PRICELESS

By JennaG2408

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"Le cattive abitudini generano pessime dipendenze" 🌘Dark romance 🔞Forbidden love 💰Crime romance 📚 SCELTA... More

Avviso
C'era una volta una dedica
PARTE I
Prologo Lea
Prologo Trevor
1. FACCIA DA STRONZA
2. Finché qualcuno non ti compra
3. Fallo stabilire a me
4. Così poco di lei, così tanto di suo padre
5. Se l'orgasmo fosse un suono
6. Mi aspettavo di meglio
7. La sua degna erede
8. Un errore da 15 dollari
8.1 L'autrice si è dimenticata un pezzo di capitolo.
9. Tienila d'occhio
10. Non è Trevor
11. Non vali così tanto
12. L'anomalia emotiva
13. Il valore dell'innocenza
14. Quasi tutto quello che mi interessa avere.
15 Stasera quello rosso
16 Il mese prossimo potremmo essere morti entrambi
17 Non puoi urlare
18 La Dea più capricciosa dell'Olimpo
19. Aspettami senza far danni (parte1)
20 (parte2)Sei tu, la mia sola cosa importante.
21 (parte 3) Seppelliscimi con le scarpe giuste
22 (ULTIMA parte) Voglio sapere se posso urlare.
23 Who needs a boyfriend when you have puppies?
24 Sei uno stronzo fortunato, Trevor Baker
25 Ogni regina ha il suo scettro
26 Non puoi toccarla
PARTE II
27 Stanco, ma non di lei
28 La prossima volta ti farà male
29 Un nome per il sesso e uno per l'amore
30 Dolce figlia di un figlio di puttana
31 Ah, Auguri.
32 Quello che sta intorno al cuore
33 L'inferno non va bene per Sebastian Baker.
34 Non sempre un uomo di successo è un uomo di valore
35 Fragola, cioccolato e una goccia di veleno: mortale tentazione
36 Non fare di lei la tua Harley Quinn
37 Due affamati nello stesso letto
38 Niente di male a sanguinare un po'
39 E comunque questo è un Valentino, stronza.
40 Cattive intenzioni e voglie pericolose
41 La mia bambina non si tocca
42 Scorre sangue immondo
43 La sua pelle e la mia fame (parte 1)
44 Groviglio di carne e abbandono (parte 2 )
45 La migliore cosa sbagliata della mia vita (parte 3)
46 Il sesso come strumento di guarigione
47 Facciamo finta di no
48 Tutti i per sempre portano il nostro nome
PARTE III
49 Quello che sono disposto a fare per te
50 Scelgo il profano e il blasfemo
51 Il sapore di una truce Apocalisse
52 Non abbastanza. Punto
53 Eppure Lea è viva
54 Effetto domino
55 Cinquanta sfumature di BlueDomino
56 Londra è la mia puttana
57 Questo non può essere peggio
58 Gli affetti veri muoiono, quelli falsi uccidono
59 Innalzare le mie depravate pulsioni
60 Non c'è differenza tra una danza e una guerra
61 Benvenuti a tutti quelli come noi
62 Dimmi cosa ti ha fatto
63 Fammi male
64 Io mi salvo da sola
65 Mister SeLaTocchiTiUccido
67 Il grillo che mette nel sacco il gorilla
68 Pietà e rispetto
69 Non ti darei mai meno di tutto
70 Incassare, elaborare, espellere (parte 1)
71 Stavolta puoi urlare (parte 2)
72 Non lasciarmi solo
73 Ci sarò sempre
74 Stai attenta, bambina
75 Più incazzato che lucido
76 Scolpiranno il mio nome sulla tua carne
77 Domani è già arrivato
78 Sembra un addio, signor Baker
79 Esisti per me
80 A fanculo un'ultima volta
81 Non morire senza di me
82 Soffrire ancora un po'
83 Mentre fuori il mondo cade a pezzi
84 Quella vita non è mai la tua
85 Ma tu non ci sei (parte 1)
86 Scopami nel modo sbagliato
87 UNLOCKED
PARTE IV
88 Morirò da re
89 Sono il vostro dio
90 Uno stronzo senza cuore
91 Tre baci sulla punta del naso
92 Un sollievo breve e inaspettato
93 Ciò che mi è dovuto
94 Ci sarò io, con te
95 Roba così
96 Nessuno di noi avrà conti in sospeso

66 La differenza tra stimolare e godere

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By JennaG2408

Lea non era la prima donna che ospitavo nella villa di mia proprietà, ma era la prima che restava tutta la notte.

Non sembrava intenzionata a dormire: dopo la doccia avevamo guardato un sacco di scemenze in tv, ma aveva opposto resistenza all'andare a letto anche quando era evidente che le palpebre le pesavano come macigni. Sapevamo entrambi di cosa aveva paura, ma a un certo punto dovetti proprio prendere in mano la situazione.

«Adesso andiamo a letto, punto e basta.»

Spensi la tv e la costrinsi ad alzarsi dal divano.

«Trevor...»

«Non succederà niente, ma se succederà non sarà un problema, Lea.»

«Posso dormire sul divano.»

«Neanche per sogno.»

Aveva il visino triste, in quel buio consolato solo dalla grigia luce delle stelle di Londra che attraversavano le mie vetrate con fatica.

Sbuffò, guardando le scale che portavano di sopra come un bambino che guarda l'ago di una siringa.

Le voltai il faccino prendendole il mento.

«Ascoltami, Adesso andiamo di sopra, sotto le coperte, al caldo, con il tuo pigiama nuovo coperto di batuffoli. Io ti stringerò così forte che mi chiederai di fare più piano, e ti sentirai così al sicuro, amore mio, che persino i sogni belli avranno paura di avvicinarsi. Figuriamoci se oserà farsi vivo qualche incubo.»

Mi si rifugiò addosso, Avrei voluto strapparle via ogni dubbio, ma la verità era che non potevo davvero essere certo di aver eliminato il suo problema notturno insieme a Danyl. Niente, però, poteva impedirmi di fingere di esserlo, per farla star meglio.

«E se sporco di nuovo il letto?»

«Ho un sacco di lenzuola pulite dentro agli armadi.»

«E se lo sporco più volte?»

«Lo cambieremo tutte le volte. Ma non ce ne sarà bisogno, Lea. Stai tranquilla.»

«Ma può succedere.»

«Può. Ma non succederà. Adesso andiamo di sopra.»

Andò in bagno prima di arrendersi all'idea che se avesse continuato così l'avrei portata a letto con la forza, e non per scoparla.

Mantenni la mia promessa, e la strinsi ben più forte del dovuto, ma volevo che si portasse la mia presenza nel mondo dei sogni.

Io non lo so quando trovai il modo di addormentarmi, ma durò poco. La sentii agitarsi, e tutti i miei sensi scattarono sull'attenti quasi con immediatezza. Non me ne fregava un cazzo di cambiare le lenzuola, ma non me la sarei fatta sfuggire di nuovo: se la crisi fosse arrivata devastante come la notte precedente, l'avrei legata piuttosto che lasciarle farsi di nuovo del male.

Ma mi resi conto che, ancora una volta, stava succedendo qualcosa di diverso. Lea non si stava agitando, si stava contorcendo.

Quando la guardai, trovandola sveglia, capii al volo e dovetti mordermi le guance per trattenere una risatina che di certo non le sarebbe stata d'aiuto.

Ma la piccoletta stava pagando i suoi stravizi, e io, modestamente, l'avevo pure avvertita.

«Lea, hai mal di pancia, vero?»

Mi mise il broncio. Per un attimo pensai che avrebbe negato l'evidenza. «Un pochino.»

«Posso dire che te l'avevo detto?»

«No che non puoi.»

Sorrisi, la feci appoggiare supina e mi alzai.

«Va beh, alla fine era destino che questa notte la si passasse sul divano.»

Mi chinai per prenderla in braccio ma chiaramente Lea pensò fosse l'ora perfetta per un capriccio.

«Posso camminare, è solo un mal di pancia mister TeLavevoDettoGneGneGne.»

La presi in braccio lo stesso, trovando oggettivamente carino il mio nuovo soprannome. «Mi prendo cura di te, bambina, e lo faccio nel modo che io ritengo più opportuno.»

E anche se non l'avrebbe ammesso mai, il modo in cui mi avvolse le braccia intorno al collo non lasciava spazio a dubbi: Lea aveva un dannato bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lei, una volta tanto.

Era così piccola e maneggevole che non fu un problema scendere le scale e adagiarla di nuovo sul divano. Si raggomitolò subito stringendosi la pancia. Mi allontanai di mezzo passo prima che mi imponesse di fermarmi con la sua vocina flebile e assonnata.

«Dove vai?»

Mi chinai, per farle sentire che ero ancora lì vicino. «In cucina. L'abbiamo presa per usarla, quella borsa dell'acqua calda a forma di koala, dico bene? E intanto ti preparo un the.»

«Voi inglesi avete un the per ogni evenienza?»

«Certo che sì.»

Tornai con tutto l'occorrente. Appoggiai il vassoio sul tavolino. Si accomodò con la schiena sul mio petto, una coperta inutilmente pesante sulle gambe, un koala sulla pancia e il the tra le mani.

«Allora, domani consumeremo dei pasti normali, signorina.»

«I pasti normali sono molto noiosi, signor DecidoTuttoIoPerchèSonoGrandeEGrosso.»

La volontà di Lea di trascurare quello che era meglio per lei in favore di quello che le piaceva di più era evidente anche nelle piccole cose. Mi fece male, constatare che non stavo riuscendo a guarirla abbastanza in fretta. Mi fece ancora più male pensare che forse non avrei fatto in tempo a guarirla prima di separarmi da lei di nuovo.

«Vorrà dire che domani ci prenderemo il lusso di annoiarci, mia queen.»

«Non garantisco di collaborare a questa scelta così ordinaria e fuori moda.»

«Tu collaborerai, stronzetta. Sai che posso toglierti vizi ben più gratificanti, se non fai la brava.»

Appoggiò il the sul tavolino, lo aveva bevuto quasi tutto. Tornò a raggomitolarsi tra le mie braccia, stringendo il suo koala caldo. «Volevo assaggiare i fish and chips.»

«E invece no.»

«Uffa. E allora che si mangia? Petto di pollo e riso in bianco?»

«A pranzo forse sì, bambolina.»

«E a cena?»

«A cena ti porto fuori.»

Alzò a testolina. «Fuori in che senso?»

«Secondo te? Credi che voglia apparecchiare su un marciapiede?»

«Mi porti in un ristorante?»

«Ovviamente.»

«Un ristorante con i camerieri eleganti?»

«Uno con le stelle Michelin.»

Si raddrizzò di colpo. «Davvero?»

«Davvero.»

«Come una coppia vera?»

«Noi siamo la coppia più vera dell'universo.»

«Più vera di Capitan America e l'agente Carter?»

«Molto di più, anche se in quanto a sfighe da affrontare siamo lì.»

E la notte, all'improvviso, ebbe una voce: quella della sua risata divertita. Aveva smesso di contorcersi, non teneva più le gambe strette e piegate verso il petto. Stava già meglio, ma il koala non lo mollava assolutamente. Iniziava a rilassarsi, e sperai che si addormentasse presto, anche se la notte era più colorata in sua compagnia.

«Non credo di avere un vestito abbastanza bello per domani sera, signor Baker.»

«Mi sembra un problema di facile soluzione. Ma se vuoi, puoi indossare la tua felpa di Snoopy. Non importa.»

«Tu sarai bellissimo e tutte le cameriere si pesteranno i piedi per versarti il vino nel bicchiere.»

«E tu sarai magnifica e tutti gli ospiti litigheranno con le partner perchè ti spoglieranno con gli occhi.»

Regalò a Londra un'altra piccola risata. Avrei voluto imbottigliarle tutte. Mi sarebbero mancate terribilmente, in futuro.

«Torniamo in quel posto con tanti negozi dopo il lavoro? Così prendo un vestito nuovo.»

«Sì, andiamo dove vuoi e prendiamo quello che vuoi, purché non sia cibo.»

Trovammo una posizione comoda per entrambi, e quando fu mattina eravamo ancora lì. Lea non aveva avuto gli incubi, e mi sentivo riposato anche io. Avevo scordato di far oscurare le vetrate, e l'alba mi diede il buongiorno. Lea si svegliò parecchi minuti dopo, e io mi godetti entrambi gli spettacoli: l'inizio di un nuovo giorno, e una Dea che dormiva tra le mie braccia. Con un koala sulla pancia.

***

A volte mi spiazzava la facilità con cui la mia cosina preferita modificava il suo aspetto e le sue movenze in base alle situazioni. Sapeva cambiare anche il tono di voce.

Il modo in cui sfilò di nuovo nella hall della Baker Tower, il giorno dopo, non aveva nulla a che vedere con la creaturina con il mal di pancia che aveva tenuto stretto stretto un koala caldo per tutta la notte. Il suo sguardo duro, non c'entrava nulla con gli occhioni grandi e lucidi con cui aveva accolto la notizia del mio invito a cena, e la sue labbra magnifiche ma contratte in una smorfia arrogante, senza alcun dubbio, non potevano essere le stesse che mi avevano messo il broncio nel dirmi che avevo ragione e aveva mangiato troppe schifezze.

Eppure io lo sapevo che era sempre Lea, quella piccola grande guerriera che mi camminava di fianco con addosso una gonna dal taglio semplice ma che non lasciava nulla all'immaginazione e una giacca raffinata che metteva in risalto i suoi fianchi strettissimi. La sua falcata era sicura nonostante avesse ai piedi delle Louboutin dal tacco vertiginoso.

Qualunque emozione stesse provando nel tornare nel posto in cui sapeva di poter incontrare di nuovo Sebastian e Viktor, la teneva molto ben nascosta.

Aveva raccolto i capelli in uno chignon morbido, segno che, evidentemente, non mi ero impadronito di tutti i suoi fermagli.

Quando le porte dell'ascensore si chiusero, le dissi esattamente quello che pensavo di lei in quel momento.

«Sei bella da far paura.»

Si girò giusto il tempo di dedicarmi un frammento di sorriso, unico indizio che sotto quello spettacolo di rigida professionalità c'era ancora la mia splendida bambina che aveva paura degli incubi.

«Anche tu non sei malaccio, signor Baker.»

«Quella gonna è troppo corta, signorina Gessi. Alla Baker preferiamo delle mise meno appariscenti.»

Le porte si aprirono, e Lea seppe subito quale direzione prendere per raggiungere il mio ufficio. Fece di tutto per nasconderlo, ma notai la sue spalle rilassarsi nel constatare che nessun figlio di puttana ci stava aspettando al suo interno.

«La gonna non è troppo corta, mister Sterlina, è il tuo sguardo che è troppo lungo.»

«Non solo il mio a giudicare dalla quantità di teste che si sono girate nella tua direzione giù nella hall.»

Sorrise, sciogliendo un po' della sua corazza. «Magari guardavano te.»

«Di solito è così. Non oggi.»

Mi baciò sulla bocca e durò tutto troppo poco. «A che ora è la riunione con i legali?»

Guardai l'orologio da quarantacinquemila sterline che avevo al polso. Non era lo stesso Bulgari con cui mi aveva visto Lea la prima volta. Quello valeva tre volte tanto e non lo avevo più indossato.

«Dieci minuti. Ci saranno anche un paio di partner commerciali e due teste di cazzo olandesi.»

«Chi sono gli olandesi?»

«Due esponenti del Parlamento: ho aziende con partecipazione statale. Devono solo far finta di contare qualcosa sollevando questioni inutili che liquideremo in fretta.»

Annuì con la testa, ma sembrava un po' tesa.

«Non essere preoccupata. Sono solo formalità. Alla fine faccio il cazzo che mi pare, in buona sostanza. Ma se posso farlo legalmente, è meglio. Altrimenti aggiro il sistema come sempre.»

«Non sono preoccupata.»

«Cosa sei?»

«Niente.»

«È per il tuo inglese?»

«Forse.»

Era senza ombra di dubbio un sì.

«Non è così male come credi tu.»

«È solo un modo elegante di dire che fa schifo.»

La presi per un polso e la feci avvicinare fino ad averla quasi addosso. «A me piace il tuo inglese. Mi piace il modo in cui pronunci certi suoni. Il th è molto porno, quando esce dalla tua bocca.»

Mi passò la lingua sulle labbra e mi stupii di non sentire il tonfo del mio stomaco che crollava sul pavimento.

«Anche la parola porno è molto porno, quando esce dalla tua, di bocca.»

Ricominciai a respirare, con l'ego un po' rinfrancato. «Connettiamoci, bambolina, così la facciamo finita in fretta. E...Lea...»

Si accomodò su una delle due poltrone di pelle scura e mi guardò dal basso in quel modo che mi faceva fluire tutto il sangue nell'arnese che tenevo prigioniero nei boxer. «Cosa?»

«Fai la brava, per favore.»

Mi fece un sorriso più dolce dei suoi marshmallow. «È un incontro intercontinentale con esponenti politici e professionisti. Sarò molto più che brava, signor Baker.»

Capii al volo che mentiva.

***


I mezzi di Trevor erano all'avanguardia, la connessione ottimale e la nitidezza delle immagini spettacolare. Anche il suono arrivava bene, e l'inglese degli interlocutori era quasi sempre comprensibile, a parte quello degli olandesi, che sembrava virare spesso al tedesco.

Le presentazioni e i saluti erano andati piuttosto bene, ma Trevor, che parlava come se fosse un giudice supremo davanti a una manciata di bulletti da condannare, mise subito le cose in chiaro.

«Siete pregati di parlare british, niente forme dialettali: la signorina Gessi non è madrelingua.»

Dall'altra parte dello schermo, uno dei legali si schiarì la voce. «Signor Baker, la signorina Gessi padroneggia poco la lingua inglese e anche tutto il resto, me lo lasci dire.»

Trevor non si scompose, ma vidi la sua grossa vena sul collo iniziare a pulsare violentemente. Trovai la cosa alquanto eccitante.

«Esponga i suoi dubbi.»

«Non ha un curriculum all'altezza del ruolo che le viene proposto. Non ha un titolo di studio, corsi fuori sede, esperienze internazionali, particolari capacità documentate... insomma non ha niente di quello che serve per essere assunta dalle società di sua proprietà, tantomeno nei ruoli di dirigenza da lei ventilati.»

Fino a quel momento avevo trovato irresistibile il modo in cui il mio criminale preferito si sfilava la giacca per arrotolarsi le maniche della camicia sopra al gomito. Quella fu l'occasione in cui scoprii quanto mi faceva girare la testa anche vederlo imporre la sua autorità professionale sopra quella di tutti gli altri. Sospirò ostentando un fastidio sicuramente eccessivo, appoggiando i gomiti sulla scrivania, le mani intrecciate davanti al viso. Mi sarei strappata le mutande, se solo non avessimo avuto dei vecchi e rugosi legali a testimoniare i miei atti impuri.

«Innanzitutto io i ruoli di dirigenza non li ho ventilati, ma imposti. In secondo luogo, non serve documentare le capacità di un cervello indiscutibilmente al di sopra della media.»

Più di uno dei partecipanti a quella noiosissima riunione fece qualche smorfia malcelata a quell'arringa. Presi parola, nonostante il mio inglese "non poi così male come credevo io".

«Ho una buona esperienza nella finanza, sebbene io abbia una spiccata propensione per quella non tradizionale. D'altra parte, sono poche le cose che amo fare in modo tradizionale, signori

Quasi tutti, nei monitor, cercarono di contenere il proprio sdegno, limitandosi a piccole smorfie che comunque colsi con una certa soddisfazione. Un paio si grattarono la tempia gettando lo sguardo di lato, dove senza dubbio qualche terza persona ascoltava lo scambio ed era libero di esprimere il proprio disappunto lontano dall'occhio della cam. Solo il vecchio rinsecchito che aveva sciorinato la mia mancanza di un curriculum non fece mistero dello scandalo causato dal doppio senso decisamente voluto della mia frase.

«Signorina Gessi, è pregata di rivolgersi a questo consiglio con lo stesso rispetto che si aspetta di ricevere da noi.»

Figurati, io non mi aspettavo di ricevere proprio niente, tanto meno il loro rispetto. Proseguii, divertita ma composta, lo sguardo fisso sul monitor, e la mano che scivolava tre le cosce di Trevor.

«Vi sto solo invitando a considerare i miei altri poco documentati ma oggettivi talenti...»

Sentii il mio Baker inspirare nervosamente, mentre gli accarezzavo un'innegabile protuberanza che gli cresceva sotto i pantaloni. Le mani, granitiche fino a quel momento, divennero ancor più rigide nel loro intreccio. La carogna di Wall Street era nelle mie mani. In tutti i sensi.

«E quali sarebbero questi talenti?»

«Oh io me la cavo bene con i lavori di mano...»

Anche Trevor si schiarii la voce, le nocche sbiancate nella loro reciproca morsa, mentre sentivo la sua durezza sporgere sempre di più, sotto la mia mano che strofinava i pantaloni senza pietà.

«Signorina Gessi!»

«Scusate signori, ma come ha detto lei poco fa, padroneggio poco la lingua inglese. Forse alcune mie frasi sono soggette a interpretazioni. Intendevo dire che so creare algoritmi multilivello, software per il calcolo dei rendimenti finanziari e sistemi di sicurezza digitale.»

«Niente di tutto ciò è documentato.»

«Lea ha violato quasi tutti i livelli di sicurezza della Baker Tower. E questo posso documentarlo io.»

Mi sorprese il tono fermo e virile che usò Trevor per intervenire, considerando la situazione ormai fuori controllo che doveva gestire tra le gambe. La sua vena sembrava dover esplodere da un momento all'altro. Incazzato ed eccitato, era magnifico nel suo rigido e apparente autocontrollo.

Osai di più, cercando la cintura con la mano, ma quella di Trevor scattò come un cobra sulla preda e mi agguantò. Il gesto repentino di certo non era passato inosservato ai nostri interlocutori.

«Sì, sono molto brava anche a violare le cose, in effetti...»

Il mio piccolo Baker non mi avrebbe mai fatto del male. Abusai vilmente della certezza per proseguire nella mia opera e gli slacciai la cintura, ignorando completamente il comando muto pervenuto poco prima dalla sua mano irosa.

«Bene, allora la signorina Gessi potrebbe essere un'ottima risorsa nella produzione, signor Baker. Ma perché dovrebbe ricoprire ruoli dirigenziali? Non ha nessuna esperienza, nessuna competenza.»

Ancora una volta, la lingua tagliente di Trevor non tradì la sua condizione difficile, mentre la mia mano impugnava la sua asta di carne, vezzeggiandola con carezze e attenzioni spudorate. «Perché è in grado di farlo. Il suo intuito per la finanza alternativa potrebbe rivelarsi prezioso in questo contesto di incertezze economiche e politiche. Ha un pensiero laterale invidiabile, idee creative e conoscenze poco comuni se non addirittura assenti nel nostro organico dirigenziale.»

Era bello sentirlo parlare così di me, ma non quanto era bello masturbarlo mentre lo ascoltavo. Lo sentivo febbrile nel mio palmo, duro come roccia.

«Finanza alternativa, signor Baker? Le nostre società hanno solide basi, le hanno avute anche quando il resto del mondo tremava sotto l'effetto del terremoto dei mutui subprime.»

Senza concedere alcuna tregua all'uccello di Trevor, proseguendo sfacciata in una lenta ma inesorabile masturbazione, intervenni al posto suo.

«Potrebbero avverarsi terremoti di diversa natura, in un futuro piuttosto prossimo, signori.»

«A cosa allude signorina Gessi?»

«Alludo ad algoritmi ad alta velocità, vulnerabilità di mercati tutt'altro che inespugnabili, eventi di tipo sistemico. Non possiamo sempre contare su una rapida ripresa di consumi e produzione dopo una crisi imprevedibile come quella che è conseguita al Covid. I rischi sistemici, con la rapida crescita delle conoscenze informatiche anche di stampo criminale e terroristico, stanno assumendo probabilità di realizzo sempre meno remote.»

L'uomo si appoggiò pesantemente allo schienale della sua poltrona. Mi chiesi cosa li avessimo invitati a fare tutti gli altri, dato che nessuno era stato in grado di intervenire.

«Probabilità di realizzo sempre meno remote, dice lei. Ma il suo stipendio da dirigente sarebbe un realizzo piuttosto concreto e immediato.»

Trevor dovette decretare la sua impossibilità di reggere oltre. Sbatté una mano sulla scrivania, e con voce imperiosa ma composta proclamò il suo verdetto inappellabile.

«Lo è anche il tuo, Edmond. E visto che ci conosciamo da quindici anni e ti straccio sui campi da golf da tredici, direi che possiamo finirla con i formalismi. Lea è assunta, il suo ruolo non è in discussione e questa riunione è stata indetta a puro scopo informativo. Fatevene una ragione. Preparate entro sera i documenti di nomina affinché io possa firmarli domattina. Arrivederci.»

E Trevor fu molto, molto, molto più veloce di me. Chiuse il portatile e lo lanciò da parte nel tempo che a me fu appena sufficiente a liberargli l'uccello dalla mia presa ammiccante.

Quasi mi scaraventò sulla scrivania, le mutande ancora abbassate e la sua asta ancora sporgente e minacciosa, mi prese le guance con una mano e nonostante l'espressione più truce mai rivoltami da quando mi aveva liberata da Viktor, io non riuscii ad avere paura.

«Piccola stronza che non sei altro, non è così che si comportano le signorine per bene.»

Gli afferrai il polso, perché la sua presa villana mi impediva di parlare. Mi liberò il viso solo per imprigionarmi i capelli. Apprezzai, mio malgrado.

«Mi perdoni, padre, in effetti ho molto peccato...»

«Posso perdonare solo chi è pentito.»

«Allora non c'è speranza per la mia povera anima corrotta.»

Mi allargò le gambe, infilandosi nel mezzo. Sentii premere la sua marmorea erezione contro le mutandine di cotone, mentre la gonna si arrotolava irrimediabilmente verso i fianchi.

«Allora bisogna espiare in altri modi: questa povera anima va salvata.»

«Sono pronta a obbedire.»

Mi si strofinò addosso, la sua durezza che sfregava nella mia fessura già umida e affamata. Mi guardava e sembrava dovesse prendere fuoco da un momento all'altro, e io mi sentivo nello stesso modo. Mi stava bene lasciarmi consumare da quell'incendio, ero più che disposta a patirne ogni conseguenza, godendone e succhiandone ogni piacere con la bocca. Fare incazzare Trevor era la sola cosa che mi eccitava quanto il farmi scopare da lui. E se prima lo facevo incazzare, e poi mi facevo scopare, ottenevo l'apoteosi del piacere, un festino d'indecenza. Ero pronta supplicarlo di prendermi lì, tra una tastiera e un mouse, con le collant strappate e la gonna avvolta sopra l'ombelico, in un atto sporco e oltraggioso, sbrigativo e malconcio, consumato sulla scrivania che aveva sancito il suo successo e la sua ricchezza oltre alla disfatta di molti altri, ignari rivali di un demone senza pietà e senza coscienza, talentuoso stronzo dall'animo corrotto votato solo alla crescita del suo ego, unico patrimonio che stimava più del suo conto in banca.

Da quell'entità fatta di spietatezza e indifferenza, io volevo farmi riempire e svuotare, e scoprire ad ogni spinta che tutto il suo amore era solo per me, unica creatura che ne avesse scardinato la serratura, liberando un tesoro di tenerezza dai confini invalicabili, che circondavano solo me, e nessun altro.

«Allora subirai il tuo castigo senza discutere, deliziosa peccatrice?»

Non desideravo altro. «Sì.»

«Non durerà poco.»

«Voglio sperarlo.»

Avvinghiò tra le dita la cucitura delle collant e le strappò, poi infilò le dita sotto i miei slip, già umidi. Mi accarezzò con irruenza tra le grandi labbra, spostando il cotone della biancheria del minimo indispensabile.

«Giochi con il fuoco, bambina mia.»

«Bruciami, Trevor. Dammi fuoco.»

Mi ficcò la lingua in bocca mentre mi ficcava le dita nella fessura affamata. Perpetrò entrambe le cose con crudezza, senza riguardo, inseguendo il proprio piacere e non il mio. Mi baciò stringendomi i capelli con l'altra mano fin quasi a farmi lacrimare, abbandonandomi sola in quell'unione immonda di dolore e piacere cui aspiravo sempre, da sempre.

Avvertii quasi subito l'esigenza di una penetrazione, il bisogno di riempire i miei vuoti con il suo corpo. Gli avvolsi i fianchi con le gambe, avvicinando il suo bacino al mio, spingendo la sua mano contro la mia intimità disperata.

Strofinò le dita contro di me con maggior violenza, ma non mi benedì con nessun'altra penetrazione, lasciandomi incompiuta e tormentata.

Mi allontanò il viso dal suo tirandomi i capelli, ma senza violenza.

«Il tuo castigo inizia adesso, ragazzina.»

Allontanò il corpo dal mio, trascinandomi giù dalla scrivania, voltandomi e piegandomi sul ripiano. Mi alzò la gonna a un'altezza indecente, allargando lo strappo delle collant senza pazienza, strattonando con forza.

«Cazzo, Lea, la gente non sa cosa sia una perfetta rotondità finché non ti vede il culo...»

Mi teneva una mano sulla schiena, senza spingere, e con l'altra mi palpava le natiche come se non le avesse mai viste prima. Mi appoggiò il bacino addosso, l'uccello ancora rigido come una spranga che cercava d'insinuarsi nello spazio ristretto tra i glutei. Trevor me lo spingeva contro, frizionando la sua carne contro la mia, generando un piacere innegabile ma insufficiente, che ben presto sarebbe sfociato in una frustrazione insostenibile.

«Farai la brava, Lea? D'ora in poi, obbedirai ai miei comandi?»

Mi servirono pochi attimi, per riordinare le idee e sillabare una risposta, ma fu un'attesa che Trevor dichiarò eccessiva. La sua mano enorme si schiantò sulla natica con una violenza che avevo già sperimentato a Milano, e mai dimenticato. Mi tolse il fiato, consapevole che di certo l'impronta rossa delle sue dita sarebbe stata ben visibile per alcuni secondi sulla mia pelle chiara.

«Trevor...può entrare qualcuno...»

Mi assestò un'ulteriore cinquina impietosa, con uno schiocco che mi parve un tuono nelle orecchie.

«Nessuno entra nel mio ufficio.»

Mi concedette una tregua, tornando a saggiare la consistenza dei miei glutei con la stessa mano che mi aveva colpita. Anche in quel gesto innocuo aggiungeva una dose di crudezza, piantandomi le dita nella pelle, affondando i polpastrelli all'inverosimile, quasi volesse scoprire fin dove poteva spingersi senza farmi sanguinare. E ancora avvertivo la pressione del suo uccello nel mio incavo, lo muoveva appena, quanto bastava a farmi fremere di desiderio, desiderosa di essere lacerata in un qualche modo da lui.

«Chiedimi scusa, Lea. Sei stata una bambina molto capricciosa.»

«Il mio capriccio ti è piaciuto da morire...»

E venne un altro castigo, un'altra potente sculacciata che riuscì a scuotermi anche lo stomaco. Soffocai un grido mordendomi le labbra.

«Riproviamo. Chiedimi scusa, piccola stronza. Sei stata maleducata e incivile.»

«Sì, sono stata maleducata e incivile. Come piace a te.»

E di nuovo, sempre nello stesso punto, la mano crudele di Trevor tornò a schiantarsi, in un dolore bruciante che istigava tutti i miei sensi a scatenarsi in una festa blasfema. Faceva male, tanto quanto faceva anche bene. Sentii gocce di liquida soddisfazione colarmi lungo le cosce. Non me ne vergognai neanche un po'.

«Lea, chiedi scusa, sei ancora in tempo. Il tuo prossimo castigo potrebbe piacerti meno.»

«Scusa mio signore... se ti ho masturbato. Senza farti venire.»

Un'altra, efferata sculacciata, la più forte di tutte, mi colpì nuovamente nella stessa natica, e in quell'occasione il dolore fu acuto, abbastanza nitido da sopraffare il piacere a da rendermi quasi impossibile la decapitazione di un grido disarticolato che non si infranse del tutto in gola.

Non ne avrei retta un'altra, ne ero quasi certa, ma la voglia di scoprirlo era di gran lunga superiore alla paura di verificarlo. Ancora una volta, dei due, fu Trevor a riconoscere in tempo il confine da non superare nel nostro sesso alternativo. La mano abbandonò la mia schiena, e le sentii entrambe accarezzarmi i glutei, una coccola dopo tanta rudezza, accompagnata da una manciata di deliziosi baci lì dove, senza dubbio alcuno, il segno di quanto appena accaduto si ergeva in tutto il suo purpureo rossore.

Presi fiato, gestendo la respirazione, abbandonata al suo tocco ora delicato e prezioso.

Mi fece poi alzare con delicatezza, ma non trovai sul suo volto l'espressione che mi ero aspettata. Non c'era perdono, né la solita riserva di pazienza, nel suo sguardo e nella sua postura inflessibile.

«Non abbiamo ancora finito, bambina. Siediti sulla scrivania.»

Mi bruciava tutto, sedermi non sarebbe stato un affare da poco. Lo feci lo stesso, muovendomi con prudenza. Trevor mi concesse di farlo con i miei tempi.

«Allarga le gambe.»

Quello fu semplice, un comando cui potei obbedire in fretta.

Lui aprì uno dei cassetti della scrivania, tirandone fuori un signorile sacchetto di velluto.

«Dammi una mano, bambina» ebbi un attimo di esitazione dettato dalla curiosità, ma forse Trevor interpretò diversamente quell'attimo di smarrimento. «Non ti farei mai qualcosa che possa lasciarti danni. Il tuo è un castigo per il quale stasera mi ringrazierai, stai tranquilla.»

Gli allungai il palmo della mano e Trevor vuotò il sacchetto. Due piccole sfere metalliche, unite da un filo sottile, atterrarono sul mio palmo.

«Sai cosa sono?»

«No, ma posso immaginarlo.»

«Cosa immagini?»

Alzai lo sguardo sul suo, mi pareva una domanda davvero strana. «Beh, che vadano infilate da qualche parte, signor Baker.»

«Perché secondo te?»

Tornai a guardare le piccole sfere. Erano strane, avevano pesi diversi. Muovendole, avvertivo qualcosa che si spostava al loro interno.

«Per...godere?»

«Stimolare.»

«Oh.»

Le prese dal mio palmo. «Adesso rilassati, mia queen. Ci penso io a inserirle.»

«Quanto tempo le devo tenere?»

«Finché mi pare.»

Era una risposta che non mi piaceva, ma mi zittì spostando le mutandine con le dita. Mi bastò quel contatto poco meno che innocente per non desiderare altro che abbandonarmi alle sue dita.

Trevor fu chirurgico: inserì le piccole sfere, senza concedere al mio corpo nessuna carezza, nessuna soddisfazione. Quando mi sistemò gli slip al loro posto non trattenni un gemito sofferto.

«Non fare lo stronzo, ti prego.»

Sorrise...anzi no, ghignò. Si sedette sulla sua poltrona, i pantaloni ancora slacciati e la verga che pareva accusarmi di qualcosa. «Finisci quello che hai iniziato, Lea.»

Scesi dalla scrivania con in piccolo saltello e la vibrazione delle palline nel mio canale vaginale mi fece vacillare. La contrazione dei muscoli intimi avvenne senza che avessi il tempo e il modo di rendermi conto di quello che accadeva dentro di me. I diversi pesi delle sfere contenute nei globi di metallo creavano un effetto stordente e stuzzicante che non mi ero aspettata. Strinsi le cosce tra loro per contenere i piccoli spasmi muscolari che mi stavano facendo tremare le viscere.

Il ghigno di Trevor si allargò a dismisura.

«Ecco. Ora conosci la differenza tra stimolare e godere, bambina.»

Gli lanciai uno sguardo di rimprovero. «Preferivo l'ignoranza, mister Nike!»

Mi liquidò con in un gesto sbrigativo della mano. «Stasera mi ringrazierai, te l'ho già detto. E ti ho anche già detto che devi finire quello che hai iniziato in modo inappropriato. Avanti.»

Non appena le sfere smisero di muoversi, smisi anche di avvertire le piccole pulsazioni che mi torturavano da dentro. Bastarono i due passi indispensabili per avvicinarmi a Trevor a innescare di nuovo tutto. Mi inginocchiai davanti a lui con la mano tra le gambe, bisognosa di portare a compimento ciò che quello strumento tanto carino quanto perverso innescava.

«Lea. Non è il tuo momento. È il mio. Quella mano è in mezzo alle gambe sbagliate.»

«Ho due mani. Una per te e una per me...»

La mia era una supplica, anche se aveva cercato di sputarla fuori dandole il sapore del veleno. Ma Trevor era più corrosivo di me.

«Quella per te è sprecata. Sappiamo entrambi che hai quel limite. E voglio anche la tua bocca, bambina. Sto perdendo la pazienza, Lea. Se non ti dai una mossa, giuro che stasera ti sfioro solo con il pensiero.»

Lasciai il nido caldo tra le cosce, avvicinandomi alla minacciosa arma rigida di carne che Trevor brandiva ancora contro di me.

«Devo credere che stanotte resterai senza orgasmo anche tu, solo per fare un dispetto a me?»

«Io, al contrario di te, posso rimediare in autonomia, per quanto con ben poca soddisfazione. Ma sotto una doccia tiepida, bambina, posso immaginare tutte le cose volgari e sconvenienti che avrei potuto farti se solo tu avessi obbedito, e mi avessi preso in bocca il cazzo, e lo avessi succhiato come si deve. Decidi tu, come vuoi concludere la giornata.»

Volgari e sconvenienti erano aggettivi che mi stimolavano più delle dannate palline. Mi feci sopraffare dai miei vizi e accolsi Trevor tra le labbra con una vertiginosa voracità.

***

Sudicio. Disonorevole. Immorale. Sporco. Scurrile.

Erano molti i modi in cui potevo definire l'atto cui stavo piegando Lea, ma non me ne fregava un cazzo, perché stare stravaccato sulla poltrona da seimila sterline, nel mio ufficio che di sterline ne valeva più di quanto un londinese medio guadagnava in quindici anni, con una meraviglia dai capelli rossi che me lo succhiava cercando di contenere spasmi vaginali non abbastanza piacevoli, era quanto di più esaltante potessi immaginare.

Lea era scompigliata, con la gonna ancora arrotolata sui fianchi, le collant strappate, un diffuso rossore sulle gote e lo chignon ormai smontato dagli eventi.

Quella decadenza squallida mi mandava il cervello in corto circuito, rendendomi incapace di pensare da essere umano, costretto a reagire da bestia.

Lea faticava a tenere un ritmo decente sia con la mano che con la bocca, continuamente distratta dagli spostamenti delle geisha balls e dall'effetto che avevano sul suo corpo.

Sapevo che l'ipersensibilità di Lea avrebbe scatenato un effetto dirompente con quel piccolo strumento, costringendola a uno sforzo immane per mantenere almeno un minimo di lucidità e capacità di giudizio in molti frangenti.

Essendo una testa di cazzo, non avevo considerato che anche io, in una così sordida situazione, sarei stato poco più di un animale primordiale.

Lea si arrestava in continuazione, impegnata a gestire la stimolazione delle sfere, e nella sua bocca aumentava la frustrazione e la dimensione del mio uccello furibondo per quel servizio abbondantemente insufficiente.

La mia cosina si arrese alla propria incapacità, abbandonando in totale solitudine il mio uccello furioso.

«Non ce la faccio così. Fammele togliere...»

Aveva gli occhioni grandi e profondi e lucidi, ma io non ero disposto a nessuna concessione.

Afferrai il cazzo con una mano e glielo spinsi di nuovo in bocca, tenendola per la nuca, facendo appello a quel briciolo di umanità che non avevo ancora incenerito sotto la montagna di testosterone che mi aveva travolto per non affondarglielo troppo in profondità.

«Se stai ferma smettono di vibrare» le dissi, quasi ringhiando, mentre le guidavo la testolina in un ritmo finalmente accettabile, intonato. «Stai concentrata, porca puttana.»

Mi ci vollero non meno di venti secondi, prima di rendermi conto di quello che le stavo facendo. La vergogna frantumò la montagna di testosterone. Sfilai in fretta l'uccello dalla sua bocca, allontanandola dal mio inguine indemoniato. L'accarezzai con trasporto sentendomi la più grande merda sulla faccia della terra. «Scusa. Scusa. Sono una testa di cazzo immonda.»

Il modo in cui mi guardò lei mi rivelò la sua incapacità di cogliere la gravità di quello che le avevo fatto, e mi si spezzò il cuore. Ricordo benissimo la tremenda lucidità con cui desiderai di essere morto prima di averle fatto una cosa del genere.

Lea mi impugnò di nuovo il cazzo, lo sguardo concentrato.

«No, la finiamo qua...» le dissi, ma lei non fu d'accordo.

«Se non mi fosse stato bene te lo avrei staccato a morsi, brutto idiota.»

Mi prese una mano e se le la portò dietro la testa, dove l'avevo tenuta fino a qualche istante prima. «Aiutami a finire quello che ho iniziato.»

Cristo di Dio.

Le sue labbra tornarono ad avvolgermi e a quel punto mi smarrii definitivamente in un nulla solido, smisi di essere sangue e carne e ossa, ero un fottuto groppo di pulsazioni, grugniti, trasgressione e lerciume, non era mia quella mano...non poteva essere mia quella mano che guidava Lea in un atto libidinoso che sconfinava nella turpitudine, no, perché io un corpo non l'avevo più, io ero fatto di voglie impronunciabili e desideri inaccettabili, ero solo un agglomerato di ormoni primitivi e spermatozoi incazzosi.

Ero poco più di una frenesia che prendeva vita sulla lingua di Lea, ero solo un capriccio che nasceva nella sua bocca, ero solo l'appetito che si generava tra le sue labbra.

Io ero il frutto della sua volontà, senza un corpo, senza una spessore, ero un nucleo di piacere inarrestabile, e quella cazzo di mano che le spingeva la testa contro la mia verga non poteva essere mia; di certo non era mia l'intenzione che la muoveva, perché per fare scelte e prendere decisioni serviva un cervello e io non l'avevo, io avevo solo un sistema nervoso in fermento, sconvolto da un impulso assurdo.

Era tutto così bello da farmi male, era un dolore irrinunciabile, che avrei inseguito per una vita, invitante, tossico.

Era un pompino impareggiabile, degenerato come piaceva a me, come piaceva a noi, e nell'attimo in cui realizzai quella oggettiva verità le esplosi dentro la bocca con violenza, senza liberarle la testa, facendole ingoiare tutto, pulsandole contro il palato, al suono di un ruggito liberatorio così scoordinato che il cervello rifiutò di riconoscerlo come mio.

«Resta lì, bambina, bevilo tutto...»

Ma era una raccomandazione inutile, perché le stavo ancora tenendo la testa con le mani e Lea non aveva molte alternative. Sentivo il suo palato contrarsi intorno al cazzo sempre più docile, la sua gola accogliere i miei fiotti caldi stringendosi e allargandosi, inghiottendo con calma, solleticandomi le orecchie con suoni ovattati e sensuali.

Ero stravolto, distrutto, soddisfatto. Non le liberai la testa, ma la accarezzai tra i capelli lasciandole scegliere il momento più congeniale per liberarsi la bocca.

E quando tornai a vedere il mio uccello esausto, Lea si prodigò per leccarlo con partecipazione, regalandomi un'altra immagine tanto scostumata quanto incantevole. Mi leccò guardandomi negli occhi, e avrei voluto ricominciare daccapo, scoparla ancora nella bocca e sentirmi di nuovo come mi ero sentito.

Quando ebbe finito, si pulì il mento con le dita, ma ce ne sarebbe stato bisogno: aveva buttato giù tutto.

«Adesso posso toglierle?»

La feci alzare da terra e sedere su di me. «No.»

«Voglio godere anche io. È una tortura questa stimolazione continua priva di soddisfazione.»

Le regalai un bacio sulla guancia, mentre la infilavo una mano dentro la camicetta. Lea si faceva fare tutto, ed era inutile negare che il suo comportarsi da puttana e apparire come una fatina mi mandava totalmente in tilt.

«Stasera ti faccio godere, bambina. Quando ti sfilerò le sfere e ti scoperò sarà tutto amplificato. Ti piacerà così tanto che mi implorerai di replicare l'esperienza tutti i giorni.»

«Non riuscirò mai a camminare se me le lasci dentro.»

«Ci riuscirai perché non hai scelta.»

«Se ne accorgeranno tutti.»

«No, sei bravissima a nascondere il disagio agli altri. Lo saprò solo io, Lea. Lo saprò solo io quello che ti sta succedendo. Mi piacerà da morire vederti lavorare e affrontare la giornata mentre ogni movimento ti procurerà una contrazione svergognata. Non vedo l'ora di occupare la tua meraviglia calda e succosa, Lea, di entrarti dentro e sbatterti come si deve. Cazzo, ti scopo finché non ti metti a urlare, e lo prometto.»

Mi prese la mano e se la strofinò contro la fessura vergognosamente bagnata.

«Ho bisogno di un anticipo, ti prego. Ti prego.»

Le leccai l'orecchio. Era bollente. Ansimava come se avesse appena fatto una corsa. « Pregami ancora, e forse ti concedo qualcosa. Pregami.»

Prese a strofinarsi le mie dita convulsamente contro il cotone della biancheria. «Ti prego ti prego ti prego. Dio, ti prego.»

«Abbiamo scopato ieri, e l'altro ieri, bambolina. Il tuo appetito è riprovevole. Credo tu abbia bisogno di una maggior disciplina...»

Le mi ghermì la mano stringendo le cosce, spingendola verso la sua allettante vagina. «No, ho bisogno di un orgasmo. Ti prego. Quanto ti devo pregare?»

Non smettere mai.

Non ebbi pietà. Glielo comunicai sussurrandoglielo all'orecchio. «Vai in bagno a sistemarti. Togliti le calze, raccogli di nuovo i capelli, allacciati la camicetta. Poi torna, sii remissiva e obbediente. Devi lavorare, Lea. Vuoi salvare una fetta di mondo dalla tua apocalisse, giusto? Ti consento di farlo. Ma non so dove ti infilerò la mano mentre lo fai. Non importa. Vedi di accoglierle come si deve ovunque, chiaro? Non so se sarò disposto a darti di più. Vedremo.»

Mi parlò sull'orlo del pianto. «Fammi qualcosa adesso, per favore.»

«No. Alzati.»

Al limite della disperazione, lo fece, e le geisha balls le causarono un altro piacevole spasmo che la fece piegare. L'aiutai a restare in piedi.

«Stai concentrata, Lea. Impara a governarti, cazzo.»

«Non riuscirò nemmeno a camminare fino al bagno.»

«Te l'ho già detto, non hai scelta.»

«Accompagnami.»

«No. Vai, fai quello che devi fare, e torna. Se ho anche solo il sospetto che te le sia sfilate stasera mi faccio una sega mentre mi guardi e non ti scopo per tre giorni.»

Prese un respiro, come se dovesse lanciarsi con il paracadute. «Concentrati e dominati, Lea. Non ti chiedo niente che tu non possa fare.»

Prese coraggio, si allontanò da me. I primi passi furono incerti, scomposti, e la sentii gemere come la stessi accarezzando con le dita. Le ci volle un po', prima di trovare il modo di ricomporsi. Giunse fino alla porta chiusa dell'ufficio, prima di raddrizzare la schiena, girarsi, e rivolgermi una domanda che celava un'accusa vera e propria.

«Ti scopi le tue segretarie?»

Sorrisi. «Mi sono scopato un sacco di donne, Lea. Ma mai una mia dipendente.»

Appoggiò la mano sulla maniglia, senza smettere di guardarmi. «Allora è un bene che io abbia rifiutato la tua proposta di lavoro. Dico bene?»

Non che mi fossi mai soffermato su quell'eventualità, ma diedi la mia risposta. «Dici bene.»

«Se non ti scopi le tue dipendenti perché tieni le sfere nel cassetto della scrivania?»

Fui onesto. «Perché sono un depravato e mi piace avere delle porcherie in tutti i posti che frequento.»

Mi osservò più a lungo del previsto, per niente turbata dalla mia affermazione. Inaspettatamente si sfilò il fermaglio dai capelli e me lo lanciò. Lo presi al volo.

«Vado e torno» concluse.

***

Fui tentata di disobbedire, e sfilare le palline mentre ero in bagno. Mi chiesi come avrebbe potuto accorgersene Trevor, se poi le avessi rimesse al loro posto poco dopo. Mi guardai allo specchio esageratamente grande di quel bagno che probabilmente nessuno usava, dato che era quello delle donne e io avevo visto solo l'ufficio dei due Baker su tutto il piano. Vidi il mio riflesso: sembravo uscita da una centrifuga.

E se, sfilando le sfere, avessi peggiorato la situazione? Se invece di un breve sollievo mi fossi ritrovata a dover gestire un disagio ancor più frustrante?

E comunque Trevor si accorgeva di tutto, fanculo a lui.

Sbuffai, e una ciocca di capelli si sollevò per effetto del mio fiato scoglionato.

Cercai di darmi una sistemata: gettai le collant strappate nel cestino, ravvivai i capelli dato che senza fermaglio non avrebbero retto lo chignon, raddrizzai la gonna e ci infilai dentro la camicetta.

Provai a distendere le sopracciglia, arricciate come i fiocchi di natale. Non ci riuscii. Riprovai, ma niente. La piccola rughetta del pensatore rimase dov'era. Ci passai le dita per cancellarla. Chiaramente il miracolo non avvenne.

Presi atto del fatto che Trevor Baker mi stava facendo invecchiare prematuramente.

Sospirai, uscendo dal bagno e tornando con un passo quasi normale nell'ufficio del più bel criminale mai comparso sulla faccia della terra.

Notai subito che la mia poltrona non era più dietro la scrivania, accanto a Trevor, ma abbandonata in un angolo.

«La mia sedia?»

Mi guardò e trovai due profondi pozzi scuri e pericolosi al posto degli occhi.

«Niente sedia. Per te c'è un trono, mia regina.»

«Un trono invisibile, a quanto pare.»

Sorrise in un modo molto poco rassicurante. «Io sono il tuo trono, Lea.»

Allungò la mano in un invito temibile e insidioso. Un invito irrinunciabile, di conseguenza.

Strinse le mie dita con una delicatezza che non sembrava poter appartenere a una creatura così oscura e grande, e mi accomodai sulla sue gambe. Quelle due stronze di sfere sbraitarono dentro di me e mi dovetti quasi aggrappare al bordo della scrivania per non piegarmi in due e implorare la mia liberazione.

«Adesso concentrati, bambina. Prosegui il tuo lavoro.»

«E tu non lavori oggi?»

«Io mi lavoro te», e iniziò a slacciarmi i bottoni della camicetta.

Appoggiai le dita sulla tastiera, aggrappandomi con disperazione alle mie consolidate capacità di hacker e programmatrice, ma le mani di Trevor s'infilarono sotto le coppe del reggiseno e sul monitor scomparve il famigliare codice binario e comparvero geroglifici. Il cervello mi si annebbiò troppo in fretta.

«Lea, lavora.»

Chiusi gli occhi, cercando la giusta concentrazione nel buio, trovandone meno di un briciolo. Me la feci bastare.

Aprii gli occhi e il monitor tornò a parlarmi con una lingua conosciuta.

Potevo farcela.

«Nomi... mi servono i nomi, le generalità...» mi interruppi, vibrando come una dannata corda di violino quando le sue dita si strinsero in terno ai miei capezzoli. Io invece strinsi l'aria tra i pugni, invocando un barlume di lucidità.

«Ti ho già dato tutto ieri, ragazzina, hai filtrato soci e dipendenti in base all'età, al ceto sociale, ai carichi famigliari e a eventuali disabilità. Non ti serve altro. Lavora, dannazione.»

Ma mancava qualcosa...mi era venuto in mente il giorno prima...cosa? Cosa mancava? Rovistai nei ricordi mentre le sue mani rovistavano il mio corpo, i neuroni che tendevano ad inseguire le sue dita anziché i miei pensieri.

Sbattei un pugno sul ripiano, sperando di deviare il flusso di impulsi nervosi nella giusta direzione. Qualcosa di buono arrivò a traguardo, e ricordai cosa mi mancava.

«I giardinieri» sussurrai.

Sentii le sue labbra accarezzarmi l'orecchio e un'altra fetta di pensieri sensati si dissolse come nebbia. «Nessuna delle mie società ha a che fare con il giardinaggio, mia queen.»

Mi sequestrò il lobo dell'orecchio tra i denti e gemetti, sempre più vicina a una totale débacle del mio raziocinio. Mi abbandonai per qualche secondo a quella coccola, e furono tutti inopportuni, secondo Trevor.

«Non stai lavorando Lea» mi disse, e il tono fu tutt'altro che carezzevole.

Cercai di rimettere in fila i pensieri. I giardinieri. I giardinieri...

«A casa tua. Il parco non si cura da solo.»

Due frasi. Beh, due frasi che dovevano essere una, dato che il minimo sindacale soggetto-verbo-complemento era assente nella prima e carente nella seconda. Ma c'era un senso in quello che avevo detto e mi accontentai.

Le dita di Trevor si distesero a coppa sui miei seni, e le sue braccia mi tirarono a lui. La mia schiena contro il suo petto e il mio culo contro il suo inguine: un modo infallibile di rendermi impossibile il ragionare ancora.

«Non sono miei dipendenti, Lea, io pago la ditta. Lo stesso vale per il personale che si occupa dei miei appartamenti.»

Avrei voluto concentrarmi su quella frase, e sulle motivazioni che la sera prima mi avevano portato a escludere l'impossibilità di sistemare anche quella fetta di mondo, invece i neuroni sbagliarono di nuovo strada e si soffermarono a interrogarsi sull'assenza di un'erezione come si deve a premermi contro le natiche.

Ancora una volta, Trevor non mi concesse di trattenermi troppo a lungo in quello stagno di inefficienza. «Lea. Lavora.»

La ditta. I giardinieri. Il personale di servizio. La ditta. I giardinieri. La ditta. E Trevor. Il criminale. Ossessionato dalla segretezza. La privacy. La sicurezza. La ditta. I giardinieri.

Cercai di cucire insieme quei frammenti in un unico filo logico, mentre una delle sue mani mi accarezzava un seno e l'altra scendeva, e scendeva e scendeva... e il filo logico andò a puttane.

«Lea, cristo, devi dominarti.»

Strinsi di nuovo i pugni, le unghie piantate nel palmo.

Giardinieri. Personale di servizio. Sicurezza. Ditta. Segretezza. La carogna di Wall Street.

Qualcosa saltò fuori.

«Non ti credo» sputai fuori, in un sospiro. «Non fai entrare in casa tua gente che non hai selezionato personalmente.»

Mi piantò un bacio sul collo, e la vibrazione delle sfere raggiunse lo stomaco, mentre stringevo la sua mano tra le cosce. Sentii i muscoli del suo volto contrarsi in un sorriso contro la mia pelle.

«Hai ragione. Sono tutti schedati. Cercali nel database dell'indotto dei Baker.»

Hai ragione.

La gratificazione di avercela fatta in condizioni pietose mi colò addosso come miele appiccicoso e tiepido. L'indotto. L'indotto...c'era qualcosa che non andava nell'indotto. Cosa? Cosa non andava?

Oh, forse l'assenza di un'erezione sotto di me...no, non quello.

Le dita che non si infilano sotto il cotone della biancheria...perché non si infilano? Perché...

«Lea. Controllati.»

L'indotto.

«Perché nell'indotto? Hai appena detto che le tue società non...» mi persi di nuovo. Il flusso di pensieri si mise a inseguire la lingua di Trevor lungo la linea del mio collo, fini a raggiungere l'orecchio. Lì annegarono in un mare di bisogni sbagliati.

La mia mano abbandonò la scrivania per annodare le dita tra i suoi capelli, ma Trevor la riportò alla tastiera. Mi passò la lingua un'ultima volta lungo la spalla nuda, la camicetta ormai inservibile, prima di sgridarmi.

«Te le lego, queste mani, se non ti metti a lavorare.»

Evitai di confessargli che mi sarei fatta legare molto volentieri.

Andai alla ricerca di quello straccio di filo logico che stavo inseguendo. L'indotto non era realistico perché...

«L'indotto del giardinaggio non c'entra con i Baker. Non... non sono affari con punti in comune.»

Mi sfilò definitivamente la camicia. Appresi con deprimente lucidità che mi sarei fatta fare qualsiasi cosa, indipendentemente dalle possibilità che qualcuno mettesse piede in quell'ufficio e mi vedesse asservita all'uomo che ne occupava la scrivania.

«Invece sì, Lea. Forniamo software per la mappatura di immobili e giardini da implementare all'interno di piccoli robot aspirapolvere e tagliaerba privi di guida.»

Aveva senso. Aveva senso. Dovevo solo... cosa dovevo fare?

Avevo la mani di Trevor dappertutto. Quante cazzo di mani aveva quell'uomo? Perché le sentivo ovunque? Dentro, fuori, sopra, sotto. Scorreva sulla mia pelle lasciando scie elettriche che generavano impulsi dirompenti. E io... io non ricordavo più cosa dovevo fare con il database dell'indotto.

«Devi lavorare, cazzo. Avanti.»

Avanti. L'indotto. Ah sì, giardinieri e personale di servizio. I dipendenti. Erano schedati.

Dovevo fare esattamente quello che avevo fatto il giorno precedente, ma con un numero infinitamente più piccolo di soggetti.

Sì, era fattibile, no? Erano di meno, anche se le mani di Trevor erano di più e ovunque.

I capelli sulla schiena mi infastidivano. Le mani sul mio corpo mi distraevano. Potevo trovare una soluzione a una solo dei due problemi.

Afferrai una matita abbandonata accanto al pc, e lo feci con una forza tale che temetti mi si spezzasse in mano. Annodai i capelli in cima alla testa e li bloccai con la matita.

Allargai le dita sulla tastiera, contai fino a dieci con gli occhi chiusi, cercando di suddividere i pensieri che degeneravano sui percorsi che sceglievano i polpastrelli di Trevor, e quelli che si arrampicavano tra le mie conoscenze per estrapolare quello che serviva a replicare quanto fatto il giorno prima.

Con spalle e collo nudi e vulnerabili, la bocca e i denti di Trevor ebbero parecchio materiale su cui sfogare le proprie fantasie.

Giunsi alla fine dopo quasi tre ore di lavoro, quando me ne sarebbe bastata meno di una, in condizioni normali.

«Ce l'hai fatta, bambina. Visto?»

Il suo tocco abbandonò ogni tratto di lascivia, le sue carezze divennero puro affetto. Pensare mi divenne meno faticoso. Anche parlare e mettere in fila qualche parola.

«Ho fatto schifo.»

«A parti invertite, amore mio, io mi sarei spruzzato nei pantaloni dopo dieci minuti.»

Girai il collo per guardarlo in faccia e cercare qualche indizio di menzogna. Come quasi sempre accadeva, la faccia di Trevor non forniva indizi di nessun tipo.

«Non ti si è neanche drizzato» gli feci notare.

Alzò il labbro in quel modo tutto suo che da un po' apparteneva a me. «Perché credi abbia avuto bisogno di svuotarmi dentro di te prima di mettere in scena tutta questa faccenda?»

E siccome la sua mi parve una spiegazione più che valida, prima di rivestirmi lo baciai, più grata che incazzata, anche se forse non se lo meritava.

«Per oggi basta lavorare. Ti serve ancora un vestito per stasera, giusto?»

«Giusto.»

«Allora alzati, bambolina.»

«Le sfere?»

«Restano dove sono, Lea. Non chiederlo più.»

Non lo chiesi più.           



SPAZIO AUTRICE

Mie queens, il capitolo si sta facendo assolutamente troppo lungo, già così sono 8000 parole, e mancano ancora la cena e il dopo cena di Trev e Lea. E quindi oggi vi beccate la prima parte, mercoledì (forse) la seconda (se è pronta).

Qua tutto ok dai, un piccolo mal di pancia, due coccole, e un po' di ordinario lavoro svolto in condizioni più che ordinarie. Comunque pure a me sta bene metterci il triplo se sono distratta da Trevor e dalle sue mani. Ne devo parlare con i miei datori di lavoro. 


Dai ci vediamo presto con il vestito nuovo di Lea, cena e dopo cena. Poi si torna in Italia. E lì, già ve lo dico, ci sarà molto ma molto POCO spazio per le scene spicy. Saranno, fughe, lacrime e sangue. Di chi? Boh. 

Solite cose...stelline, commenti, social bla bla bla fanno comodo.

Per oggi finisce qui, parte 1 del capitolo. 


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