetrare il cielo, e non ti chiederai mai se è vero che il Tamigi, dichiarato biologicamente morto anni fa, sta davvero tornando a vivere e non ti chiederai mai se Londra è grigia come la descrivo io o sofisticata come la descrivono tutti gli altri. Fidati di me Lea. Usa quegli occhioni grandi per vedere il mondo, io so che puoi rinunciare a tutto quello che vedrai, e che lo farai con il cuore leggero proprio perché lo avrai visto e apprezzato.»

Sospirò, cercando coraggio tra le mie parole. «È bello il Big Ben?»

«È un parallelepipedo arzigogolato che spunta dal pavimento, e ha un orologio sopra.»

Non sembrava molto convinta: se non avessi preso in mano la situazione in fretta, Lea avrebbe rinunciato a quella fettina di mondo che aveva a disposizione. Quindi la presi per le spalle, la feci voltare, la abbracciai forte da dietro e le parlai piano nell'orecchio.

«Londra è una stronza, affascinante e attempata signora. Non sopporta di invecchiare, e guarda le moderne megalopoli sorgere tra deserti arabi e statunitensi con il suo occhio cinico e lo spirito inacidito. Guardala, Lea. Guardala, perché nonostante questo, Londra sa invecchiare bene: chi altri potrebbe conservarsi così in un clima indecente? Guardala, apprezzala e poi, se vuoi, dimenticala.»

Le lasciai un po' di tempo, mentre le mie labbra assaggiavano il freddo delle sue guance e il tiepido della sua tempia, ostacolate dalla presenza del cilindro che non si era più tolta.

Il buio era sceso in fretta: le luci dell'attempata signora si specchiavano nelle acque del Tamigi. Ma sì, non era poi così malaccio, la stronza inglese.

«Trevor...»

«Mmh?»

«Solo la carogna di Wall Street può definire il Big Ben come un "parallelepipedo arzigogolato che spunta dal pavimento con un orologio sopra".»

«Pensavo mi amassi per questo.»

«Sì, ti amo per questo. Ma adesso ogni volta che penserò a Londra, vedrò l'immagine fallica di una torre che cerca di fottersi il cielo.»

«Ottimo. È esattamente quello che si merita questa città.»

Mi si appoggiò addosso, rilassata. Me la tenni addosso, chiedendomi se quello fosse il momento giusto. In fondo, avevamo appena bullizzato la capitale britannica parlandone malissimo e paragonando uno dei suoi simboli storici a un pene.

Decisi che era comunque il momento giusto. Sciolsi il nodo con cui avevo intrecciato le mie dita davanti al suo torace, e strinsi le sue manine infreddolite con una delle mie, mentre con l'altra prendevo il piccolo e vellutato contenitore che tenevo in tasca da quando eravamo usciti da casa mia.

Le infilai il pacchettino tra le mani. «Auguri, amore mio.»

Si girò, il sorriso più bello che Londra avesse mai visto, un sorriso che Londra le avrebbe invidiato per l'eternità.

«Ma non è il mio compleanno...»

«Quand'è il tuo compleanno?»

«Beh...»

«Quello vero, intendo.»

Si strinse nelle spalle, il mio regalo chiuso tra le mani come un fiore delicato. «Non lo so. Nemmeno tu lo sai.»

«Esatto. Quindi festeggiamo quando ci pare. Anche tutti i giorni, se ci va.»

Quando Lea si commuoveva abbassava lo sguardo. Lo fece anche quella volta, e come era accaduto a me quando mi aveva dato la sua calamita, la sua lacrima bagnò il mio regalo.

«Allora lo apro?»

«Certo.»

Le tremavano un po' le mani, chissà se per il freddo o per l'emozione. O entrambi.

Nel rivederlo, lo trovai azzeccato ancora una volta. Ero soddisfatto. La testolina di Lea scattò di nuovo in alto, per guardarmi e mostrarmi tutta la sua sorpresa.

«Londra mi odierà, dopo questo. È bello bello bello, Trevor.»

Presi l'anello dalla scatolina di velluto blu scuro. Lea aveva le dita sottili, avevo scelto una misura piccola e non avevo sbagliato: il gioiello le si infilò al dito senza difficoltà. Luccicava come avevo sperato: l'oro rosa richiamava bene il colore dello smartwatch, il sofisticato intreccio che avvolgeva il rubino e lo smeraldo facevano un effetto davvero elegante sulla mano di Lea. Sembrava avesse al dito un piccolo mazzo di fiori colorati e preziosi.

«Rosso come i tuoi capelli, verde come i tuoi occhi. È un anello...»

«...unico al mondo. Come tutte le cose che fai per me.»

«Sì. Sei davvero inestimabile, bambolina. Vorrei trovare il modo di farti sentire nel modo giusto.»

«Dovresti smettere di provarci.»

«Perchè?»

«Perchè potrei iniziare a crederti.»

Le presi il contenitore dalle mani e me lo infilai in tasca. Le leccai le labbra finchè si convinse a dischiuderle per me. Sentii il sapore delle meringhe alla fragola sulla sua lingua. Dentro la bocca di Lea trovavo sempre la voglia di vivere. Sotto lo sguardo offeso di Londra, assaggiai tutti i sapori di Lea, in un bacio lento e pacifico, tenero come le sue labbra.

«E adesso, Lea, ti porto a festeggiare il tuo compleanno al ristorante.»

«Quello con le stelle Michelin.»

«Sì. Indovina dov'è.»

«Sotto il parallelepipedo arzigogolato?»

«No. Sopra la foresta incantata.»

Tornammo indietro, mano nella mano. Lea si cambiò le scarpe, si tenne il cilindro.

La portai di nuovo allo sketch, nella sala Gallery.

Ordinai per lei, che non aveva voglia di interpretare il menù inglese, sostenendo che non avrebbe capito nemmeno se fosse stato in italiano. Scelsi un vino non esageratamente pesante, perché Lea non reggeva bene l'alcol. Infine, feci mettere una candelina sul dessert, unica portata che ordinò di sua iniziativa. Lo prese al pistacchio. Spense la candelina esprimendo un desiderio.

«Se non si avvera, mi toccherà raggiungerti all'inferno» mi disse.

Le raccontai che quella sala, color mandarino, era stata rosa per un decennio buono. Le mostrai la foto sul cellulare, e mi fece ridere sostenendo che le poltroncine, di quel colore rosa cipria, sembravano tante chiappe una di fianco all'altra.

«Meglio adesso, color mandarino» concluse.

Fuori dallo sketch passeggiammo un po', non troppo, perché Lea doveva gestire un tacco dodici e le geisha balls. Lo faceva con disinvoltura, ma immaginavo non fosse poi così banale. Ma mi soddisfò vedere che gli occhi di Lea si guardavano intorno, prendendo confidenza con Londra.

Si sfilò le scarpe appena fummo in macchina.

«A casa puoi liberarti delle sfere, bambina. Sei stata brava.»

Assunse un'espressione birichina. Risposi con un'erezione involontaria. Il mio cazzo era più stronzo di Londra.

***

A casa ebbi giusto il tempo di sfilarmi la giacca, prima di ritrovare Lea addormentata sul divano. Aveva ancora le scarpe e il cappotto addosso.

Si lamentò un po', quando la spostai per sfilarle di dosso qualcosa, ma mi lasciò fare tutto, docile. Appoggiai il cilindro sul tavolino da the. La lasciai sdraiata sul divano e la coprii, perché sapevo che era freddolosa.

Valutai quanto fosse giusto lasciarla con le geisha balls ancora inserite, ma alla fine decisi che le probabilità che Lea dormisse un'intera notte di fila erano pressoché nulle.

Mi sistemai in cucina con il portatile e il cellulare inritracciabile, dove potevo lavorare e tenerla d'occhio contemporaneamente.

Per una mezzora mi dedicai al calcolo della variabile dinamica di El Diablo, dato che era ormai ora di spedire una nuova rata di debito ai Volkov. Fu facile: il meccanismo mi era più che famigliare. Buttai un occhio anche alle borse orientali, ancora aperte, ma la consapevolezza che qualunque cosa fosse accaduta ai mercati in quei giorni sarebbe risultata del tutto ininfluente per il futuro mi tolse qualsiasi interesse. Infine presi in mano il cellulare, con lo scopo di contattare Andrey e farmi aggiornare sull'andamento del piano. Non feci in tempo a iniziare a digitare che ricevetti un messaggio da lui. Nel leggerlo avvertii la tensione pietrificarmi la spina dorsale.

Sapevo che sarebbe potuto succedere quello di cui mi stava avvertendo, ma mi ero aspettato un maggior preavviso, così da prendere precauzioni per Lea. Presi decine di decisioni in una manciata di secondi, e le scartai tutte nel giro di un'altra manciata di secondi.

C'era una sola cosa da fare, ovvero quella che avrei fatto se avessi ricevuto quello stesso messaggio senza Lea a dormire sul mio divano: niente.

Il piano, in fondo, prevedeva proprio quello.

Risposi brevemente, senza sapere quando Andrey avrebbe potuto leggere il mio messaggio.

Tornare a lavorare, a quel punto, con quella consapevolezza fastidiosa, era impossibile.

Ero certo di avere tutti i sensi allertati, tesi, scattanti, pronti a cogliere qualunque cambiamento proprio perché sollecitati dall'avvertimento di Andrey, e invece le mie percezioni erano distorte dalla tensione. Me ne accorsi quando vidi Lea sull'uscio della cucina: non l'avevo sentita alzarsi e avvicinarsi. Se la mia bambina avesse avuto un apparecchio collegato al mio battito cardiaco, l'avrebbe sentito vibrare come una sveglia con le convulsioni.

Cazzo.

«Lavori a quest'ora?» mi chiese, la voce assonnata, ma lo sguardo vigile. Probabilmente a mentire non erano gli occhi.

«Sì. Mi capita spesso quando non ho il tuo corpo per le mani.»

«Posso venire lì con te?»

«Non c'è bisogno di chiederlo. Puoi venire sempre da me.»

Mi si accoccolò addosso, il volto illuminato dal bagliore del monitor. «Fai cose super segrete, mister Sterlina?»

«No miss, solo roba super noiosa.»

«Quindi puoi interrompere...»

Mi posò le labbra sul collo, passando lingua sulla lunghezza della vena che le piaceva tanto e che tradiva spesso la misura della mia eccitazione o del mio nervosismo. Dopo l'uccello, quella vena era probabilmente la parte più sincera di me.

Per la prima volta da quando avevo posato gli occhi addosso a Lea, dovetti sforzarmi per mantenere la concentrazione su di lei. Mi ero illuso di essere semplicemente teso, dopo il messaggio di Andrey, ma la verità è che ero preoccupato, perché con me c'era la mia cosina preferita, e avrei voluto saperla ben lontana da lì.

Se ne accorse, probabilmente, perché sollevò il viso e mi guardò in modo strano, cercando risposte a domande cui non aveva dato voce, ma il cellulare che usavo con Andrey emise un segnale e ci distrasse entrambi. L'unico modo per nascondere a Lea quello che stava accadendo, era dirle almeno una verità.

«È Andrey.»

E sebbene quel piccolo prodigio per metà albanese e per l'altra metà frutto di un segreto non potesse vantare grandi titoli di studio, il suo cervello aveva tutto quello che serviva a comprendere qualunque dinamica. Mi osservò leggere il messaggio senza farmi domande, preoccupata quasi quanto lo ero stato io fino a un momento prima.

Quello che lessi sciolse la coltre di ghiaccio che mi aveva attanagliato i polmoni. Il sollievo, probabilmente, fu ben evidente nella mia espressione. Si rilassò un po' anche Lea.

«Dimmi solo se sta bene.»

La guardai sperando di trasmetterle un po' di conforto. «Sta bene.»

Attese un istante che aggiungessi qualcosa. Non lo feci, non potevo.

«E tu? Stai bene?»

Le accarezzai una guancia, e lei, come sempre, inclinò il viso per aderire meglio alla mia mano.

«Sì, sto bene, bambina. Che ne dici se andiamo a letto, adesso?»

Ero certo avrebbe protestato, riesumando le mie esplicite promesse del pomeriggio, esigendo il suo sesso da urlo. Fui davvero stupido a sottovalutarla in quel modo, sebbene solo per qualche istante.

«Va bene» acconsentì.

In camera da letto la guardai cambiarsi in silenzio, dilaniato dalla voglia di portarla via di lì all'istante, stritolato dalla consapevolezza che non era possibile. Prima di distendersi, in piedi accanto al letto dentro al suo pigiama a batuffoli, mi ricordò che ero un coglione, ma lo fece con delicatezza.

«Cosa devo fare con le sfere?»

Mi sentii una merda, nel constatare che avevo completamente perso la lucidità. Presi l'appunto mentale di non mettere mai più in piedi una dannata apocalisse che prevedesse una porzione di piano nella quale Andrey agiva mentre a me era assolutamente vietato fare qualcosa.

«Scusa bambina, adesso te le tolgo, vieni in bagno.»

«Posso fare da sola, non è un problema.»

«Non esiste. Vieni.»

La feci sedere sul ripiano del lavandino, e fui io a cercare conforto nei baci che le seminai sulla sulla punta del naso e sulle labbra alla fragola, mentre il calore della sua vagina mi abbracciava le dita. Mi sospirò nella bocca, mentre finalmente la liberavo dalle geisha balls.

Sarebbe stato giusto, sarebbe stato doveroso, anzi, a quel punto, fare l'amore con lei. Avrei dovuto distenderla sul letto, passarle la lingua tra le gambe, darle piacere prima con lunghe coccole orali, e poi baciarla a fondo con la stessa lingua che l'aveva leccata tra le cosce mentre le entravo dentro con l'uccello, però piano, in un atto soffice e grato. Avrei dovuto prendermi il suo corpo regalandole il mio, dondolarmi dentro di lei con il languore di una barca a vela in una giornata senza vento, bisbigliandole il mio amore, no, la mia devozione, anzi nemmeno, la mia venerazione nell'orecchio. Ecco, quello, avrei dovuto fare, perché quello doveva essere l'ultimo atto di quella giornata.

Invece mi ritrovai con i due piccoli globi di metallo in mano e lo spirito disperso chissà dove, incapace di arrendermi alla sua vulnerabilità e alla mia inutilità in quella notte traditrice, che mi faceva un dispetto più crudele del previsto.

Fu quindi Lea a prendermi il viso tra le sue mani piccole, costringendo il mio sguardo a confessare il proprio disagio al suo.

«Ehi, ragazzo, mi devo preoccupare?»

Sì, bambina, dobbiamo preoccuparci, perché probabilmente moriremo prima di vedere un'altra estate.

Mi aggrappai alla mia voglia di vivere almeno fino al giorno in cui l'avrei vista definitivamente felice.

Le baciai un palmo, portandolo alla bocca. «Domani andrà meglio» le confidai.

Abbandonai le geisha balls nel lavandino, aiutai Lea a scendere dal ripiano, la baciai di nuovo perché non riuscivo a smettere di averne bisogno e infine mi decisi a sdraiarmi nel letto con lei.

La sentii avvolgermi, e dal modo in cui lo fece capii che non cercava il mio affetto, ma mi trasmetteva il suo.

Attesi che prendesse sonno, contando i secondi, invocando l'alba, pregando Dio che l'ultimo messaggio di Andrey fosse affidabile.

Mi chiesi quando sarebbero arrivati, o se fossero già lì.

Me lo chiesi finché il tormento divenne insostenibile.

Mi alzai dal letto quando mi sentii certo che Lea stesse dormendo. Fu una cosa davvero molto stupida.

***


Arrivano, esplorano l'esterno.

Resta in casa.

Quello, era stato il primo messaggio di Andrey. Al quale io avevo risposto con una domanda.

E Viktor?


Il messaggio successivo era quello che mi aveva dato sollievo.

Non dire cagate. Ti pare che si muova per una stronzata del genere?

Poi più nulla, ovviamente.

Eliminai la conversazione, non per nasconderla al mondo: il mio cellulare era inaccessibile. Per nasconderla a Lea.

Misi sul fornello a induzione un the che probabilmente non avrei bevuto, ma come aveva detto giustamente la mia regina, noi inglesi abbiamo un the per ogni occasione.

Cercavo di tenermi lontano dalle vetrate, pur sapendo che nessuno, da fuori, avrebbe comunque potuto vedermi. Ma io potevo vedere loro, potenzialmente. Non sapevo come mi sarei sentito se fosse accaduto.

Quando la teiera emise il segnale, mi resi conto di averne preparato almeno due tazze.

Forse, in compagnia di Lea, la notte sarebbe stata più breve.

Ma la ragazza avrebbe capito che ero tormentato, e con lei volevo condividere tanto di me, ma non quella sensazione lì.

Mentre il the si raffreddava decisi di occupare il tempo guardando la mia miss dormire. Non potevo essere certo che non avrebbe avuto una crisi.

E nell'attimo in cui entrai in camera da letto trovandola vuota, con il pigiama a batuffoli abbandonato tra le lenzuola, mi resi conto che quella stronzetta aveva capito tutto, e che non si era affatto addormentata.

Scesi di cosa le scale e contro le dannate vetrate quasi mi ci lanciai, gli occhi che scrutavano l'oscurità in cerca del suo bagliore di capelli rossi, una creaturina piccola che si muoveva con eleganza in cerca di qualcosa che nemmeno sapeva cos'era.

Non la trovai, non vidi nulla muoversi tra i vialetti e le dannate aiuole, e lo stomaco si contorse come se volesse rimpicciolirsi fino a smettere di esistere.

L'avevano trovata?

Me l'avevano portata via?

Non potevano ucciderla, ma potevano farle di peggio.

Come diavolo aveva fatto a uscire senza che me ne accorgessi?

Ricordai di un'altra occasione, in cui mi aveva colto di sorpresa, arrivandomi alle spalle.

Cazzo, Lea, sei arrivata camminando su batuffoli di cotone?

Quello le avevo chiesto, quella notte, quella in cui mi fece confessare la mia cazzata con la RedAnt. Non ci avevo più pensato, avevo solo creduto di essere stanco, dopo la pestata di Viktor, e di aver abbassato la guardia. Ancora una volta, non avevo dato il giusto peso alle capacità di Lea.

Lea, l'acrobata.

Lea, che pianificava la sua fuga dal mondo da più di un decennio.

La mia regina, sottovalutata da tutti. Forse anche da me.

M'infilai una felpa e uscii di casa senza un piano, senza un'arma, senza un'idea. Uscii di casa con la sola e inscalfibile intenzione di ritrovarla subito e riportarla dentro, dove l'avrei legata al letto e no, non per fare del sesso estremo, dannazione.

Avrei voluto attraversare il parco di corsa gridando il suo nome, il cuore che mi pompava nel petto come se volesse aprirmi uno squarcio tra le ossa e la carne, e invece mi dovevo muovere cercando di essere invisibile, imprigionato in un corpo che tutto era, tranne che invisibile.

E il mondo pareva immobile, muto, privo di vita. Dov'era Lea?

E loro? Dov'erano loro? Erano arrivati? Erano già andati via?

Strisciando da un cespuglio all'altro, sentendomi la creatura più rumorosa e fastidiosa dell'universo, individuai il più probabile dei nascondigli: il ponticello in pietra che attraversava il ruscello artificiale del parco. Lì sotto potevo trovare Lea. O potevo trovare loro.

Mi nascosi dietro un piccolo salice, sbirciando in ogni direzione in cerca di un segno di vita. Sapevo di non essere un buon esecutore negli appostamenti, ma non credevo di essere l'equivalente di un rinoceronte in una cristalleria.

Evidentemente sbagliavo. Una manina fredda e agile mi tappò la bocca da dietro, e la voce della mia dea dei capricci mi soffiò il suo scherno nelle orecchie.

«Sshh! Sono io. Sei silenzioso come una banda di paese durante la fiera!»

Mi girai e la vidi, vestita di nero, i capelli raccolti e nascosti sotto un cappuccio,

Me la strinsi addosso sperando di poterla racchiudere dentro di me per sempre.

«Che cazzo fai Lea? Vuoi vedermi crepare d'infarto?»

Alzò la testolina, il mento sul mio petto.

«C'è qualcuno. E tu lo sai, vero?»

«Non c'è nessuno, Lea. Le mie proprietà sono inviolabili.»

La guardai, cercando di parlarle con gli occhi. Era buio, ma la sua espressione mi diceva tutto. Sperai valesse lo stesso per lei.

Mi fissò qualche secondo, poi, quando ritenne di aver unito i pochi indizi a sua disposizione e averli incollati l'uno all'altro con la fiducia che provava per me, mi baciò sulla bocca.

«Torniamo dentro, Lea, ok?»

Ma non tornammo dentro. Un fruscìo lontano, ma inconfondibile, ci allertò entrambi. Lea mi tappò la bocca, individuando molto prima di me la direzione da cui stavano arrivando.

«Siamo esposti, ci vedranno.»

Le indicai il ponticello. «Lì sotto ci stiamo.»

Accettò con un cenno, mentre bisbiglii inconfondibili viaggiavano nell'aria della notte. Lea era sorprendente: si muoveva svelta come un roditore, così aderente al suolo da diventarne quasi un tutt'uno. Silenziosa come uno spettro, invisibile, impalpabile.

Lea, l'acrobata, ben più di una ballerina da night club: era un'ombra fluida.

Dietro di lei, mi sentivo come una batteria di pentole che crolla giù da un davanzale.

Raggiungemmo il ponticello, e maledissi la mia stazza da lottatore di wrestling: racchiusi Lea tra le mie gambe e le mie braccia.

Mi sembrava troppo rumoroso persino il mio respiro, mentre Lea riusciva a essere così muta e discreta che era come abbracciare il nulla. O un angelo.

Attendemmo, io con il cuore che mi martellava fin nelle orecchie, l'umidità della notte che era quasi pioggia accanto al ruscello. Le mani di Lea erano congelate: me le avviciai alla bocca per scaldargliele, alitando come faceva sempre lei sui vetri.

Immobili in uno spazio ristretto, accovacciati come conigli nella tana, le voci degli altri ci raggiunsero aggiungendo nuovo gelo al freddo dell'aria umida.

«Siamo sicuri che non ci stia guardando da una delle sue dannate telecamere?»

«Finché sei vivo, non ti vede. Credimi.»

Fui certo che anche Lea fosse in grado di riconoscere la seconda voce, per quanto ancora distante, ma se la cosa la soprese, riuscì a soffocare la reazione nel corpo immobile. Iniziai a preoccuparmi quando i passi degli uomini mi parvero arrivare da direzioni diverse. Uno dei due era troppo vicino al nostro ponte. Se lo avesse attraversato per poi girarsi, ci avrebbe visti.

«Dove vai? La roba non la tiene certo nella zona passeggio. Cresce sul retro.»

Ecco, la direzione di cui veniva la voce famigliare era a favore, naturalmente. Ma quella da cui venne la risposta, fece scattare tutti i miei allarmi interni.

«Viktor ha detto di ispezionare l'area.»

«E da quando fai tutti i compiti?»

«Da quando sono nel giardino di uno stronzo miliardario e posso pisciare sotto i suoi alberi e dentro i suoi ruscelli del cazzo.»

Il cervello cercò di connettere in fretta e calcolare le probabilità che lo stronzo attraversasse il ponte e si girasse indietro. Per quel che ne sapevo poteva anche attraversarlo e pisciarci dentro davvero. In quel caso, ci avrebbero visti.

E se ci avessero visti, cosa sarebbe accaduto?

Non sarebbe stato un grosso problema, in condizioni normali. Ma cazzo, quei due dovevano portare a termine la loro missione. Perché dalla loro, dipendeva la mia. Il mio piano, cristo. Se fosse tornato vivo solo uno di loro due, l'intera apocalisse ne sarebbe uscita gravemente compromessa.

E probabilmente avrei dovuto seppellire un altro dei miei uomini. Non uno qualunque.

Presi un respiro. C'era una sola cosa da fare, e a Lea non sarebbe piaciuta.

«Adesso ti devi fidare, amore mio, ok?» bisbigliai.

«Che intenzioni hai?»

Non le risposi. Attivai i sensori dei lampioni dallo smartwatch.

«Trevor...»

Le tremava la voce, aveva capito. Sentimmo i passi dell'uomo strisciare sulle pietre del ponticello.

Non c'era tempo, non più.

«Prendi fiato, Lea.»

Spalancò gli occhi così tanto che li vidi bene nonostante il buio. Scosse la testa con vigore, il terrore che le strappava via la capacità di pensare. Ingabbiai il mio cuore, impedendogli di guardarla e riconoscerla, consentendogli solo di vederla, spogliandola di tutto quello che sapevo di lei, di tutto quello che provavo per lei.

«Respira!» mi raccomandai un'ultima volta, un sussurro che voleva essere un ruggito ma che non poteva. Poi le tappai la bocca con la mia mano, la immobilizzai quasi del tutto con un braccio solo, e la trascinai in acqua. Il suo panico mi fu d'aiuto, o forse fu la morsa impietosa dell'acqua gelida, fatto sta che Lea non scalciò, divenne rigida come una statua, la sentii artigliarmi i polsi, mentre scendevo più a fondo possibile.

La temperatura del ruscello era prossima allo zero, l'immersione fu dolorosa, mi parve di sentire tutti gli organi interni scoppiare sotto la pelle. E Lea smise di collaborare non appena fummo completamente sotto il pelo dell'acqua.

Scalciò con una forza che non immaginavo nemmeno potesse avere, una volontà sovrumana di liberarsi dalla mia stretta, il bisogno di uscire di lì, di fuggire da quell'elemento che aveva provato a rubarle la vita già altre volte, con le mani di altri a costringerla sotto l'acqua.

Il suo supplizio mi devastava, la sua disperazione si esprimeva nella convinzione con cui il suo corpo lottava contro il gelo per liberarsi di me. Stava combattendo contro tutto, era completamente avvolta dai suoi peggiori ricordi, si dimenava e io per salvarla potevo solo farle male, stringerla di più, perché Lea non poteva risalire.

Mi assicurai di non spostarmi dalla zona ombreggiata dal ponte nella lotta contro il panico di Lea, e un bagliore di luce, finalmente , mi rivelò che sulla riva opposta c'era qualcuno. E se sapevo con certezza che c'era, potevo anche capire quando se ne sarebbe andato: non sapevo quanto ossigeno aveva immagazzinato Lea, né quanto ne stava sprecando cercando di liberarsi.

I sensori di movimento che avevo attivato allarmarono la figura deformata dall'acqua. Lo vidi guardarsi intorno stupito, per poi allontanarsi in fretta.

Contai fino a trenta, disattivai i sensori dallo smartwatch e tornai in superficie, stringendo il corpo quasi arreso della mia bambina.

La trascinai a riva, praticamente priva di sensi, sperando che si fossero allontanati dalla riva o, meglio ancora, si fossero decisi ad andare a prelevare quello che serviva loro sul dannato retro della villa.

Lea respirava a un ritmo completamente sbagliato, il petto le si alzava troppo in fretta e troppo poco. Potevo sentire distintamente che stava battendo i denti. Mi sdraiai su di lei, ma ero nelle sue stesse critiche condizioni, fradicio e glaciale.

«Lea, adesso ti porto dentro, mi dispiace bambina, mi dispiace...»

Eravamo entrambi così freddi che non avvertivo nemmeno il contatto tra la mia pelle e la sua, la toccavo senza sentirla. Provò a dirmi qualcosa, ma tremava con tanta violenza che non capii niente.

La sollevai di peso, guardandomi intorno, disperatamente bisognoso di non vedere nulla che si muovesse, nulla che fosse vivo. La sua voce incerta e tormentata dal battito di denti richiamò la mia intenzione.

«...Ci troveranno in casa...»

Mi presi la libertà e la responsabilità di perdere un attimo prezioso ad abbracciarla. «No, non entreranno. Fidati. Ma non devono sapere che li abbiamo visti. Non devono trovarci fuori.»

Sentivo il gelo della notte frustarmi il corpo, mi tremava anche lo stomaco, tenevo stretta Lea senza capire se la pressione era troppa, se le stavo causando dei danni, gli arti insensibili.

Non ero certo di essere in grado di camminare, ancor meno di poterlo fare con la mia bambina tra le braccia, ma come le avevo detto io quella mattina, non avevo scelta, dovevo.

E lo feci.

Coprii la distanza che mi separava dalla porta incespicando come un alcolizzato la notte di Capodanno, controllando continuamente che Lea non mi fosse scivolata via, incapace di sentire il suo corpo tanto quanto non sentivo più il mio.

Alla porta ci arrivai senza davvero curarmi del fatto che ci potessero vedere, nessuna apocalisse avrebbe avuto senso se Lea mi fosse morta congelata tra le braccia.

Il calore dell'appartamento ci soffiò addosso come un vento di tramontana, sentii la mia cosina preferita sospirare, appagata dal cambio di temperatura.

Mi abbandonai per terra, grato di averla ancora con me, ma alla luce di casa mia la vidi e mi pietrificai di nuovo, come se il gelo fosse tornato a stringermi da dentro. Lea non era pallida, era bianca, come se tutto il sangue le fosse evaporato via dal corpo, come se dentro di lei non scorresse più niente. Aveva le labbra blu, tremavano ancora.

Mi aggrappai a quel poco di lucidità che il calore dell'ambiente mi aveva restituito e inziai a sfilarle i vestiti che impedivano al suo corpo di recuperare una temperatura decente.

Abbandonai tutto sul pavimento, mentre i miei, di vestiti, mi appiccicavano addosso il loro freddo glaciale. Non me ne curai.

Presi Lea in braccio, nuda e bianca e ghiacciata e la portai di sopra, l'adagiai direttamente sul piatto del box doccia e iniziai a far scorrere l'acqua calda su di lei.

«Adesso passa, Lea, adesso passa. Te lo prometto.»

Si strinse le ginocchia al petto, le labbra che ancora tremavano con tanta violenza da impedirle di parlare. Le spostai i capelli dal viso, e mi guardò con i suoi pozzi verdi pieni di domande.

Il bagno si riempì di vapore, e un po' di colore tornò sulle gote della mia regina. La sua bocca riacquistò un colorito più vicino alla vita che alla morte. Infine, smise di tremare.

Avevo osservato la transizione del suo stato, cogliendo ogni cambiamento, ogni miracoloso miglioramento. Mi rilassai quando tornò a rivolgermi al parola.

«Sto bene. Spogliati, brutto idiota. A cosa serve salvarmi se muori tu?»

Mi spogliò lei, perché nello scarico, insieme all'acqua, sparirono le mie ultime forze. Mi accasciai accanto a lei, che pazientemente mi sfilò tutti gli abiti. Ma a scaldarmi più di tutto fu Lea, che mi prese tra le sue braccia sottili, frizionando le sue manine piccole sulla mia schiena troppo grande, passandomi le dita gentili tra i capelli, sussurrandomi frasi che non comprendevo alle orecchie.

Mi abbandonai a Lea, semplicemente grato di non averla persa.

Non so per quanto restammo lì. So che a un certo punto riaprii gli occhi, e tornai a sentire il contatto delle sue mani sul mio viso, mentre mi guardava preoccupata dall'alto. Avevo la testa sulle sue gambe, e non saprei dire se ero svenuto come un coglione o se mi ero addormentato come un povero scemo.

«Bentornato, mister Nike.»

Mi misi a sedere, con l'aiuto di Lea. Non ebbi bisogno del suo aiuto per racchiudere con le mani il suo viso e baciarla con tutta l'angoscia che mi aveva travolto quella sera, per prendermi un po' della vita che le scorreva ancora nelle vene e metterla da parte, dove poteva confortarmi nei momenti peggiori che sarebbero arrivati da lì a non troppo tempo.

E poi le baciai il nasino, e le guance, e le tempie, e la fronte, e poi ricominciai.

Forse l'avrei sommersa con il mio terrore di perderla, se non mi avesse messo le mani sui polsi per fermare quella tempesta di straziante affetto.

«Io sto bene, rilassati.»

Ma non volevo rilassarmi, quindi rinunciai ai baci ma solo per stringermela di nuovo addosso, e sentirla ancora, la mia pelle che rispondeva alla sua.

«Mi dispiace, bambina. Mi dispiace.»

«Smetti di ripeterlo.» Alzò la testolina e mi guardò tutta seria negli occhi. «Sono cose che succedono quando si sceglie di frequentare gente poco raccomandabile come te.»

E la sua serietà s'infranse in un sorriso straordinario.

«E avevi ragione, signor NessunoEntraInCasaMiaSeNonSonoIoAVolerlo. Nessuno è entrato in casa . Immagino che questa cosa abbia una spiegazione ma che rientri nella categoria "meglio che tu non lo sappia".»

Sospirai, facendo ordine tra i pensieri che, evidentemente, non si erano ancora scongelati del tutto. Quindi decisi che prima di dar loro voce, era meglio spegnere l'acqua. Mi alzai, e aiutai Lea a fare lo stesso. Non insistette per avere una risposta.

L'avvolsi in un accappatoio che, non servirebbe nemmeno dirlo, su di lei aveva le dimensioni di una valanga di neve. Mi concessi un accappatoio anche io, che di solito mi limitavo a un asciugamano, ma il freddo mi aveva lasciato qualche residuo addosso, anche se non sapevo dove. Forse nell'anima.

La feci sedere su uno sgabello, e lei si dimostrò stranamente arrendevole, evidentemente molto più provata dagli eventi di quanto volesse dare a vedere. Io ne stavo uscendo praticamente distrutto. E non era stato il freddo a farmi male, no. Era stata la scelta di metterla in condizioni di affrontare un altro dannato trauma, costringerla di nuovo a lottare con l'acqua, a sopravviverle brandendo come unica arma la sofferenza. Mi sedetti dietro di lei, tamponandole i capelli con un asciugamano.

Non fece domande, ma io le fornii qualche risposta lo stesso, mentre il prendermi cura di lei alleviava le mie ferite.

«Bambina mia, nessuno entra nella mia proprietà senza che io lo sappia.»

«Scusa.»

«Avrei dovuto dirtelo, ho sbagliato.»

«Ho rovinato qualche piano?»

«No, non hai rovinato niente.»

«Ma ci sono andata vicino.»

Affondai il naso tra i suoi capelli bagnati. Profumavano di buono anche senza shampoo.

«Non è colpa tua se non fanno più i criminali silenziosi e discreti di una volta.»

Rise un po', e anche quel frammento di buon umore mi scaldò. Si zittì qualche secondo, mentre continuavo a tamponarle inutilmente i capelli.

«Trevor?»

«Mmh?»

«Mi avevi vista dalle vetrate?»

«No. Eri invisibile.»

«È indispensabile che tu mi dica la verità.»

«Non ti vedevo, Lea. Non ti vedevo e non ti sentivo ed è stato quello a mandarmi definitivamente in pappa il cervello. Ho avuto paura ti avessero presa di nuovo.»

Si girò, mi circondò il viso con le mani. «Quindi non mi hai sentita uscire da casa tua?»

«No dannazione. Mi sono proprio rincoglionito.»

«E nemmeno in giardino.»

«Nemmeno in giardino. Non so se sei meglio come cecchino o come ninja, amore mio.»

Mi sorrise. «Spero come ninja, mio signore dagli oscuri segreti.»

Mi presi un po' di gioia di vivere dalle sue labbra. Lei ne recuperò una parte con la lingua. Poi le feci una domanda scomoda di cui non avrei gradito la risposta.

«Perché mi sei scappata via?»

Almeno, fu onesta. «Perché volevo accertarmi di esserne capace.»

Le slacciai l'accappatoio, ammirai il mio miracolo in carne, ossa e capacità insospettabili.

«Asciugati i capelli, bambina.»

«E me lo dici dopo che mi hai guardata nuda?»

«Sì. Domani avrai la febbre, evitiamo il torcicollo. Ti prendo il phon dalla valigia.»

Mi fermò con la voce poco prima che uscissi dal bagno.

«Ho riconosciuto la voce, in giardino. La tua apocalisse è molto pericolosa, Trevor.»

Non mi voltai, non le risposi. Tornai con il phon e la trovai nuda e ammiccante ad aspettarmi.

Scoprii con oggettivo sollievo che non mi si era congelato anche l'uccello. Fu un sollievo anche per Lea, che lo vide spuntare dalla spugna dell'accappatoio, e gli dedicò un altro sorriso.

«Aspettami sveglio, signor Baker. Faccio presto.»

In realtà ero ben più esausto del mio uccello, ma la baciai sulla tempia senza spegnere le sue speranze.

In camera guardai il cellulare, dove non mi stupii di trovare un messaggio di Andrey.

Ti avevo detto di stare in casa!

Ecco, avevo proprio voglia di giustificarmi dopo essere quasi morto e aver quasi ucciso Lea.

Lea ha sentito gente in giardino. Sono uscito per riportarla dentro.

Inaspettatamente, vidi che Andrey iniziò a digitare la sua risposta praticamente subito.

Insomma ti è scappata. Il grillo che mette nel sacco il gorilla. Lea non l'ho né vista né sentita. Tu sembravi un orso in una gabbia di conigli. Comunque è andata bene, ma c'è mancato poco.

Ci avevo contato, ma averne conferma mi tranquillizzò.

Bene. Ottimo lavoro.

Feci per rimettere giù l'apparecchio, ma ci ripensai. Aggiunsi altre due parole all'ultimo invio.

Grazie, stronzo.

***

Lea tornò con i capelli asciutti, senza niente addosso. E siccome nemmeno io ero vestito, non c'erano dubbi sul come sarebbe finita.

Il mio sentirmi sfinito, prosciugato e afflitto non influenzava minimamente la condizione del mio cazzo. Né influenzava Lea, figuriamoci.

Mi si sdraiò addosso, la sua pelle finalmente calda che provocava la mia, la sua bocca nuovamente rossa e bollente che mi stuzzicava il petto.

E seppi che stava accadendo qualcosa che era già accaduto.

Lea aveva preso quella stessa decisione dopo l'abuso di Viktor, aveva sovrascritto il suo trauma imponendo su di me la sua volontà di scopare sotto la doccia, guidando l'atto, restando sopra.

Ed era di nuovo così, che fingeva di farsi stare meglio: copriva le ferite con strati su strati di piacere, in cerca di sollievo nell'unione tra corpi, orgasmi compensativi per cattiverie subite, per ricordi talmente dolorosi da divenire quasi mortali.

Non potevo, o forse non volevo, sradicarle dal cuore quella tendenza alla consolazione, ma non potevo nemmeno permetterle di perpetrarla senza una maggior consapevolezza o, quantomeno, una diversa partecipazione.

Lea era una dipendenza irresistibile, e non avevo modo di negarmi al suo corpicino che mi esigeva, che mi implorava affinché le dessi un po' di attenzione. E io potevo darle tutto quello che mi chiedeva ma, soprattutto, potevo darle un po' di quello di cui aveva bisogno.

E mentre lei si prendeva da me tutto quello che voleva, guidando la penetrazione con una mano, io la invitavo a scendere su di me, ad aderire al mio petto con il suo torace stretto, per poterle offrire quella parte del sesso che lei sembrava non osare chiedere mai: la tenerezza.

La lasciai guidare nella ricerca del suo piacere, partecipando con la mia bocca sulla sua, e le mie mani che non volevano altro che aderire al suo volto caldo, stranamente arrossato, con le dita che di tanto in tanto esploravano i sentieri nascosti tra i suoi capelli morbidi.

La sentii rallentare, abbandonare l'inseguimento dell'amplesso a tutti i costi per lasciarsi coccolare, scoprire che era bello godere anche di quello, abbandonarsi a qualcuno che non voleva nulla in cambio di quello che le offriva, che il sesso poteva essere anche un regalo, non necessariamente uno scambio o, cristo di dio, un affare.

Mi ci abbandonai anche io, a quel ritmo sereno, languido. Il mio uccello, grato di essere accolto dentro il corpo di Lea, ebbe la compiacenza di non lamentarsi più di tanto.

La baciai con calma, a lungo, mentre lei mi si muoveva sopra, sempre elegante, leggera come seta. Quando le nostre bocche si diedero una tregua ritrovai uno sguardo lucido e stanco, ma un sorriso grato e appagato.

«Dentro di te io mi ci perdo, miss.»

Il sorriso si allargò e me ne regalò una scheggia baciandomi nell'angolo delle labbra, dove aveva depositati così tanti frammenti da poterne costruire uno nuovo.

«Io invece dentro di te mi ritrovo» mi sussurrò, la bocca che ancora sfiorava la mia.

Poi le spostai il volto per baciarle la punta del naso, e quello fu il momento in cui compresi che le sue guance rosate e lo sguardo lucido non erano affatto indizi di un buono stato di salute. Lea era più che calda: anche da nuda, era bollente.

«Hai la febbre, bambina.»

Mi accarezzò come fanno le mamme con i bambini quando dicono una cosa scontata dimenticandone una ovvia. «Anche tu.»

Ed ecco che tutta quella stanchezza, quel torpore insostenibile che non mi abbandonava nemmeno dopo la doccia prese un senso.

Cercai di ricordare l'ultima volta che ero stato malato. Non mi venne in mente. Ma se era vero che avevo la febbre, allora il sentire bollente Lea non era un buon segno.

L'abbracciai e la rovesciai sotto di me, prendendo il controllo della situazione pur sapendo che forse non era quello che voleva lei. Ma Lea si rivelò cedevole, e io proseguii la mia pacifica conquista del suo corpo al posto suo. Mi parve quasi grata, mentre mi guardava serena, accarezzandomi tra i capelli. Era la mia alba, Lea era come un eterno nuovo inizio, un cassetto pieno di infinte possibilità a disposizione.

Le venni dentro con naturalezza, ovvia conclusione di un atto d'amore che forse non avrebbe cancellato i brutti ricordi, ma che magari gliene avrebbe regalato uno felice.

Mi sdraiai su di lei mentre ancora le pulsavo dentro, e lei mi accolse con un abbraccio che aveva la forza di un cataclisma. Forse aveva ragione la mia bambina: il suo aspetto era un tradimento, un inganno per gli occhi che coinvolgeva i cervelli. Una cosina così piccola, graziosa, non poteva essere contemporaneamente un cecchino infallibile, un ninja superlativo e un hacker con i controcoglioni.

E invece.

Quanto doveva esserle costato nascondere tutto quel ben di dio dietro il bancone del Sweety e la busta paga della Credit. Un'intera esistenza costruita sulle apparenze, lasciando che il mondo la sottovalutasse, così abituata ad essere considerata solo sulla base di quello che aveva scelto di mostrare, da ritrovarsi vittima della sua stessa maschera.

Le piantai così tanti baci sulla fronte e sulle tempie che alla fine scoppiò a ridere, nonostante la febbre, nonostante l'avessi quasi uccisa, nonostante la nostra vita fosse un intreccio di menzogne e tradimenti. Volevo solo che fosse felice, ma mi resi conto che tanto non mi sarebbe bastato nemmeno quello, perché non avrei mai potuto cancellare quello che le era successo prima di me. Era una sconfitta che non sapevo gestire, tantomeno accettare.

La liberai dal peso del mio corpo e dall'occupazione del mio uccello. Venne subito ad accomodare la testolina sul mio petto. La circondai con le braccia.

«Devi prendere qualcosa che ti abbassi la febbre.»

Miagolò qualcosa che non compresi, e le concedetti di addormentarsi, contando sulla possibilità che la sua temperatura tornasse ad abbassarsi da sola, con un po' di riposo.

Le infilai il pigiama dopo quasi un'ora, senza alcuna collaborazione da parte sua, che mi offrì in aiuto solo i suoi sospiri e i suoi lamenti.

La coprii, sentendola ancora troppo calda, e dato che mi sentivo di merda anche io, scesi di sotto a prendere una dose di paracetamolo. Lo buttai giù a stomaco vuoto e mi infilai la confezione in tasca per portarla in camera e somministrarne un po' anche a Lea.

Vidi il mio riflesso sulla vetrata della villa. Per la prima volta nella mia vita da adulto, mi sentii piccolo in un mondo sconfinato. Avevo messo piede in tutti i continenti, e comunque non era abbastanza da poter dire di aver visto tutto. Se avessi misurato la mia conoscenza del pianeta con lo stesso metro di giudizio di Lea, ovvero in base a numero di calamite che avrei potuto comprare in ogni posto visitato, non mi sarebbe bastato un frigorifero a doppia anta per contenerle tutte.

Chiaramente l'unica calamita che per me aveva importanza aveva da poco preso il suo posto nella mia cucina. Nel mio riflesso mi vidi insignificante, ma con una donna divina nel letto. Eppure quello che aveva visto una fetta decente di pianeta ero io.

Forse fu la febbre a convincermi a fare quella telefonata, a fare qualcosa di totalmente ordinario in un'esistenza decisamente sopra le righe.

Fu così che per la seconda volta nel giro di pochi giorni, mi decisi a chiedere la collaborazione di qualcuno cui non avrei voluto chiedere nemmeno un accendino per le sigarette.

Sospirando, presi il cellulare con cui avevo dialogato con Lea nei primi giorni, quelli in cui la minacciavo desiderando di scoparla.

Avviai la chiamata e al secondo squillo ero già pentito, ma il pezzo di merda rispose prima che io interrompessi la chiamata.

«Baker, le è successo qualcosa?»

«No, sta dormendo nel mio letto.»

«Allora vaffanculo.»

«Denis!» ringhiai, prima che si azzardasse a interrompere la chiamata. «Mi serve una cosa. Per Lea.»

Calò un silenzio che mi parve più spesso delle vetrate infrangibili in cui ancora mi guardavo riflesso. Mi parve durare giorni, probabilmente furono meno di una manciata di secondi.

«Sei un miliardario del cazzo. Puoi procurarti tutto quello che vuoi, con i soldi o con le minacce.»

«Vero. Potrei procurarmelo anche senza soldi e senza minacce, in perfetta autonomia. Ma non ho abbastanza tempo.»

«E cosa ti fa credere che io ne abbia più di te?»

Mi venne voglia di un bicchiere di Macallan, ma non mi pareva una grande idea dopo il paracetamolo. Optai per l'accendermi una sigaretta, che tanto di qualcosa bisognava pur morire.

«Infatti non hai più tempo di me. Ma sei in grado di fare quello che mi serve più in fretta di quanto sia in grado di farlo io.»

«Che è un modo per dire che sono più bravo.»

Mi venne di nuovo voglia di Macallan, e di nuovo mi accontentai di una boccata alla sigaretta. «Non mi sentirai mai dire niente del genere.»

«Non ce n'è bisogno. Dimmi cosa ti serve, perché ti serve, per quando ti serve e, se mi convincerai, potrei aiutarti. Per Lea. Ovviamente ogni frase dovrà finire con un "per favore".»

Gli spiegai cosa, quando e perché mi serviva. Aggiunsi per favore.

«E quindi sei riuscito a mettere d'accordo i tuoi due neuroni e a scoprire qualcosa di sensato su di me.»

«I miei due neuroni vorrebbero prenderti a pugni già da un pezzo. Rispondi e basta, Denis. Avremo parecchio di cui discutere quando avrò l'occasione di metterti le mani addosso. Puoi fare quello che ti ho chiesto sì o no?»

«È un gioco da ragazzi, Baker. Posso farlo. Per Lea. Ma non sono per niente sicuro che sia una cosa che le farà bene.»

«Le farà un gran bene, invece. Se non lo fai tu troverò il modo di farlo da solo.»

I silenzi di Denis mi innervosivano quanto la pubblicità durante i film. Erano troppi e troppo lunghi, dannazione.

«Va bene. Ma manca un "grazie".»

Sospirai. «Grazie, Denis.» Ma aggiunsi altro. «Appena torniamo in Italia vengo a prenderti a calci in culo per esserti portato a letto Lea. Non potrai sederti per un mese, dovrai cagare in piedi. Non mi dispiacerebbe vederti anche morto ma la mia ragazza avrebbe qualcosa da ridire quindi credo che mi limiterò a farti molto male.»

«Che minacce fiacche, Baker. Ti stai rammollendo.»

«Direi che per stasera possiamo concludere qui, mandandoci a fanculo a vicenda.»

«Ti ci ho mandato già all'inizio della telefonata ma non è un problema rimandarti a fanculo di nuovo. Fottiti, Baker.»

«In questo mi dà una mano Lea.»

Interruppi la chiamata prima che potesse rispondere.

Tornai di sopra, trovando Lea che si lamentava nel sonno.

L'effetto del paracetamolo mi stava restituendo un po' di forze e, anche se con fatica, riuscii a farlo assumere anche a Lea.

Mi illusi che potesse bastare così: una pastiglia, un bicchiere d'acqua e una notte di riposo. Fui tradito da tutto, e da lì a un paio d'ore Lea mi sequestrò, mi portò nel suo mondo di incubi popolato da mostri, mi fece conoscere il dolore della perdita, mi trascinò lungo un sentiero lastricato di abusi, violenze, umiliazioni. Lea mi condusse nel baratro di orrore che fu la sua adolescenza.

SPAZIO AUTRICE

Mie queens, il capitolo è tanto lungo e succedono parecchie cose. Sarebbe stato saggio dividerlo in due parti ma io sono poco saggia e quindi eccolo qua.

Ci avviciniamo alla fine, forse lo si intuisce un po' dalla ricomparsa di quel vecchio scarpone di Denis, dalle robe strane che si dicono Trev e Andrey e dai tempi dilatati che intercorrono tra un capitolo e l'altro.

Ci sarà molto poco spazio per lo spicy, ve lo dico già. Però abbiamo ancora tanti traumi, siete contente? Ahh no? Disgraziate.

Beh dai, posso dirvi già che il prossimo capitolo inizia subito con un #mainagioia, e lo si intuisce facile da come termina questo, di capitolo.

Comunque dai, tra un trauma e l'altro qualche volta li farò anche un po' scopare che altrimenti non mi seguite più ahhahaha!

Vi amo troppo, lo sapete?

Se vi va di sostenermi i mezzi sono sempre gli stessi: una stellina, un commento, i social oppure una donazione da 50 milioni di euro.

Per chi sui social non mi segue e non bazzica, provo a lasciarvi da cell un po' di illustrazioni che ho fatto con l'ai e le foto dello sketch.

Grazie di esserci!

dopo questo pubblico una piccola anteprima della nuova storia, NON è UN CAPITOLO. RIPETO NON UN'ESERCITAZ...EHM..VOLEVO DIRE UN CAPITOLO...NON è UN CAPITOLO.

Non siete obbligate a passare da lì e non è indispensabile per la trama di Priceless. E' solo un modo subdolo per non perdervi con Priceless e tenervi con me anche con la prossima storia. Sono una brutta persona, scusate.

Lo sketch Glade
Immagini rimosse

Il Gallery versione rosa:

Gallery mandarino:

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