PRICELESS

By JennaG2408

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"Le cattive abitudini generano pessime dipendenze" 🌘Dark romance πŸ”žForbidden love πŸ’°Crime romance πŸ“š SCELTA... More

Avviso
C'era una volta una dedica
PARTE I
Prologo Lea
Prologo Trevor
1. FACCIA DA STRONZA
2. FinchΓ© qualcuno non ti compra
3. Fallo stabilire a me
4. Così poco di lei, così tanto di suo padre
5. Se l'orgasmo fosse un suono
6. Mi aspettavo di meglio
7. La sua degna erede
8. Un errore da 15 dollari
8.1 L'autrice si Γ¨ dimenticata un pezzo di capitolo.
9. Tienila d'occhio
10. Non Γ¨ Trevor
11. Non vali così tanto
12. L'anomalia emotiva
13. Il valore dell'innocenza
14. Quasi tutto quello che mi interessa avere.
15 Stasera quello rosso
16 Il mese prossimo potremmo essere morti entrambi
17 Non puoi urlare
18 La Dea piΓΉ capricciosa dell'Olimpo
19. Aspettami senza far danni (parte1)
20 (parte2)Sei tu, la mia sola cosa importante.
21 (parte 3) Seppelliscimi con le scarpe giuste
22 (ULTIMA parte) Voglio sapere se posso urlare.
23 Who needs a boyfriend when you have puppies?
24 Sei uno stronzo fortunato, Trevor Baker
25 Ogni regina ha il suo scettro
26 Non puoi toccarla
PARTE II
27 Stanco, ma non di lei
28 La prossima volta ti farΓ  male
29 Un nome per il sesso e uno per l'amore
30 Dolce figlia di un figlio di puttana
31 Ah, Auguri.
32 Quello che sta intorno al cuore
33 L'inferno non va bene per Sebastian Baker.
34 Non sempre un uomo di successo Γ¨ un uomo di valore
35 Fragola, cioccolato e una goccia di veleno: mortale tentazione
36 Non fare di lei la tua Harley Quinn
37 Due affamati nello stesso letto
38 Niente di male a sanguinare un po'
39 E comunque questo Γ¨ un Valentino, stronza.
40 Cattive intenzioni e voglie pericolose
41 La mia bambina non si tocca
42 Scorre sangue immondo
43 La sua pelle e la mia fame (parte 1)
44 Groviglio di carne e abbandono (parte 2 )
45 La migliore cosa sbagliata della mia vita (parte 3)
46 Il sesso come strumento di guarigione
47 Facciamo finta di no
48 Tutti i per sempre portano il nostro nome
PARTE III
49 Quello che sono disposto a fare per te
50 Scelgo il profano e il blasfemo
51 Il sapore di una truce Apocalisse
52 Non abbastanza. Punto
53 Eppure Lea Γ¨ viva
54 Effetto domino
55 Cinquanta sfumature di BlueDomino
56 Londra Γ¨ la mia puttana
57 Questo non puΓ² essere peggio
58 Gli affetti veri muoiono, quelli falsi uccidono
59 Innalzare le mie depravate pulsioni
60 Non c'Γ¨ differenza tra una danza e una guerra
61 Benvenuti a tutti quelli come noi
62 Dimmi cosa ti ha fatto
63 Fammi male
64 Io mi salvo da sola
66 La differenza tra stimolare e godere
67 Il grillo che mette nel sacco il gorilla
68 PietΓ  e rispetto
69 Non ti darei mai meno di tutto
70 Incassare, elaborare, espellere (parte 1)
71 Stavolta puoi urlare (parte 2)
72 Non lasciarmi solo
73 Ci sarΓ² sempre
74 Stai attenta, bambina
75 PiΓΉ incazzato che lucido
76 Scolpiranno il mio nome sulla tua carne
77 Domani Γ¨ giΓ  arrivato
78 Sembra un addio, signor Baker
79 Esisti per me
80 A fanculo un'ultima volta
81 Non morire senza di me
82 Soffrire ancora un po'
83 Mentre fuori il mondo cade a pezzi
84 Quella vita non Γ¨ mai la tua
85 Ma tu non ci sei (parte 1)
86 Scopami nel modo sbagliato
87 UNLOCKED
PARTE IV
88 MorirΓ² da re
89 Sono il vostro dio
90 Uno stronzo senza cuore
91 Tre baci sulla punta del naso
92 Un sollievo breve e inaspettato
93 CiΓ² che mi Γ¨ dovuto
94 Ci sarΓ² io, con te
95 Roba così
96 Nessuno di noi avrΓ  conti in sospeso

65 Mister SeLaTocchiTiUccido

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By JennaG2408

Londra mi sembrava tutta al contrario. Si guidava al contrario, il traffico scorreva al contrario e si prendeva pure il the al contrario dato che per me era sinonimo di influenza e gli inglesi se lo bevevano al posto caffè. Poi avevano la Monarchia, la Monarchia, capite? E ne andavano fieri, sebbene la più adorabile componente della famiglia reale fosse in realtà acquisita e per di più deceduta in un incidente stradale da decenni.

«... e non avete neanche il bidet!»

La mia arringa accusatoria ai danni della capitale britannica sembrava divertire molto mister IlMondoÈaiMieiPiediInchinateviTutti, che guidava (al contrario!) sorridendo con un misto di supponenza e accondiscendenza che mi dava tanto sui nervi quanto alla testa.

«Quello lo trovi solo in Italia, bambina. Posso dirlo con discreta certezza, dato che di posti ne ho visitati parecchi.»

«Perché siamo un popolo igienicamente evoluto.»

«Il bidet se lo sono inventato in Francia. Glielo avete rubato.»

«Loro ci hanno rubato la Gioconda.»

Scoppiò a ridere. «Capolavori a confronto!»

Feci spallucce, alitando sul finestrino e disegnando stelline sulla Tesla di Trevor.

Arrivammo davanti al cancello di casa sua, che era una cosa buffa da dire dato che bisognava guidare parecchi secondi all'interno del parco di sua proprietà prima di vedere l'edificio spuntare tra la vegetazione. Era una struttura ultra moderna, una piccola opera d'arte di legno scuro, acciaio e vetro. Tra i salici del cortile vedevo serpeggiare un ruscello e mi chiesi se da qualche parte ci fosse anche un laghetto. Era tutto ordinato, e supposi che Trevor potesse contare su un esercito di giardinieri per mantenere quel posto in condizioni perfette. Giardinieri invisibili, dato che era tutto immobile.

Il garage era sotterraneo, e ospitava un sacco di vetture di lusso e sportive, alcune dai colori sgargianti, altre più austere.

«Hai anche un elicottero?» ironizzai.

«Non qui, ovviamente.» Non capii se dicesse sul serio, ma a conti fatti non sarebbe stata una cosa poi così strana.

Scesi dall'auto e Trevor recuperò la mia valigia dall'altra macchina con cui Andrey mi aveva portata al Baker Hill. Mi guidò verso quelle che avevano tutta l'aria di essere le porte scorrevoli di un ascensore. Forse il mio criminale preferito interpretò in modo strano il mio stupore.

«Preferisci le scale?»

«No, ci sto facendo l'abitudine a questi aggeggi. Sei quasi come Tony Stark, signor Baker.»

Entrammo nella scatola di metallo.

«Solo quasi?»

Mi voltai a guardarlo, e lo trovai affascinante da svenire. «Tony è troppo figo persino per te, signor Baker.»

«Accetto la sconfitta.»

E fummo a casa sua. Le porte si aprirono su un ambiente ampio e luminoso, inaspettatamente sobrio e lineare. Il centro della stanza era occupato da due grandi divani verde bottiglia, tavolino da the nel mezzo e un grande tappeto color crema a pelo lungo a delimitare il perimetro di quella zona ristoro. Nessuna tenda ostruiva il panorama sul parco, ormai decisamente autunnale e perfettamente in tinta con il parquet di casa.

Le pareti accoglievano librerie piene e ordinate, ma anche vetrine che contenevano trofei sui quali avrei indagato non appena ne avessi avuto modo. Il grande tavolo da pranzo ricordava la struttura esterna della villa: vetro e acciaio, eleganza e potenza uniti in un efficacissimo sodalizio.

«Signor Baker, hai una casa bellissima.»

«È solo il posto in cui torno la sera quando sono a Londra.»

Mi guardai intorno in cerca di foto. In cerca di ricordi. In cerca di qualcosa che parlasse di lui e di come era arrivato fin lì, ma non trovai nulla, solo un'istantanea della sua vita in quel momento: affari, viaggi e truffe, null'altro. Capii subito cos'aveva inteso dirmi.

«Esiste un posto in cui ti senti a casa, Trevor?»

Abbandonò la maniglia del mio trolley per mettermi il braccio intorno ai fianchi e avvicinarmi a lui. Mi guardò in un modo che avrebbe potuto farmi perdere definitivamente la capacità di articolare frasi di senso compiuto. «Sì, adesso esiste, Lea.»

Mi piantò un bacio sulla fronte e parve quasi darsi alla fuga, allontanandosi alla velocità della luce da me e dalle mie domande scomode.

«Ti preparo un the, bambina» mi comunicò, senza voltarsi. Lo seguii e trovai una cucina scura che, stranamente, mi piacque. Gli sportelli parevano color lavagna e mi venne voglia di prendere dei gessetti colorati e imbrattarglieli di cuoricini e frasi dementi. I perimetri erano invece dello stesso legno del pavimento. Era grande, con un'isola nel mezzo e una cappa di alluminio che pendeva dal soffitto.

«Io non bevo the, di solito, mio re.»

Alzò lo sguardo dal fornello a induzione su cui già aveva messo un aggeggio dall'aspetto così sofisticato che mai avrei pensato servisse a far bollire acqua di rubinetto.

«Puoi tuffarci dentro i biscotti, piccola ingorda.»

«Al cioccolato?»

«E con le nocciole tritate.»

Non servì annunciare che mi aveva convinto. Perlustrai l'ambiente e mi fermai davanti al frigorifero a doppia anta, in acciaio nero.

«È vuoto...» constatai, sovrappensiero. Sentii la presenza di Trevor alle spalle, che mi abbracciò depositandomi un bacio sul collo.

«No, l'ho fatto riempire, stai tranquilla.»

Scossi la testa. «No, intendevo dire che è spoglio.» Il suo silenzio mi rivelò che non capiva. «Quanti posti hai visitato, Trevor?»

«Non li ho contati.»

«L'Europa l'hai vista tutta?»

«No, non tutta. Quasi.»

«Giappone?»

«Sì.»

«Cina?»

«Non volentieri, ma sì.»

«Nuova Zelanda?»

«Un paio di volte.»

«Madagascar?»

«In vacanza. In Madagascar ci sono stato in vacanza con mia madre, quando avevo undici anni.»

Senza permettere al suo braccio di abbandonare il mio corpo, mi voltai.

«Ti ho portato una cosa, Mister Nike. Ma adesso ho paura a dartela.»

Mi strinse più forte. «C'è stato un tempo in cui avresti dovuto aver paura di me, bambina. E non ne hai avuta abbastanza. Non vorrai averne adesso, vero?»

«Allora aspettami qua.»

Mentre camminavo verso la mia valigia sentivo la voce di mio padre parlarmi nella testa. Sentivo le sue frasi sibilline, i suoi pareri distorti, le sue insinuazioni sottili che avevano minato l'autostima della bambina che ero.

Solo io posso tenere insieme tutti i tuoi pezzi usciti male. Solo io.

La sua voce tacque di nuovo, e nella mia testa tornò il silenzio, non appena presi in mano il sacchetto di carta.

Forse era una cosa stupida.

Ma forse no.

Tornai in cucina, rinchiusa nel mio muto imbarazzo, ma consegnai a Trevor il mio regalo.

Chissà da quanto tempo quell'uomo non versava una lacrima. Eppure fu proprio una lacrima, a cadere e bagnare la calamita colorata con la scritta Italia sotto la miniatura del Colosseo e di una gondola. Quando tornò a guardarmi aveva lo sguardo di qualcuno che vede il mondo per la prima volta.

«Casa mia è dove sei tu, amore mio... » si girò e attaccò la calamita al frigorifero. «Ma da oggi, quando tornerò in questo posto, sarà un po' come tornare da te. Un po' come tornare a casa.»

Trevor non versò altre lacrime, e in quel momento l'aggeggio sofisticato annunciò che il the era pronto. Mi tempestò di baci sul viso e mi solleticò con la barba. Mi fece ridere. Gli veniva davvero facile, ormai, compiere quel piccolo prodigio.

***

Ne aveva presa una anche a Milano, e l'aveva presa per Denis. Lea viaggiava poco, terrorizzata all'idea di dover tornare, consapevole che quella ancora non era la sua fuga, non ancora la sua libertà. Quello che io avevo realizzato, e che Lea ostinatamente rifiutava di considerare, era che liberi non saremmo stati mai. Se fossimo sopravvissuti, il mondo si sarebbe rimpicciolito, rinchiudendoci dentro confini che ancora non conoscevo ma che sapevo che Lea aveva scelto.

Se mai ce l'avessimo fatta, quei confini sarebbero stati la nostra prigione, e nessuno dei due ne sarebbe più potuto uscire, probabilmente.

Ma per me non era un problema, avevo visto tanto, forse troppo, ed era vero che casa mia era dove si trovava Lea. E io una casa non l'avevo mai avuta, quindi non vedevo quei limiti come un problema, ma come un'offerta di pace.

Per Lea era diverso, Lea casa sua l'aveva sempre trovata nelle persone. Prima sua madre, poi il suo primo amore, entrambi morti. Infine Denis.

Con quella calamita, Lea mi stava dicendo una cosa importante: anche io ero casa sua. Eppure temevo che il prezzo della sua libertà sarebbe stato troppo alto per lei, sempre che ne fossimo usciti tutti vivi. Avrebbe perso ogni occasione di vedere il mondo, conoscere persone, sperimentare culture. La vita della mia bambina era costellata di rinunce, e io non potevo farci niente.

La spedii a cambiarsi mentre il the si raffreddava e apparecchiavo l'isola della cucina con una varietà assurda di biscotti. E marshmallow. Perché sapevo che lei avrebbe voluto scioglierli dentro al the.

«Forse è meglio se cambio outfit.»

La sua vocina mi raggiunse dalla porta della cucina. Mi si strinse di nuovo il cuore, nel vederla senza filtri, senza le patine che il mondo e le circostanze le avevano incollato addosso. Era piccola, dannazione, piccola e giovane. Era anche pericolosa, mortale, velenosa. Ma per me era faticoso ricordarlo quasi quanto era impossibile per gli altri crederlo.

«Sei perfetta, bambina. Avevo detto di metterti qualcosa di comodo.»

«Ma tu indossi ancora una camicia, Trevor. Hai sostituito una camicia con un'altra camicia.»

Sorrisi. «Sì, ma questa è una camicia comoda, giuro.»

«Ma io indosso una felpa con sopra Snoopy, signor Baker.»

E forse le era anche un po' tropo grande. Le gambe sottili avvolte nei leggins erano coperte fin quasi al ginocchio. Aveva legato i capelli, e il suo viso sembrava quello di una fatina con le lentiggini e gli occhi troppo grandi per essere veri.

«Senti, piccoletta, vuoi continuare a parlare di moda o vieni ad affogare i biscotti nel the?»

La vidi allungare il collo per curiosare con lo sguardo tra i biscotti. Vide i marshmallow. Sorrise.

Dimenticò qualsivoglia problema relativamente alla sua felpa.

«Non farti venire mal di pancia, bambina. Poi usciamo, ok?»

Ma neanche mi ascoltò. Sciolse tre marshmallow nel the e io glielo lasciai fare perché era così concentrata nel creare il suo elisir di diabete, con la linguetta che spuntava all'angolo della bocca e la ruga del pensatore tra le sopracciglia, che ebbi la sensazione che disturbarla avrebbe modificato l'equilibrio dell'intero universo.

Osservò quei cosi di zucchero sciogliersi in una patina bianca e rosa e poi tuffò i biscotti nella mischia. Attese che fossero ridotti peggio di una spugna imbevuta prima di raccoglierne le macerie con il cucchiaino.

Se un giorno mi chiedessero di raccontare l'entusiasmo a chi non l'ha mai provato, descriverei i suoi occhi verdi spalancarsi, le sue narici allargarsi e il suo sorriso raggiungere le orecchie nel momento in cui si portò quel cucchiaino alla bocca.

Farla felice era così facile che mi sentii in colpa.

Farla felice era così facile che sentii di nuovo la rabbia montarmi dentro e accecarmi.

Farla felice era così facile che avrei dovuto necessariamente fare di più per lei.

La sua felicità era così genuina e sfavillante che vederla mi faceva male.

«Tu non lo bevi?»

In effetti non avevo assaggiato il mio the. Ma era difficile staccare gli occhi da lei. Dovevo decidere cosa faceva più male: se vederla in tutto quello splendore, o smettere di guardarla per bere il the.

«Ti amo, Lea.»

Gliel'avevo già detto e lo sapevamo entrambi. Ma mi sembrava di non averglielo detto abbastanza e di non averglielo dimostrato abbastanza.

«Anche io signor Baker.»

Lea gettò un marshmallow nel mio the.

***

Nella città in cui tutto pareva funzionare al contrario, c'era qualcosa che sembrava andare nel verso giusto: lo shopping.

Forse un uomo normale mi avrebbe portata a passeggio per le vie di Londra, mostrandomi le meraviglie di una città che sapeva mantenere un certo fascino anche sotto la pioggia, ma Trevor Baker non era un uomo normale e sicuramente non si preoccupava di fingere di esserlo.

Quindi mi portò al Westfield Stratford City, il centro commerciale più grande d'Europa. Mi ci portò in macchina e lungo la strada non si preoccupò di dare un nome o una storia o un valore agli edifici che scorrevano svelti fuori dal finestrino. Gliene fui grata, e questo mi consentì di non fingere di preferire passeggiare al freddo lungo strade umide anziché starmene al sicuro tra negozi e vetrine.

«Serve un taxi per visitarlo tutto!» commentai una volta dentro, quasi stordita dalle dimensioni, dalle luci e dalla vastità di un ambiente chiuso che sembrava fare le pernacchie all'orizzonte.

«È spazioso, sì.»

Spazioso. La megalomania di Trevor Baker, evidentemente, non aveva smesso d'impedirgli di stimare con esattezza le proporzioni di ciò che non gli apparteneva.

«Trevor, non so da dove iniziare...»

Mi prese per mano, mentre io ancora vagavo con gli occhi tra scale mobili e insegne, incapace di soffermarmi su qualcosa di specifico.

«Ti fidi di me?»

Me lo aveva già chiesto, in precedenza. Gli avevo risposto di no. Sorrisi. «Per oggi sì.»

«Allora per prima cosa andiamo a procurarci qualcosa che non hai più.»

Il Westfield Stratford City contava più di 200 negozi, più i luoghi di ristoro, un cinema, un bowling e un casinò. C'erano merci per tutte le tasche, non solo per quelle piene di sterline alla Trevor Baker. Il primo negozio di Londra nel quale misi piede nella mia vita, fu Tezenis.

Trevor mi guidò spedito verso la cassa, dove una commessa con due tette fotoniche gli lanciò addosso un sorriso che aveva tutta l'aria di una proposta indecente. Non li ascoltai mentre dialogavano in inglese, perché non avevo voglia di concentrarmi in quella lingua nella quale mi ero sempre esercitata pochissimo. Era tempo di cambio di stagione, e notai un sacco di tute e pigiami sfiziosi che mi avrebbero tenuta al caldo anche durante una notte eschimese.

Poi Trevor richiamò la mia attenzione e tornai a voltarmi. La commessa, che sembrava sul punto di saltare di là dal bancone per strappare la camicia a Trevor, mi allungò distrattamente una sportina. Lasciai la mano di mister Sterlina per estrarne il contenuto. E lo riconobbi subito.

«Il pigiama di Crudelia...»

«Hai detto che ogni donna dovrebbe averne uno nell'armadio.»

Sembrava capace di incamerare ogni mia frase per ripropormela nei momenti più inaspettati, generando una commozione quasi imbarazzante.

«Me lo regali?»

«Naturalmente. Non è stato facile procurarlo, dato che è della scorsa collezione. Ma eccolo qui, mia queen. Solo per te.»

Trevor sapeva cogliere l'importanza dei miei bisogni meglio di me, rielaborava i miei stati d'animo nel modo più corretto, sapeva farmi sentire aggiustata, o addirittura speciale. Mi gettai tra le sue braccia stringendo ancora in mano quel povero pigiama. Sperai che la commessa si stesse sciogliendo nella sua stessa bile. Quando lo sentii baciarmi sulla testa, dimenticai l'esistenza della commessa e persino delle sue ingombranti tette.

«Lo vuoi un consiglio, bambina?» mi bisbigliò. Gli risposi di sì, ma senza slacciare il nodo con il quale mi avvinghiavo al suo corpo.

«La sera inizia a fare freddo, scegline anche uno più pesante della nuova collezione.»

«Ne ho visto uno rosa coperto di batuffoli che sembra una pecorella.»

«Se ti piace, prendilo. Prendi quello che vuoi, e anche se so che potresti permetterti di svaligiare il negozio, lascia intatto il mio onore e consentimi di spendere i miei inutili soldi, Lea.»

Uscii da lì con il pigiama di Crudelia, quello con i batuffoli da pecorella, una tuta di pile e una felpa con sopra disegnati i sette nani. Provai a convincere Trevor che la versione da uomo con sopra la faccia di Brontolo gli sarebbe stata benissimo, ma fallii. Me ne feci una ragione molto in fretta.

«Se vuoi ti porto al piano dedicato alle marche più prestigiose.»

«Non mi serve niente.»

«Non indossi mai nulla di...prezioso, Lea.»

«Le Jimmy Choo sono preziose.»

«Intendevo altro.»

«Tipo?»

Mi guardò in modo strano, come se temesse di dirmi qualcosa di sbagliato, che potesse ferirmi.

«Non mi offendo, Trevor. Spiegati.»

«Al polso porti solo il mio smartwatch. Non indossi mai un braccialetto, mai un paio di orecchini, mai un gioiello, anche piccolo.»

Mi strinsi nelle spalle. Non ci avevo mai pensato. Così credevo. «Non mi hanno mai attirata.»

Tacque per un attimo, mentre sembrava volermi scavare dentro con gli occhi. «Eppure starebbero bene su di te.»

Mi strinsi nelle spalle. «Porto le cose sbarluccicose tra i capelli, quando tu non mi stressi perché li vuoi sciolti per poi privarmi definitivamente dei miei fermagli, signor Nike.»

Era vero, non le avevo mai restituito i suoi fermagli, né quello che le avevo portato via nella black room, né quello che lei mi aveva lanciato al Demons. Non avevo intenzione di farlo. Forse mi sarebbero serviti, prima o poi. Più prima che poi.

«Ok, piccola dea capricciosa. Quindi hai meno di cento sterline in quella sportina, non sei interessata alle pietre preziose, non ti servono abiti o scarpe griffate... che ci facciamo in un centro commerciale grande quanto una provincia italiana?»

«Hai detto che qua dentro c'è un cinema...»

«Vuoi vedere un film?»

«No. Voglio mangiare i pop corn.»

E Trevor Baker mi guardò come se fossi la cosa più buffa che avesse mai visto, e io adorai quel suo sorriso genuino, la ragnatela di rughe ai lati degli occhi, la forma che aveva il suo viso quando smetteva di essere la carogna di Wall Street per essere semplicemente quello che non si era mai consentito di essere: sé stesso.

«Quante porcherie vuoi mangiare in un solo giorno, Lea?»

«Tutte quelle che le nostre tasche possono permettersi.»

Mi prese la sportina con i vestiti dalle mani e mi mise un braccio intorno alla vita. Sembrava un uomo così normale, quando mi trattava così, che mi concedevo il lusso di dimenticare il motivo che ci aveva fatti conoscere per qualche minuto.

«Ti verrà mal di pancia» mi disse.

«E allora con le sterline che ci saranno rimaste dopo le porcherie compreremo una borsa dell'acqua calda molto buffa da Tiger.»

«Da chi?»

«Da Tiger, signor Baker.»

«Mai sentito.»

«Questo perché tu la borsa dell'acqua calda la compreresti in boutique, mister CamiciaComoda.»

Mi baciò sulla punta del naso, e si rassegnò a portarmi al cinema...dove non guardammo un film, ma mangiammo entrambi un sacco di pop corn.

Trevor mi prese una lattina di Coca Cola, convinto che il mio stomaco non avrebbe retto decentemente senza l'ausilio di bollicine. In realtà resse benissimo.

«Prima ho visto un posto dove fanno le crepes con la Nutella...»

«Lea.»

«Non ho mal di pancia.»

«Ma a quanto pare hai tutte le intenzioni di procurartene uno.»

Scesi dalle scale mobili, lo tirai nella direzione che ormai avevo deciso di intraprendere.

«Facciamo a metà!»

I tavolini erano piccoli e rotondi, tutti colorati. Avrei preso una crepes anche solo per sedermi in quel posto caramelloso.

«Te la prendo piccola, Lea, perché oggi hai buttato giù troppi zuccheri.»

«La ordino io!»

«Non se ne parla. La imbottiresti di qualunque cosa.»

«Due ingredienti. Promesso. Ma li voglio scegliere.»

Sospirò. Per un attimo mi guardò con uno sguardo paterno che mi atterrì. Ma passò subito. «Fai la brava. Ti aspetto al tavolo. E bevici dietro qualcosa con le bollicine ma che non contenga altro zucchero, per l'amor di Dio.»

Mi parve un buon compromesso. Trevor scelse un un tavolino azzurro Tiffany. Io ne avrei scelto uno verde mela, ma non potevo averla sempre vinta io. La coda alla cassa era piuttosto lunga, e fu nel percorso da Trevor a lì che mi prese l'ansia da lingua straniera: dovevo intendermi con una commessa inglese, senza un criminale assassino madrelingua di fianco... forse distratta dalle mie paturnie insensate, non mi accorsi del ragazzone che mi diede una spallata degna di un quarterback. In realtà si prodigò subito ad afferrarmi per evitarmi di cadere o andare a sbattere contro gli altri clienti, biascicando qualcosa nel suo british che mi parve incomprensibile. Arrossii tra l'imbarazzo di non saper rispondere alle sue frasi che non avevo compreso e il fastidio nel constatare che per farmi assorbire l'urto senza cadere mi aveva in buona sostanza palpato il culo. Non potei evitare di pensare che l'avesse fatto apposta, ma non potei nemmeno evitare di pensare che ero una stronza acida e che magari gli ero semplicemente finita in mezzo ai piedi.

Ma qualunque cosa potessi pensare io, fu inghiottita da quello che, evidentemente, aveva pensato mister SeLaTocchiTiUccido, che comparve al mio fianco come se l'avesse evocato qualcuno.

A sua discolpa devo ammettere che in realtà comparire fu proprio l'unica cosa che fece: se ne stette accanto a me, con le mani in tasca, a tentare di incenerire il ragazzone mano lesta con lo sguardo. Che poi sto povero disgraziato mica mi aveva molestata, pugnalata, minacciata o rapita. E una palpata di culo era senza dubbio un atto deplorevole, ma tentare di procurargli una morte immediata con un'espressione truce mi pareva esagerato.

Il lato positivo di quel teatrino fu che io non dovetti arrampicarmi con il mio inglese vergognoso, e il tizio i cui piedi erano inciampati nei miei si dileguò semplicemente alzando le mani in segno di resa con una smorfia sulla faccia.

«Non ce n'era mica bisogno...» dissi, forse più a me stessa che a Trevor. Ma lui non mi degnò di uno sguardo.

«Ordina la tua crepes, bambina. Io vado al bagno.»

«Trevor...»

«Non mangiarla tutta. E hai promesso due soli ingredienti.»

«Trevor!»

Niente da fare. Mi piantò lì. In coda. A ordinare una crepes senza saper mettere in fila due parole d'inglese decenti. E con l'assoluta certezza che i bagni fossero nell'altra direzione.

***

Ero proprietario del quindici per cento dell'edificio. Ero anche azionista maggioritario della società che aveva procurato l'hardware relativo alla sicurezza, oltre che l'amministratore delegato di quella che invece aveva programmato il software e che ancora ne forniva i pacchetti d'aggiornamento. Mentirei se dicessi che conoscevo perfettamente la conformazione del Westfield Stratford City, ma non mentirei se dicessi che la conoscevo abbastanza da poter anticipare le mosse di qualunque soggetto ci passasse la giornata, compresa una buona fetta di coloro che ci lavoravano. Avevo stabilito io la corretta allocazione delle telecamere per un'efficiente sorveglianza delle merci, dei dipendenti e dei clienti. Lo scopo era preventivo per crimini di stampo terroristico e furti, ma anche per rapimenti e smarrimenti di minori.

E pochi possono prevedere le mosse di un criminale meglio di un criminale. Di conseguenza, avevo fatto un ottimo lavoro.

Mi fu quindi facile stabilire come incastrare il tizio senza metterlo in allarme e senza destare scalpore tra i passanti. Camminava accanto alle pareti, con un berretto da baseball calato sulla testa e il cappuccio a ulteriore rinforzo: il suo voler restare nella zona d'ombra delle telecamere era tanto inutile per lui quanto vantaggioso per me. Per anticiparlo in uno degli ambienti neutri del piano sfruttai un bivio circolare e feci il giro antiorario del settore. I magazzini degli inservienti non custodivano nulla che fosse di valore e la porta era chiusa con una semplice serratura. La forzai in meno di venticinque secondi con disinvoltura. Entrai senza chiudere la porta. Attesi che il ragazzo comparisse nella cornice dall'uscio. Mi presi il rischio di afferrarlo per un braccio e tirarlo dentro, ma non chiusi la porta immediatamente: avrebbe attirato l'attenzione. Il ragazzo era abbastanza sveglio da riconoscere il tocco di una lama all'altezza del fegato, nonostante la felpa gli facesse da scudo.

«Ti faccio molto male solo se fai casino, piccolo stronzo.»

Lo vidi perdere colore, ma mantenere la calma.

«Chiudi la porta. Voglio solo riprendere quello che hai portato via alla rossa di prima.»

«Puoi riprenderlo con la porta aperta.»

«Oppure posso riprenderlo dopo che ti ho trafitto il fegato. Chiudi la porta. Ho detto che ti faccio molto male solo se incasini la situazione.»

Lanciò uno sguardo fuori dalla porta, valutando le possibilità che mi azzardassi davvero a pugnalarlo con decine di passanti a pochi passi da noi.

«Sono capace di toglierti la capacità di fiatare prima che tu ti renda conto che mi sono mosso, ragazzino. A quel punto moriresti dissanguato e nessuno se ne accorgerebbe fino alla chiusura. Vuoi farti trovare morto dagli inservienti o ti decidi a chiudere quella cazzo di porta? »

Pareva incapace di prendere una decisione. Figuriamoci se poteva prenderne una sensata.

Mi concedetti una frazione di secondo per stimare a sua età e stabilii che a farlo sembrare giovane era il suo abbigliamento da sfigato. Piccoli solchi sottili gli attraversavano a fronte, e quelli erano i segni del tempo che raramente comparivano prima dei trent'anni. La porta la chiusi io.

Tirò fuori il cellulare di Lea dalla tasca con una sveltezza innaturale dettata dal panico.

«Eccolo, riprenditelo...»

Mi ero raccomandato con la mia bambina di portarlo sempre con sé, e lei mi aveva preso alla lettera, tenendolo in tasca anche quando era insieme a me.

Il furto mi aveva infastidito, perché chiaramente non sopportavo che alla mia cosina si facesse nessun tipo di torto, ma mi aveva anche aperto gli occhi sulla necessità di fornirgliene uno di riserva.

Il problema non era tanto che le avesse portato via qualcosa che comunque nessuno avrebbe potuto usare senza il comando vocale di Lea, no. Figuriamoci. Il problema era che lei non se la sarebbe presa granché, sopportando l'ennesima ingiustizia forse pensando anche di meritarsela. Il problema era che non ero ancora stato capace di insegnarle a guardarsi nel modo giusto, ad assolversi per il suo essere com'era e anzi, a comprendere che il suo essere com'era non aveva bisogno di alcuna assoluzione, perché colpe non ce n'erano, né errori, né difetti.

Infine, il problema era che il principale colpevole del suo male di vivere era già morto e non per mano mia, mentre tutti gli altri colpevoli non erano ancora morti per mano mia.

E io avevo una dose eccessiva di rabbia e rancore da riversare addosso a qualcuno.

Una.dose.eccessiva.

Afferrai il cellulare cercando di controllare il mio bisogno di frantumargli tutti i denti contro la parete.

Infilai il cellulare in tasca e mi resi conto che non sarei riuscito a sedare completamente la belva. Quindi ad essa mi arresi, anche se solo per un attimo. Mi bastò.

Afferrai il ragazzo per la gola e lo costrinsi contro la parete, sollevandolo da terra mentre le sue mani cercavano una disperata salvezza graffiando le mie e i piedi cercavano un'impossibile via di fuga, scalciando a vuoto.

Lo guardai, mi sfamai, assaporando i suoi occhi che parevano uscire dalle orbite, scoppiare, riempirsi di capillari scoppiati, il volto paonazzo e la guance gonfie di terrore perché svuotate dell'ossigeno.

Dalla gola gli uscivano gorgoglii disperati, rantoli disumani.

Il suo pomo d'Adamo scricchiolava nel mio palmo, il rumore della morte che sopraggiungeva era croccante e scoppiettante, e io ero pronto ad accoglierla e a bearmene.

La vita gli scivolava via dalle dita, sempre meno agguerrite nel cercare di liberare la gola, quasi arrese a una fine quasi muta.

Poi accadde qualcosa. Cercò di parlare, di trasformare i suoni della sua mancanza di respiro in una frase. Allentai, forse inconsciamente, la presa. Un soffio d'ossigeno gli consentì di dare origine alle parole. Un suono rauco, graffiante, mi consegnò il significato della sua richiesta al cervello.

«Ti prego...»

E sarò sincero, dato che ancora una volta sarò l'unico giudice di me stesso: non fu la pietà nemmeno in quell'occasione a far sì che le mie mani abbandonassero la presa, concedendo allo stronzetto di crollare a terra, ancora vivo. Fu l'amore, a compiere quel piccolo miracolo, l'amore per Lea, che per quella vita inutile ai miei piedi, quasi certamente, avrebbe versato troppe lacrime, scorgendo in essa un potenziale che probabilmente non aveva, o una speranza per il futuro, o qualunque cosa fosse per lei degna delle sue lacrime in caso di una fine prematra e violenta.

Mi chinai accanto a lui, che tossiva con violenza annaspando alla ricerca di ossigeno. Non era un ragazzo. Era un uomo. Fatto e finito. Lo afferrai per i capelli e gli feci sbattere la il naso contro il pavimento. Svenne, e finalmente smise di emettere suoni fastidiosi.

Non mi soffermai oltre per verificare da dove gli uscisse il fiotto di sangue che imbrattava il pavimento, se dal naso, dalla bocca o entrambi.

Spensi la luce del magazzino e uscii. Verificai di non essermi sporcato la camicia nella colluttazione.

Ero a posto. Mi sistemai la giacca e mi incamminai verso Lea. Quando la vidi mi sentii meglio, e l'insoddisfazione per il troppo poco sangue versato si chetò.

Mi sorrise appena mi vide e mi chinai a baciarla, infilandole di nuovo il cellulare nella tasca senza che se ne accorgesse.

Sul tavolo c'era una bottiglietta d'acqua frizzante aperta e un piattino con mezza crepes.

«Visto?» mi disse. «Sono stata brava.»

Sì, lo era stata. Tutto sommato, lo ero stato anch'io.

Lea insistette per comprare un'ultima cosa.

«Può servire!» confermò. Si rabbuiò quando scoprì che all'interno del Westfield Stratford City non c'era un Tiger, ma si entusiasmò quando scoprì l'esistenza di un posto chiamato Pylones. Mentre Lea riempiva un cestino di oggetti coloratissimi di cui ignoravo la funzione, vidi il ragazzo che avevo pestato nello sgabuzzino passare davanti alla vetrina. Non indossava più la felpa, di cui probabilmente si era liberato perché sporca di sangue. Mi chiesi se averlo risparmiato fosse stata una scelta giusta, se non avessi appena condannato il mondo a sopportare un serial killer, un pedofilo, uno stupratore, un deficiente che un giorno avrebbe guidato ubriaco e investito un bambino, o uno schizofrenico che avrebbe aperto il fuoco nei corridoi di una scuola.

Poi Lea richiamò la mia attenzione. « Eccola!» sentenziò, mostrandomi una borsa dell'acqua calda a forma di koala. E quello fu il momento in cui ricordai che del mondo non me ne fregava un cazzo, perché il mio mondo era Lea.

In macchina rimase in silenzio, scegliendo la musica e disegnando con le dita sui finestrini appannati dal suo alito.

A casa, mi disse di non avere fame. Di norma mi sarei preoccupato, ma con tutta la robaccia che aveva messo in corpo quel pomeriggio, forse era meglio così. Avrei voluto fare la doccia con lei, ben sapendo che avremmo finito per fare l'amore sotto il getto dell'acqua, ma ricevetti una sfilza di telefonate di lavoro cui dovetti soccombere mentre lei si rinfrescava. Uscì dal bagno con il pigiama nuovo a batuffoli che avevamo acquistato nel pomeriggio.

Non mi disse nulla, avvicinandosi alla parete di vetro che si affacciava sul mio parco all'inglese, fiocamente illuminato dai lampioncini.

«Da fuori ci vedono?» volle sapere.

«Fuori non c'è nessuno, il parco è recintato e allarmato. In ogni caso, no: se anche nei miei vialetti ci fosse un mercatino di Natale nessuno ci vedrebbe. Ma noi vedremmo loro. Se preferisci, posso oscurare anche dall'interno.»

Parve lontana da tutto per qualche istante, e io avvertii l'urgenza di riportarla da me almeno in parte, quindi mi avvicinai e l'abbracciai da dietro.

«Cosa c'è?» le chiesi.

«Me n'ero accorta.»

Trattenni per un secondo il respiro, cercando di capire a cosa si riferisse. Ma ero troppo ottuso. «Di cosa?»

«Del cellulare. Appena mi sono seduta al tavolino ho controllato di averlo con me, perché tu ti sei raccomandato tanto. Non c'era più. Poi sei tornato ed è ricomparso anche il cellulare.»

Mi piegai un po' per baciarla sul collo. «Ho solo ripreso quello che era tuo.»

«Sì ma non è che mi devi difendere da qualunque cosa, sai?»

La feci girare per guardarla in faccia. Aveva un broncio magnifico e anche se non era affatto il momento, sentii l'erezione dare segnali di vita forti e chiari.

«Avrei dovuto lasciarlo andare con la tua roba in tasca?»

«No, ma era solo un ragazzino e se hai ben pensato di riprendere la mia roba lontano dalla folla, suppongo che il vostro sia stato uno scambio poco pacifico.»

Non persi la pazienza, ovviamente, perché Lea aveva il talento di farmela perdere molto spesso ma in ben altri frangenti. Eppure l'accusa mi urtò i nervi.

«Allora bambina, mettiamo in chiaro due cose. La prima: non era un ragazzino, quello aveva parecchi anni più di te. La seconda: io sono un criminale, Lea. Lo sapevi, non mi sono mai finto per quello che non ero, e di conseguenza nella mia vita non esistono le constatazioni amichevoli, chiaro? Sono tutte guerre, bambina, tutte. Non cambierò.»

Incrociò le braccia, il faccino arrabbiato e spettacolare. Mi piaceva persino quando eravamo un po' incazzati l'uno con l'altra.

«Guarda che io non ti voglio cambiare.»

«E quindi? Qual è il problema?»

Sbuffò, scocciata della mia incapacità di capire al volo qualcosa che, probabilmente, non capiva nemmeno lei. «Non mi serve un padre, Trevor.»

Ecco, fu con quella frase che mi fece perdere la pazienza. «Ma porca puttana, mi prendi per il culo, Lea?» alzai la voce, anche se non avrei voluto. E la piccoletta slacciò la braccia per piantarsele sui fianchi, gli occhioni racchiusi tra le sopracciglia incazzate.

«Non ti prendo per il culo, voglio solo mettere in chiaro quello che mi serve e quello che non mi serve affatto!»

«Tu neanche lo sai quello che ti serve! Tu sai solo quello che vuoi!»

«E dovresti saperlo tu, quello che mi serve?»

«Sì, cazzo!»

«Vedi? Vedi? Sono i genitori che scelgono al posto dei figli!»

Si sfilò dallo spazio che aveva occupato fino a un momento prima, lasciando il vuoto tra me e la vetrata. Un vuoto che si riempì della mia frustrazione.

«Lea cristo vieni qui!»

«No! Vado in una stanza a caso di questa casa assurdamente grande! E ci vado perché tu mi hai detto di venire lì! Ok?»

«Ok un cazzo!» la raggiunsi con tre falcate prima che salisse per la scale, prendendola per un polso.

«Ti vuoi fermare a ragionare un attimo per favore?»

«No!»

Strattonò il braccio e la lasciai andare subito, ma la seguii. «È un comportamento demenziale, ragazzina!»

Lea proseguì nella sua salita picchiando i piedi sulla scala di vetro satinato con la grazia di un alce azzoppato. Batteva i piedi come se potesse dimostrare di aver ragione distruggendomi casa.

Sospirai, ma non mi arresi e le andai dietro. Tanto, dove voleva andare? Era in pigiama, incazzata e tutto quello che la circondava apparteneva a me. Non poteva certo sfuggirmi nel mio territorio.

Arrivata in cima prese evidentemente una direzione a caso.

«Ma si può sapere dove cazzo vai?»

«Lontana da te per un po'!»

«Questo sì che è un atteggiamento maturo.»

Si bloccò per girarsi e farmi un dito medio spregiudicato accompagnato da una smorfia arrogante.

Poi riprese la sua marcia alla conquista di chissà quale stanza scelta senza nessun senso logico. E di nuovo, le andai pazientemente dietro.

«Lea, le cose si risolvono parlando, sai?»

«Tu le risolvi squartando!» mi gridò senza voltarsi.

«Sì, ovvio, ma questo vale solo per quelli che non sono te.»

Dovette trovare una porta di suo gradimento, perché la aprì e ci entrò. Era uno studio, quello in cui di solito ideavo servizi digitali e app, cercando di generare nuovi inutili bisogni nella popolazione.

Lea si fermò nel bel mezzo della stanza, poi si girò e aveva la faccia più incazzata e più porno che le avessi mai visto addosso.

«Voglio restare da sola, Trevor Baker!»

«Ti lascerò da sola quando mi avrai convinto che è il modo migliore di sviscerare il problema.»

«Io non ti devo convincere di niente. Dovresti rispettare i miei bisogni e toglierti dai coglioni.»

«Voglio rispettare i tuoi bisogni, Lea. Magari mi verrà più semplice in futuro se me li esprimi.»

«Ti sto esprimendo il bisogno di mandarti a fanculo!»

«Bene, mi ci hai mandato. Ora posso sapere perché lo hai fatto?»

«No!»

Era insopportabile, diciamocelo. Cercò di sfilarmi accanto per uscire dalla stanza, ma chiusi la porta con una spinta prima che lei sparisse nel corridoio.

La incastrai tra me la porta chiusa. Mi guardò senza nemmeno l'ombra del timore, irritata.

«Ma dove vuoi andare, Lea? Tanto ti riprendo dappertutto.»

La sua coltre di nervosismo s'incrinò un po'. «Sono arrabbiata.»

«Sì, questo l'ho capito. Mi dici perché?»

«Quando non ci sei vedo le cose in modo diverso.»

«Ma siamo stati sempre insieme.»

«Sotto la doccia ho fatto pensieri strani.»

«Da oggi in poi la doccia la fai con me.»

E la battaglia tra i muscoli del suo visino durò parecchi attimi, uno scontro all'ultimo sangue che non fece prigionieri. La risata vinse, trionfando ed espugnando il broncio arrabbiato, conquistando me, la stanza, la casa, il parco e il mondo intero.

Mi concesse la possibilità di accarezzarle la guancia, e si rilassò un po'.

«È il mio aspetto che mi frega, credo.»

«Il tuo aspetto è magnifico, bambina.»

«Ma non sono un soprammobile di cristallo, sai? Non ho sempre bisogno di qualcuno che risolva le cose per me.»

«Capisco quello che vuoi dirmi, Lea. Ma non sto facendo nulla al posto tuo.»

«Hai ucciso Alan.»

Me la strinsi addosso, perché mi bastava il ricordo di quello che le avevano fatto per farmi prendere dal panico di poterla perdere o di poterla vedere di nuovo in balia di un'oscenità simile.

«Volevi farlo tu?»

Sembrò stupita. «Beh no, non dico questo.»

«Allora non l'ho fatto al posto tuo. Fare le cose per qualcuno, non è come farlo al posto di quel qualcuno. E l'ho fatto anche per me, Lea. Perché sono fatto così.»

«E Danyl...»

«Ti ho portata con me, amore mio. Tu eri lì, e hai sentito la vita che gli scivolava via dal corpo. Non l'ho fatto al posto tuo.»

«Il cellulare invece...»

«Ho sbagliato. Quello l'ho fatto al posto tuo. La prossima volta ti porto con me nello sgabuzzino a spaccargli il naso.»

Racchiuse il sorriso tra i denti. «Mi limiterei a recuperare il maltolto, eventualmente.»

«Non sono d'accordo. Ma prometto di farci un pensiero, dovesse accadere di nuovo.»

«Cosa vedi quando mi guardi, Trevor?»

«Un miracolo, un capolavoro, una dea, un puzzle di cose porno e oscene, un gomitolo di capricci... dipende dall'occasione.»

«Non sono una cosa indifesa.»

«Non è quello che vedo.»

«A volte mi guardi come se vedessi una cosa da difendere a tutti i costi.»

«E su questo hai ragione.»

«Ma allora!»

La schiacciai con il mio peso contro la porta. Avevo bisogno della sua attenzione, tutta la sua attenzione. L'unico che non era attento era il cazzo che aveva frainteso tutto come al solito, ma cercai di isolare quella parte del mio corpo.

«Ascoltami, Lea. Ascoltami bene. L'amore è fatto così. Non importa quanto sia grande, forte, invincibile, astuto o veloce ciò che ami. Non importa quanta infinita fiducia tu possa riporre in quello che ami, tu vorrai difenderlo comunque, saperlo al sicuro. E a volte, sai, sarà difficile non soffocare quella persona con il tuo amore, inghiottire la volontà di portarla lontano da tutto. A volte vorresti respirare al posto suo, davvero. Sicuramente, senza alcun dubbio, vorresti soffrire al posto suo.»

Non volevo farla piangere, io volevo solo farla ridere, sempre. Ma raccolsi con le dita due lacrime che le erano sfuggite.

«Mi dispiace per la mano...» mi disse. Ma non capii. Mi prese la sinistra e passò i polpastrelli sulla cicatrice che mi era rimasta dalla pugnalata di Viktor.

«Hai sofferto al posto mio, quella volta, bambina.»

Alzò lo sguardo per cercare qualcosa nel mio. «No, ha pugnalato te, per colpa mia.»

«A te ha fatto di peggio, bambina. Te lo sei lasciata fare perché avevi paura per me. E Lea, non ci eravamo neanche resi conto di amarci così tanto, all'epoca.»

Mi diede un bacio sulla guancia, e per farlo si mise sulla punta dei piedi. E io capivo che le tenerezza che provavo nei suoi confronti fosse così evidente da confonderla, a volte. Potevo immaginare le sue paure, i suoi dubbi.

«Ho capito cosa vuoi dire» mi disse.

Chissà se era vero. «Non voglio fare le cose al posto tuo. Voglio il meglio per te, questo sì. A volte ho la presunzione di voler sapere meglio di te quello che può farti stare meglio. Lo so che lo fanno anche i genitori con i figli. Ma è perché l'amore è fatto così, Lea: può essere declinato in tanti modi, ma ci sono cose in comune che non possono cambiare. Non ti sottovaluto. Io ho sempre saputo che avevi ragione quando dicevi che sei di valore, l'unica che non ci crede abbastanza sei tu.»

Tornò seria, concentrata. «Lo pensi sul serio? Dimmi la verità.»

«Ti ho forse chiesto qualcosa in merito alla tua apocalisse, Lea?»

«No.»

«Sono intervenuto nelle tue scelte?»

«No.»

«Ho cercato di influenzarti in qualche modo?»

«No.»

«E io ti sembro uno disposto a mettere in mano il proprio futuro e il tuo in mano a terze persone?»

«Decisamente no.»

«Ma l'ho messo nelle tue mani, bambina. Alla cieca. Non so che intenzioni hai, non so dove andrai, con chi. So solo che lo farai. E non ho nessun dubbio, proprio nessuno, amore mio, nel lasciarti condurre questa battaglia. Non lo farò al posto tuo, ma se avrai bisogno di qualunque cosa, io ci sarò e non vorrò spiegazioni, se non vorrai darmele. Per un uomo come me, è una cosa grande, Lea. Mi credi?»

Annuì con la testolina ramata.

«L'amore ha dei difetti, mia queen. La perfezione non è di questo mondo, dicono, anche se io ti guardo e mi sembri ben oltre la perfezione. Vorrei poter fare tutto io, correre i rischi per te, sopportare quello che accadrà per entrambi. Vorrei, ma non perché non ti credo capace di arrivarci in fondo, o perché ti ritengo una cosina indifesa. So quanto sei letale. Vorrei perché ti amo. Tutto qui.»

Mi abbracciò, finalmente. «Mi hai convinta, signor Baker.»

«Resta il fatto che da oggi in poi la doccia la farai con me, a scanso di equivoci.»

«Tu non l'hai ancora fatta, mister Nike...»

La vocina morbida accompagnò le dita lungo le asole della mia camicia, che si slacciò sotto il suo tocco. L'uccello, che non aveva capito un cazzo di quello che era successo fino a quel momento, lanciò il suo grido di battaglia, pulsando rabbioso per esprimere la sua volontà di essere liberato dai vestiti che lo imprigionavano.

Quando le labbra della mai cosina preferita mi si posarono sul petto smisi di provare tenerezza per Lea. Non smisi di amarla, naturalmente, perché sarebbe stato impossibile. Ma la tenerezza si disintegrò, sbriciolandosi sotto il peso opprimente della mia corruzione: in fondo, ero disposto a difenderla da tutto, ma non volevo davvero difenderla da me.

Il mio corpo era addestrato, mi aveva sempre obbedito, e se in passato aveva ceduto a istinti degni di una bestia era stato perché avevo deciso che tutto sommato era opportuno.

Ma con Lea il mio corpo non mi obbediva più, non abbastanza, si lasciava guidare dalla ferocia della propria volontà di conquista, dal bisogno di farsi largo dentro di lei come e quando lo desiderava. Mi si annebbiava il cervello, preso a pugni da scariche di testosterone ingovernabili, che mi fluivano fino alla testa al posto del sangue, che trovava rifugio sulla punta del cazzo.

«Sei come il canto di una sirena, Lea...»

La sollevai per le natiche, e mi si aggrappò addosso con le gambe snelle e le braccia focose, mi impadronii della sua bocca, e la mia regina mi concesse anche quella, perché darsi le veniva naturale, si lasciava andare, l'abbandono ai sensi e al piacere era il suo vizio e la sua condanna, abusarne era un attimo, una peccaminosa tentazione.

Lea istigava al piacere, era un richiamo naturale al sesso sfacciato, la volevo tutta per me anche se era sbagliato, anche se quella brama di possesso poteva solo che farle del male, ennesima espressione di un'ingiustizia da subire.

Ma non avevo la facoltà di resisterle, non avevo gli strumenti per addomesticarmi, Lea me li aveva sequestrati tutti e nascosti chissà dove.

L'erezione era imprigionata tra i vestiti e i nostri corpi, un incastro provocante e frustrante, che alimentava la voglia, bruciava il raziocinio.

Staccò la sua bocca dalla mia per leccarmi l'orecchio e soffiarci dentro un nuovo incantesimo di perdizione. «Quel tappeto sembra molto morbido, mio signore...»

Neanche mi ricordavo di averlo, un tappeto. La depositai di nuovo con i piedi per terra per sfilarle via il pigiama e scoprire che sotto era nuda e piena di vita. Fui forse un po' troppo rude nel farla sdraiare sul tappeto, mentre i vestiti cadevano sul pavimento in disordine, abbandonati al nulla come noi lo eravamo all'istinto.

E non c'era verso di non sentirmi predatore mentre labbra e denti assaggiavano il suo corpo, tastando morbidezze e protuberanze, calore e brividi, peccati e colpe. Quelli erano i momenti in cui io mi abbuffavo di lei, come un invitato a un buffet senza fine, prendevo tutto e abusavo, non lasciavo indietro niente, io volevo tutto, e lei mi dava tutto, completamente a mia disposizione, implorando con gemiti fatali di essere consumata fino in fondo all'anima.

Godere era la sua vocazione, Lea sapeva farlo come nessun'altra, smodata nel suo cedimento ad ogni contatto con me, si faceva plasmare dalle mie mani e dalla mia lingua, si lasciava conquistare dalla mia penetrazione, si concedeva e nel farlo aveva il talento di farmi sentire come se quella vittoria fosse stata sofferta, come se fosse il frutto di uno scontro millenario tra creature primordiali.

Era capace di entrarmi dentro anche se dentro di lei dovevo entrarci io. La sua pelle profumata era ancora fresca dopo la doccia, il suo sapore era più dolce di quello dei suoi dannati marshmallow ma non era stomachevole, era divino. Io ero ancora sporco e portavo addosso tutta la polvere di quella giornata, e quella consapevolezza depositava un velo di depravata immoralità su quello che le stavo facendo e la cosa mi faceva perdere la testa ancora di più.

Mi eccitava saperla pulita sotto la mia pelle corrotta, mi incendiava saperla candida sotto le rovine di tutto quello che avevo fatto fino a quel momento, mi piaceva saperla compromessa dal mio corpo sudicio, sudato. Forse ero nato solo per quello, solo per annebbiare ciò che era fulgido, per insinuare il grigio nel bianco, insozzare il pulito.

Eppure il risultato della nostra fusione era ineguagliabile, il mio odore con il suo mi restituiva una fragranza che mi faceva venire voglia di scoparla ancora di più, i segni del mio passaggio sulla sua pelle erano ornamenti che elevavano la sua bellezza verso la pienezza, l'assoluto compimento.

Il grigio e il nero e il corrotto passavano da me a Lea e facevano di lei qualcosa di più, qualcosa di meglio, qualcosa di irrinunciabile.

Dio, vederla pulita e fresca sotto di me, che ero sporco e indecente, mi istigava a continuare a strusciarmi su di lei, ad avvertire il modo in cui quello che le davo la rendeva ancora più desiderabile, impudica.

«Potrei assaporarti fino a farti male, Lea. Ti passerei la lingua addosso fino a sciuparti completamente...»

Il suo corpo rispose inarcandosi sotto il mio, implorandomi di farlo, di farle tutto, di non lasciare nulla di intentato.

Mi tuffai di nuovo con la bocca sulla sua pelle, battezzandola con la mia saliva, i miei denti, spostandomi verso le sue gambe già allargate, pronte ad accogliermi, in trepidante attesa delle mie attenzioni severe e brutali.

Le aprii lo scrigno di carne con le dita e sentii sulla lingua tutti i suoi fluidi rilasciati con scandalosa devozione, dolci con una puntina di piccante. Le sua manine mi spinsero la testa contro la sua intimità, ingorda. Era morbida, calda e profumata anche lì, un fiore sbocciato e ogni petalo era una trasgressione, uno sbaglio da rifare in eterno.

Trovai in fretta il suo clitoride gonfio e pulsante, eretto come il mio uccello, viziato ed esigente. Lo imprigionai tra i denti e Lea gridò la sua sorpresa, il suo tormento e il suo piacere osceno. Strofinai i denti con delicatezza contro il suo grumo di carne e godimento, sentendo i suoi sospiri avvicinarsi al confine del pianto; alternai con le coccole della lingua, e la sue dita divennero artigli famelici tra i miei capelli. Il suo bacino spingeva contro la mia bocca, mi provocava e io cedetti, succhiandola con avidità, la lingua che danzava tra le sue cavità, le sue piccole grida che non lasciavano spazio a dubbi in merito al suo stato di oblio.

Rimasi a divorare il suo piacere con la bocca, nutrendo lei e me, le mani piantate nelle sue cosce tremanti. Ero un animale, un rapace che si accaniva sulla preda, il suo sapore era spettacolare e non mi fermai finché dalla gola non le uscì un verso profondo e cavernoso, mentre dalla vagina sentii colare un flusso abbondante e caldo rilasciato da un orgasmo violento. Leccai anche quello, senza darle tregua, preda in balìa del predatore, veloce e avido di impossessarmi anche del suo amplesso. Mi presi ogni goccia del suo nettare, continuai ad avventarmi su di lei, saccheggiando ogni prova del suo piacere, prendendo fiato solo se indispensabile, mentre il suo corpo cercava di rilassarsi dopo l'orgasmo, senza riuscirci. Il mio accanimento le impediva di calmarsi, di distendere il corpo, prigioniero della mia irruenza, della mia bocca crudele e della mia lingua indisponente.

Le avevo detto che l'avrei leccata fino a consumarla, e lo stavo facendo, non volevo smettere e non avrei saputo come farlo, la volevo troppo, in una misura disumana. Il mio bisogno di prenderla ancora in quel modo era doloroso, la succhiavo ancora con un trasporto turpe, come se lei non fosse già venuta, come se l'orgasmo fosse alle porte e andasse incoraggiato con forza.

Leccavo e succhiavo e amavo quello che stavo facendo e il modo in cui lo stavo facendo.

C'era solo un elemento, in quel momento, che poteva arrestare il moto ostinato della lingua tra le sue gambe: il cazzo. Mi stava scoppiando di rabbia e fu lui a imporre la fine del mio nutrirmi di lei con la bocca, ma solo per iniziare a nutrirmi di lei con una penetrazione.

Forse Lea non era già pronta per quell'atto, ma non avevo davvero modo di fermarmi, era un'ondata di incivile necessità quella che mi guidava e le entrai dentro con un gesto veloce ma profondo, ed entrambi sicuramente sentimmo lo schianto del mio bacino contro il suo.

Lea decapitò un grido mordendosi le labbra e seppi che quel dolore le piaceva da impazzire, e quindi per forza di cosa divenni pazzo anche io.

«Dimmi che ti piace, bambina. Lusingami come si deve...»

«Se ogni colpo fosse mortale, sarei disposta a morire ripetutamente e in eterno...»

Sì, cazzo. Sì.

E per fortuna i miei colpi non erano davvero mortali, perché l'avrei uccisa troppe volte. Era inutile cercare di trattenersi con Lea, inutile cercare di fare le cose nel modo più corretto, più salutare. Lea era una dolce maledizione e avrebbe corrotto tutti i santi del paradiso. Affondavo dentro di lei sfruttando quasi tutto il mio peso, e se ogni spinta non le svuotava completamente i polmoni era solo perché tra la sua schiena e il pavimento c'era il tappeto ad assorbire quello scontro impari.

Ero nato senza pietà ed era senza pietà che approfittavo del corpo della mia cosina, era senza pietà che mi adagiavo nella sua sudditanza, scopandola con la stessa dose di amore e ardore, affetto ed efferatezza.

La sua espressione si frantumava in una smorfia peccaminosa ad ogni urto che le infliggevo, e ormai di candido e pulito non era rimasto nulla: Lea era lorda di me, della mie voglie indecenti, del mio sudore acido, del mio odore corrotto.

Era un pensiero che mi inebriava, era una sbronza colossale di sacrilegi e profanazioni.

E se mi ero ormai piegato a un atto che aveva dell'osceno, tanto valeva proseguire per quella strada.

Uscii da Lea per girarla di schiena, senza chiederle nulla né avvertirla. Le alzai i fianchi a cui mi aggrappai per tornarle di nuovo dentro con la mia solita foga.

«Bambina...»

Affondo spietato

«..tu sei...»

Affondo spietato

«...la mia...»

Affondo spietato

«...Regina.»

E quello fu l'ultimo affondo, crudo e profondo. Le venni dentro, sgorgando furiosamente, senza fiato, braccia e gambe che tremavano. Gli spasmi dell'orgasmo erano immensi e quasi logoranti, mi si contorsero le viscere. Mi piegai per baciarle la schiena mentre le pulsavo ancora all'interno, incerto sulla mia capacità di tornare a raddrizzare la schiena e a reggermi di nuovo sulle ginocchia.

I respiri accelerati di Lea accompagnavano i miei: si lasciò baciare sulle spalle, accogliendo tenere coccole dopo una prestazione che non volli etichettare come irrispettosa perché il solo pensiero di farlo era troppo ingiusta da sostenere.

Mi sdraiai accanto a lei, sul tappeto, senza la volontà di scoprire se alla fine sarei riuscito a reggermi in piedi. Lea venne subito a incastrarsi col mio corpo, appoggiandomi la testa sul petto.

Non disse niente, ma sapevo che era tranquilla. Nulla di quello che le facevo la turbava. Semmai, turbava me. Mi turbava sapere di trovare così eccitante il comprometterla, lo strapparle via la patina divina che le vedevo addosso quando non eravamo nudi, mi turbava sentire l'uccello gonfiarsi come la ruota di un pavone al pensiero di renderla più simile a me, meno angelica, meno fatata.

Mi era piaciuto da impazzire fare l'amore mentre la sporcavo di me, inquinarla mentre la facevo mia, mentre ero dentro di lei e le pompavo dentro il mio marcio.

Mi era piaciuto ed era piaciuto a lei, almeno nella stessa misura.

Mi arresi al nostro essere così.

«Signor Baker...»

«Mmh?»

«Dovrò fare un'altra doccia.»

Mi parve un'ottima idea.  

SPAZIO AUTRICE

Francamente questo capitolo mi ha prosciugata, probabilmente perchè pensavo di sapere quello che doveva succedere e invece no. 

Infatti boh. Non ho capito cos'è successo ahahaha!

Per stavolta dovete accontentarvi. Tra un po' si torna in Italia...per l'ultima volta.

E...dato che ho programmato la pubblicazione del capitolo alle 19,30 direi che ormai posso dirlo ufficialmente: 

HO VINTO I PREMI WATTYS!!!!

Eh sì, ovviamente con La sindrome dell'erpe. Ho vinto il premio speciale webtoon studios, e speriamo che i sogni si avverino.

A presto!

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«𝑡𝒐𝒏 𝒂𝒑𝒑𝒆𝒏𝒂 π’Š π’”π’–π’π’Š π’π’„π’„π’‰π’Š π’π’π’„π’„π’Šπ’π’π’‚, π’„π’‚π’π’…π’Š π’„π’π’Žπ’† π’Šπ’ π’„π’Šπ’π’„π’„π’π’π’‚π’•π’ 𝒇𝒖𝒔𝒐, π’”π’Š 𝒔𝒐𝒏𝒐 π’‘π’π’”π’‚π’•π’Š 𝒔𝒖...
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β€’Dark Romance John, un padre violento che non riesce a superare la morte di sua moglie. Cloe, una ragazza troppo buona per ribellarsi a tutto il dolo...