Come le Maschere di Pirandell...

Av shin_eline

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Dove Christian non si rende conto di quanto Mattia gli somigli. Mer

La prima volta 1/2.
La prima volta 2/2.
Chiasso.
Aspetterò.
Sei mio 1/2.
Sei mio 2/2.
Non andare.
Staccare la spina.
Stupido ego maschile.
Sfortuna, o no?
Paranoie.
Come le Maschere di Pirandello.
Come il sole e le foglie.
In ogni modo.
Amici.
Simili.
Chiamata. 1/2
Chiamata. 2/2
Come il fumo di una sigaretta.
Un po' meno nero.
Rose rosse.
Colazione.
Tornare a casa.
Quando le bugie crollano.
Videochiamata.
Amore.
Ti importa ancora?
Il meglio di me. 1/2
Il meglio di me. 2/2
Un cuore in due.
This Side of Paradise.
La persona adatta.
Uno sporco profumo.
La cosa giusta.
make you mine.
Tra apatia, rabbia e amore.
Un palmo dal cielo.
Mettere in moto.
A pranzo da amici.
Lezioni di ballo.
Prepararsi insieme.
Presentazioni.
Non ci sarebbe stato Universo alcuno.
Mattina.
Non abbiamo età. 1/2
Non abbiamo età. 2/2
Ogni posto ti conosce.
L'aria di famiglia.
Povera mente.
Ogni secondo di più.
Promettimelo.
Nonni. 1/3
Nonni. 2/3
Nonni. 3/3
La banalità del male.
Il bello dell'amico.
Non so se stringerti o lasciarti andare.
Pasta e gelosia.
Complici.
Complici. 2

In a dream, I saw my mother...

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Av shin_eline

Silenzio.

In quella casa c'era solo silenzio.

Christian era seduto al tavolo della cucina, con davanti una tazza di caffè ormai vuota e una bustina di zucchero aperta.

Il rumore dell'acqua del rubinetto che si infrangeva contro il lavandino era costante, e forse cercava di tenere incollati i pensieri dei due in quella stanza.

«Vacci a parlare.»

«E per fare cosa? Tanto nemmeno vuole vedermi.»

«Glielo devi, Chri.»

Erano state queste le parole con cui Mattia lo aveva incoraggiato a fare quello che stava facendo quel giorno.

Quel giorno in cui si trovava nella casa dei suoi genitori.

Nella casa dov'era cresciuto.

Nella casa in cui aveva abitato per tutta l'adolescenza.

Suo padre era a lavoro come sempre.

Era sabato.

Ricordava che da piccolo gli piaceva il sabato, perchè era l'unico giorno della settimana in cui, tornando da scuola, non era da solo.

Durante il periodo delle medie sua mamma aveva trovato un lavoro, e tutto sembrava essere leggermente più stabile: Christian si sorprendeva quando entrando in un negozio, la mamma gli comprava quell'ovetto kinder che tanto voleva (e che lui conservava fino al giorno successivo come merenda a scuola), oppure quando entrando in cartolibreria gli comprava un album per colorare.

A Christian piacevano i colori.

Avrebbe voluto averne tanti, così tanti come il suo compagno di banco in prima media, Amedeo.

Quel periodo fu un periodo che nella mente del moro si conservava con quieta lucidità.

Le cose iniziavano ad andare meglio del solito.

Sua madre era felice.

Era soddisfatta del proprio lavoro, nonostante non era che lavorasse in chissà quale fabbrica e non è che facesse degli orari proprio comodi.

Però era più serena.

Come se avesse trovato un modo per tenere occupati i pensieri negativi del giorno.

E chissà quanti ne aveva.

E chissà se esistevano anche fuori da quella casa.

Il Christian undicenne non ci pensava a questo però.

Lui teneva solo la mano alla sua mamma quando andavano da qualche parte, e quando la mamma gli chiedeva se voleva qualcosa, lui non lo diceva ad alta voce.

Lui rispondeva "no" tenendo gli occhi puntati su quello che voleva, e poi guardava negli occhi verdi come i suoi la sua mamma.

Perché aveva paura che non glielo potesse comprare.

E ogni volta che gli diceva di no a qualcosa, lei sembrava sempre più triste del figlio.

E il bambino non avrebbe mai voluto renderla triste.

Però non sapeva contenere la felicità quando poi la mamma gli comprava quello che voleva.

Non sapeva trattenere la felicità quando si aggrappava al bancone della cassa e guardava il suo regalo mentre veniva scannerizzato.

E non chiedeva se poteva aprirlo fin quando non gli veniva dato fra le mani, perché era un bambino sì, ma era un bambino grande.

E forse per questo tutti i cassieri gli sorridevano e facevano poi i complimenti alla signora.

«Che bambino educato che sei, non é vero?»

«Signora lei è fortunata, gli altri bambini non fanno che urlare.»

«Ah porti anche la spesa alla tua mamma? Ma che bravo!»

E sua mamma al momento sorrideva e annuiva, e si girava verso di lui come se fosse orgogliosa di suo figlio.

E allora Christian si sentiva fortunato ad averla.

Poi passò il tempo.

Passò una stagione, e poi l'altra, e poi un'altra ancora.

L'inverno fece il suo ingresso quando sua madre perse il lavoro.

E con quello, il sorriso.

Tornare a casa il sabato, dopo scuola, era diventato triste.

Christian accompagnava ancora sua madre per i negozi, ma i prodotti che passavano per la cassa, erano sempre più pochi.

E Christian non aveva mai più ricevuto alcun album da disegno.

E non aveva mai più conservato gelosamente alcun ovetto kinder.

E i cassieri non avevano più fatto i complimenti a sua madre.

E sua madre a stento alzava gli occhi quando doveva pagare.

E quando uscivano dalle porte automatiche, quando la mamma teneva con una mano l'unica busta della spesa e con l'altra la manina del figlio, il viaggio lo percorrevano in silenzio.

Non parlavano più.

E ad un tratto, un giorno di ottobre, forse verso i tredici anni, Christian aveva sentito sua madre piangere.

Da sola, al tavolo della cucina.

Seduta con le mani sul viso.

Singhiozzava a bassa voce.

Non c'era la televisione accesa, non aveva vicino il telefono, e la luce era spenta.

Così lui si era avvicinato alla porta, rimanendo sulla soglia, con il cuore che sembrava rallentare ad ogni singhiozzo.

La vedeva tremare, la vedeva alzare e abbassare le spalle a tempo con il pianto.

E poi si calmò, quasi come se avesse perso d'improvviso tutte le forze.

Si mise una mano sulla tempia e si voltò lentamente verso la porta.

Era magra, i suoi capelli erano spettinati e forse erano pure sporchi.

I vestiti che aveva addosso erano rovinati, per quanto puliti fossero.

Aveva una maglia nera, con le maniche lunghe.

E anche la matita che colava dai suoi occhi era nera.

E gli occhi verdi, beh, sembravano d'improvviso esser diventati grigi.

Come i campi d'inverno.

Come un campo ormai morto.

E con quegli occhi da fantasma, guardava il figlio.

Lo guardava eppure non lo guardava sul serio.

Sembrava come fosse incantata, come se quella seduta sopra quella sedia non fosse realmente sua madre.

E il tredicenne ebbe quasi paura, perché quella donna sembrava tutto tranne quella che lui conosceva.

E Christian era intelligente, era tanto intelligente.

E sapeva che le persone in quei contesti avrebbero mentito, si sarebbero asciugate le lacrime e avrebbero detto che non era nulla e che era tutto okay.

Ma la sua mamma quel giorno non ne aveva la forza di mentire.

E non gli sorrise nemmeno.

Non gli disse nulla.

E fu in quel giorno che Christian capì che sua madre non era più orgogliosa di lui.

E che forse non si sentiva nemmeno fortunata nell'averlo.

Il Christian del presente cercò di cancellare quel ricordo intrusivo dalla sua testa, mentre guardava il posto, a capotavola, dove aveva visto sua madre in quelle condizioni.

Sua madre che in quel momento gli dava le spalle, ancora intenta a lavare delle tazzine.

Sua madre che non parlava.

Che da quando aveva aperto la porta lo aveva trattato come un estraneo, come non si conoscessero, come lei non lo riconoscesse.

Christian abbassò la testa.

A lui quel silenzio uccideva, sua madre sembrava stare così bene senza parlargli.

Prese un grosso respiro, iniziando a parlare.

«Papà quando torna da lavoro?»

«Domani mattina.»

Atona.

La sua voce era atona.

Christian si guardò le mani.

Voleva domandarle se avesse paura di dormire da sola, come ce l'aveva quando ai sedici lui non andava a dormire dai suoi amici se suo padre aveva il turno di notte, per non lasciarla da sola.

Voleva domandarle se tenesse ancora una piccola luce in camera da letto.

Voleva domandarle come stesse.

Se stesse bene, se avesse litigato ancora con papà, se avesse avuto voglia di andare da qualche parte insieme.

O, se fosse interessata a sapere come gli andava il lavoro.

O se stesse ancora con la stessa persona che gli aveva fatto quei succhiotti sul collo.

O se uscisse ancora con Alex e Luigi.

Ma tanto comunque non le erano mai piaciuti.

«Tu non capisci, il rapporto con mia madre è complicato.»

«Complicato come?»

«Complicato che se almeno con mio padre litigo, con mamma manco parlo.»

Era stato Mattia a convincerlo ad andare a trovare sua madre.

Non sapeva nemmeno perché lo avesse fatto.

Forse, dentro di sè, sapeva che era la cosa giusta.

«A lei non interessa cosa faccio o se sto bene.»

«Magari ha vergogna di chiedertelo.»

«Ma sono suo figlio.»

«E lei è tua madre, e tu non vuoi andare da lei.»

«É diverso.»

Sua madre si voltò verso di lui, con la moka con cui gli aveva preparato il caffè ormai pulita.

La stava avvitando per poi riporla nel suo posto, nel mobile in alto a destra.

«Con il lavoro come va?»

Evitava di guardarlo.

«Certe volte, in situazioni sbagliate, ci comportiamo tutti male. Ma non sempre vuol dire che siamo cattive persone.»

«Va.»

Rispose.

Lui non voleva dire solo quello.

Avrebbe voluto dire di più.

Avrebbe voluto dire che i suoi datori di lavoro erano gentili e flessibili, che lui ci teneva a non deluderli e che non aveva mai sgarrato con gli orari.

Voleva dirle che era ben retribuito e che si sentiva apprezzato.

Voleva dirle che contemporaneamente però stava cercando anche un altro lavoro perché non voleva ridursi a fare pulizie per sempre, che aveva altre aspettative.

Voleva dirle che stava mettendo da parte i soldi.

Voleva dirle che un domani gli sarebbe piaciuto iscriversi all'Università e che il gruzzoletto che aveva messo da parte era vicino a fargli realizzare quel sogno.

Ma stette zitto.

E lei non domandò oltre.

Mise la moka al suo posto.

Ora il suo posto era nel mobile in alto a sinistra.

Chissá cosa c'era ora nel mobile a destra.

Forse c'era l'olio, adesso.

O forse la farina e le spezie.

Forse il sale.

Dopo qualche minuto, la proprietaria di casa smise di asciugare i piatti.

Perciò, con un po' di imbarazzo, si sedette di fronte a suo figlio.

La schiena scomposta e le braccia sul tavolo, ma non riuscì a toccare le mani del più giovane.

E Christian la guardò, con in mente così tante domande che la testa gli stava esplodendo.

Come poteva non aver voglia di toccarlo?

Come poteva non aver voglia di stringergli le mani, di accarezzargli le braccia, di pizzicargli il viso o di abbracciarlo?

Come poteva?

Ma era stato suo figlio per diciannove anni o no?

Lo aveva cresciuto lei quel bambino o no?

«Lei non mi ha mai davvero voluto.»

«Magari non ti ha mai voluto in quelle condizioni.»

«Come stai?»

Domandò, tutto d'un tratto, Christian.

E la mamma alzò gli occhi verso di lui.

Sembrava stanca.

Le borse sotto i suoi occhi erano diventate più violacee.

Le rughe sul suo viso si erano approfondite, la pelle era diventata più chiara.

Sulla faccia, teneva un'espressione indecifrabile.

Christian non riusciva a capirla, e forse non ci era mai davvero riuscito.

La donna abbassò di nuovo lo sguardo, tirando la schiena indietro, verso lo schienale della sedia.

«Come sempre.»

Rispose.

Eppure il suo "come sempre" al moro sembrava così triste.

Perché era vero.

Sua madre era così sempre.

Era sempre stata così.

Fatta eccezione per pochi ricordi, sua madre era sempre stata in quel modo.

Per tutto il periodo delle sue superiori, per tutta la sua terza media.

Persino all'esame di quattordici anni, quando Christian uscì con la lode.

«Devi capirla Chri.»

«Ma io ho solo diciannove anni, la capisco da tutta la vita e ora dovrebbe essere lei a-.»

«Hai diciannove anni e sei andato via da quella casa. Hai trovato nuovi sbocchi, nuove persone, sei giovane e puoi cambiare strada mille volte.»

Mattia gli aveva toccato la guancia, delicato.

«Forse hai ragione, forse lei davvero non ti vuole bene. Ma vuoi rimanere con questo dubbio per sempre?»

Christian corrugò la fronte.

«E che dovrei fare?»

«Farle vedere cos'hai imparato.»

E che aveva imparato Christian?

Che cosa aveva imparato Christian?

Che cosa poteva mai imparare in appena due anni fuori casa?

«Tu?»

Sussurrò la donna, mentre si passava una mano sull'avambraccio.

Gli sembrava che avesse addirittura perso peso dall'ultima volta che l'aveva vista.

«Sto bene.»

Rispose, poi distolse lo sguardo, portando una mano sotto al tavolo.

Iniziò a passarsi una mano sulla coscia dal nervosismo.

«Il lavoro va bene, i signori Zenzola sono simpatici.»

«Sì?»

Christian annuì.
«Hanno anche un figlio. Ci ho fatto amicizia.»

Guardò un altro angolo della stanza.

«Ha la tua età?»

«È due anni più piccolo, va ancora a scuola. Infatti-.»
Si schiarì la voce.
«Infatti a volte lo accompagno io.»

Si sentì un po' a disagio a raccontare quel dettaglio.

Non perchè potesse essere fraintendibile, ma perché non era richiesto.

Non era abituato a dire cose senza... senza che qualcuno glielo chiedesse esplicitamente.

Da piccolo quando parlava troppo, i suoi genitori ad una certa perdevano interesse.

Iniziò a picchiettarsi con l'indice il ginocchio.

La madre non seppe che rispondere.

E tutto cadde di nuovo nel silenzio più profondo.

Silenzio.

Silenzio.

Da piccolo era felice quando c'era, perché voleva dire che i suoi genitori non stavano litigando.

Certo, faceva un po' male quando vedeva che a volte era perché semplicemente si evitavano: se il padre aveva un giorno di festa, rimaneva sul divano a guardare la televisione, mentre la mamma andava nella camera da letto a riposare.

Ora invece faceva male.

Perché aveva visto che casa Zenzola era chiassosa.

Non si stava un attimo tranquilli in quella casa.

Il padre andava spesso a punzecchiare la moglie senza motivo, e poi la moglie cercava appoggio dal figlio, e poi il figlio prendeva in giro la madre e appoggiava il padre e poi viceversa.

C'era così tanto amore in quella casa.

Così tanto che ne avevano trovato abbastanza da donarlo pure a Christian.

A Christian.

«Quando... quando sono entrato in quella casa-.»

Iniziò a parlare, e la madre alzò di nuovo lo sguardo.

«-Mi stava simpatico solo il marito, sarebbe proprio quello che mi ha chiamato per assumermi. A lui sto molto simpatico, non so perché.»
Sorrise, abbassando la testa.
«Mi ha spesso invitato a rimanere da loro per mangiare o a prendermi un caffè.»

«Ti sei fatto voler bene.»

Christian annuì ancora.

«Sono... sono una bella famiglia.»
Sorrise.
«Sono molto calorosi. Sanno... sanno farsi voler bene anche loro.»

«Ti trovi bene, allora.»

«Direi di sì.»

Guardò la tazzina ormai vuota.

«Mangiano sempre insieme, quando è possibile.»

Sussurrò.

Quella frase fece abbassare immediatamente gli occhi all'altra.

«E... quando... quando sono insieme sembrano divertirsi molto.»

Si toccò il naso, passandosi l'indice sotto la punta, vicino alle narici, in un gesto nervoso.

«Sono una bella famiglia.»

Per qualche secondo ci fu il silenzio.

Quel silenzio che sembrava far parte di quella casa come le mura, come l'arredamento, come i mobili e come il soffitto.

Poi la madre annuì, metabolizzando il colpo.

Sorrise, chiudendo gli occhi.

«Sono felice che tu stia bene.»

Cortesia.

Una frase di cortesia.

Si parlavano come estranei.

Ma a Christian sembrava che no, non le facesse piacere.

E mentre la guardava, mentre la guardava deluso, triste, e quasi arrabbiato, la capiva.

Christian capiva sua madre.

Capiva i suoi sentimenti, e capiva che in quel momento, nel suo cuore, provasse invidia.

Invidia per qualcuno che è sinceramente felice con una delle cose più semplici del mondo.

Invidia per qualcuno che ha qualcosa che tu non hai.

La stessa invidia che lui aveva per Mattia all'inizio.

La stessa invidia che ti corrode dentro, da cui cerchi di scappare, che cerchi di evitare.

Lui invidiava Mattia perché non aveva dei genitori presenti.

Ma forse sua madre in quel momento invidiava un'altra famiglia perché suo figlio non era presente, e nemmeno suo marito lo era.

E Christian sapeva già di aver perdonato sua madre.

Per ogni volta che lo aveva fatto sentire un niente, per ogni volta che lo aveva fatto sentire come se non fosse mai stato degno d'amore sincero.

Gli sembrava di averla perdonata da sempre nel suo cuore.

Perchè in fondo era sua madre.

E forse era questo quello che aveva imparato, lontano da quella casa.

Che c'era un mondo.

Un mondo bellissimo ad aspettarlo.

Un mondo fatto di semplicità e piccole cose che rendono la vita migliore.

Che rendono la vita bella e degna di essere vissuta, pur con uno stipendio che non ti permette di viaggiare tutte le estati e pur con dei pensieri che martellano la testa.

E c'era un mondo in cui i soldi non c'entravano niente.

Un mondo in cui vale solo l'amore che dai.

Un mondo in cui più ti esponi e più indietro ti torneranno cose belle.

E quando capì che lui era scappato in cerca di quel mondo che aveva poi trovato, capì anche che pure sua madre era scappata.

Che pure sua madre aveva cercato, aveva scavato sotto terra e aveva guardato ogni angolo della sua vita, ma che non era stato in grado di trovarlo.

Sua madre non aveva trovato sbocchi per tutta la sua vita.

Respirava sott'acqua senza sapere che fuori di ossigeno ce n'era a quantitá industriale e che il sole è più caldo lì fuori.

Guardò la tavola.

Guardò un piccolo pezzo, di lato, sotto al tavolo, che aveva rotto quando era piccolo.

Era appena una scheggia.

«Non mi hai ancora chiesto perché sono venuto qui.»

Cacciò fuori.

«Sincero. Devi essere sincero.»

«E a che pro?»

«Le persone sono più sincere quando lo sei anche tu con loro.»

«Non conosci i miei genitori.»

«Conosco te. Quando dici la verità, diventi molto più... dolce, e gentile. E disponibile. Abbassi le barriere.»

La madre abbassò lo sguardo.

«Credevo fosse chiaro che dovessi iniziare tu a parlarne.»
Parlò bassa, con il tono di chi è semplicemente sincera, e non con chi vuol ferire.
«Sei stato tu a fare quello che hai fatto, no?»

Christian sorrise amaro.

«Io non voglio essere ferito di nuovo.»

«Non partire con l'ascia di guerra. Non tutte le parole cattive sono dette per ferire.»
Lo guardò.
«Alcune, a volte, vogliono solo attirare l'attenzione.»

«Già.»

Sussurrò.

Doveva calmarsi.

Respirò piano, cercando di non partire di quarta.

«Non l'ho fatto senza motivo.»

«E cioè?»

«Marco ha fatto una cosa che non doveva fare. Quel pugno se lo meritava, e se ne sarebbe meritato anche altri.»
Alzò lo sguardo verso di lei.

Anna lo guardò.

«Non è una giustificazione.»

Il moro fece uscire un piccolo sospiro con un sorriso.
«E un pugno è una giustificazione a quello che mi è stato detto da mio padre?»

La donna si irrigidì.

«Quello che ha detto tuo padre è stato sbagliato, ma è un insieme di cose che hai fatto negli anni a portarlo a-.»

«A che cosa? A sclerare, urlarmi contro, cacciarmi davanti a tutti?»
Fece una smorfia con l'occhio sinistro.
«Strano, credo che a non sapere cosa faccia un figlio salga la preoccupazione, non la rabbia.»

«Salgono entrambe se quel figlio-.»

«Se quel figlio si presenta con dei succhiotti sul collo?»

«È stato volgare ed è stato disgustoso, ma non è solo questo.»

«Volgare e disgustoso?»
Si mise a ridere.
«Manco mi fossi presentato nudo.»

«Si tratta di rispetto, Christian.»
Lo indicò.
«Ci manchi in continuazione di rispetto da quando te ne sei andato da questa casa, e quella con tuo cugino è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.»
Gli tenne l'indice puntato addosso.
«Ma tu ti rendi conto di quello che hai fatto, o no? Ti rendi conto che quello è tuo cugino, che hai fatto una sparata davanti a tutti, che-.»

«Io mi rendo conto del fatto che tu ancora mi devi chiedere perché l'ho fatto.»

Rispose, stanco di essere umiliato in quel modo.

«Marco ha fatto del male ad un mio amico, e io questo non-.»

«Gesù, Christian, è la vita! Ci sono mille persone che tratteranno male i tuoi amici e allora tu-.»

«No, lui gli ha fatto del male, l'ha fatto stare male per mesi, l'ha fatto smettere di mangiare e-.»

«Manco fosse una femmina questo!»
Alzò la voce, iniziando a sclerare.
«E quello secondo te non ha saputo difendersi da solo? Vedi che se la sono vista bene lui e Marco, e tu non devi fare il difensore di nessuno.»

Christian sentì il sangue ribollirgli nelle vene.

Femmina.

Una femmina.

Quindi se Mattia fosse stato donna sarebbe stato più giustificabile il suo gesto.

Se Marco avesse fatto venire voglia ad una donna di uccidersi sarebbe stato più assecondabile.

Strinse i pugni, mentre era sicuro che il viso si stesse facendo rosso dalla rabbia.

Ma che era venuto a fare lì?

Ma che diavolo era venuto a fare per chiarire?

Vaffanculo lei e quella mentalità di merda con cui era cresciuto.

Tirò indietro la sedia, alzandosi.

«Dove vai?»

«Me ne vado, mi sono rotto il cazzo.»

Anna si alzò insieme a lui, tenendo le mani contro la superficie del tavolo.

«Mi spieghi che problemi hai? Non ti si può dire nulla, io non riesco a capirti più!»

Christian tenne dentro le cattive parole che voleva rivolgerle, mentre controllava nella tasca di avere le chiavi della macchina.

Si avviò verso la porta, ma la donna lo afferrò per un braccio.

«Christian Dio santo mi spieghi che ti prende?! Ma sei o no il ragazzo che ho cresciuto?!»

Stefanelli rimase per qualche secondo in silenzio.

Poi rispose.

«Quello che è venuto qui, no, non è il ragazzo che hai cresciuto. Quello che se ne sta andando lo è.»

Si voltò verso di lei, poi alzò le sopracciglia ironico.

«A volte serve tornare qui dentro, mi capita di scordarmi perché odiavo stare in vostra compagnia.»

Cattivo.

Christian era diventato cattivo.

Ed era molto peggio di quando era arrabbiato.

Perché quando stava in silenzio, era solo per elaborare meglio il veleno che aveva in corpo, per studiare quali parole avrebbero fatto uscire più sangue.

E infatti, la donna lasciò lentamente la presa.

Lo guardò sopraffatta.

Quasi come si fosse resa conto per la prima volta che quello davanti a lei era suo figlio sì, ma ormai era indipendente da lei.

Ormai non abitavano più sotto lo stesso tetto.

Ormai non erano più una sola famiglia.

Ormai non aveva più controllo su di lui e la certezza che nonostante ogni litigata, lei avrebbe continuato a vederlo.

Christian era adulto ormai.

Fece un passo indietro.

«Io e tuo padre abbiamo fatto tanto per te.»

Il figlio cacciò una risata, voltandosi verso la porta.

Iniziò a massaggiarsi lo spazio fra le due sopracciglia, mentre cercava di contenersi.

«Abbiamo fatto tanto per tenerti su bene. Non credere che sia stato facile, per te abbiamo fatto i salti mortali.»
Glielo rinfacciò ancora.
«E scusaci se non eravamo nell'umore giusto per scherzare con te, scusaci se eravamo distrutti dai problemi che non ti abbiamo mai detto per proteggerti, scusaci se ci siamo fatti il culo per te!»

Manipolatrice del cazzo.

Christian si voltò verso di lei.

La guardava.

Non provava nemmeno rancore.

Era diventato solo uno scenario penoso.

Si mise le mani nella tasche dei pantaloni.

Era calmo.

«E tu scusami se ho provato ad avere una civile conversazione con te.»
Si giró verso di lei.
«Scusami se sono venuto qui nonostante non avessi mai risposto alle vostre chiamate, ma non me le avete mai fatte, quindi era difficile. E scusami davvero se sono sparito dopo questi due anni, ma se dopo tutto questo tempo, quando siamo insieme, c'è ancora silenzio, spero tu possa capire la mia scelta.»
Sorrise.
«E scusami davvero se non sai niente della mia vita, ma è difficile sapere se ti importa o meno quando di domande non me ne fai.»

«Sei tu che non mi parli.»

«Sei tu che non ti interessi.»
Alzò le sopracciglia.
«Io non parlo se non vengo ascoltato.»

Deja-vu.

La donna scosse la testa, in disapprovazione totale.

Iniziò a guardare altrove, a spostare lo sguardo in ogni angolo della casa, mentre si teneva ancora al tavolo, quasi non avesse le forze per reggersi da sola in piedi.

Si passò una mano sul viso, come se fosse stanca, esausta, distrutta.

Poi si voltò di nuovo verso di lui.

«Ma tu qui che ci sei venuto a fare?»

Una lama.

«Sei venuto a portare altri problemi? Era meglio che non venivi.»

Stesso sangue, stesso carattere.

Il silenzio e poi il colpo.

Christian tenne lo sguardo fisso nei suoi occhi.

Avevano gli stessi occhi, come potevano guardarsi in quel modo?

Tenne le pupille dirette nelle sue.

Non doveva mollare.

«Ero venuto qui perché sono una brava persona.»
Aggiunse.
«E sono un buon figlio.»

La mamma alzò le sopracciglia come se volesse dire altro, voltandosi dall'altra parte.

Christian non si lasciò abbattere.

No, quella volta i sensi di colpa non avrebbero avuto la meglio.

Lui sapeva chi era.

Lui sapeva chi era.

Lui l'aveva capito chi era.

«Volevo darti le spiegazioni che non meriti. Per levarti quel dubbio.»
Sorrise.
«No, tu non l'hai cresciuto un ragazzo violento. E nemmeno una sottospecie di tossico e nemmeno uno incapace di avere una vita stabile.»

Iniziò a giocare con le chiavi della macchina, in ansia.

«Credici o meno, non m'importa, ma quel che ho fatto a Marco è più che meritato. Qualche giorno fa è andato dai nonni, solo perché sapeva che mi avrebbe incontrato. E ha fatto di tutto per tirarmele dalle mani.»
La fissò.
«E gli ho dato quello che voleva.»

Anna si mise le mani sul viso, come se così potesse evitare di sentire quelle parole.

«Un'altra rissa, Christian?»

«Nonno ha cacciato di casa Marco, poi. Perfino Tommaso gli ha detto che aveva sforato il limite.»
La guardò.
«Nonno mi ha difeso più di quanto abbiate fatto voi.»

«Tuo nonno ha un debole per te e tu lo sai, smettila di-.»

«Sono sempre stato più legato ai nonni perché loro erano gli unici che mi hanno saputo educare riguardo quel che era giusto o sbagliato quando voi eravate occupati a urlarvi addosso.»
Li guardò.
«La distruzione di questa famiglia siete sempre e solo stati voi, non i problemi economici, non il lavoro, non nient'altro.»

«Io e tuo padre abbiamo dovuto superare cose che tu nemmeno immagini.»

«A me non importa, ma', come te lo devo dire?»
Le andò contro.
«Non siete stati in grado di crescere vostro figlio, e continuate a dargli delle colpe che non ha.»

«Se fosse solo colpa nostra, ora che te ne sei andato avresti dovuto migliorare, ma a quanto pare continui a lavorare per quella famiglia pulendo la merda che lasciano a casa loro, e poi- ti accontenti pulendo, facendo delle pulizie, ma dove credi di arrivare se continui con questa testa?!»
Lo indicò.
«Ma con che coraggio vieni qua, fai il vissuto, fai i paragoni, "quella famiglia di qua", "quella famiglia di là", ma sai che me ne importa?»
Prese a gesticolare.
«Se avessimo avuto la possibilità di chiamare un estraneo a farci pulire la casa stai sicuro che adesso mi vedresti vestita di marca, non con gli stessi vestiti di due anni fa.»
Si avvicinò.
«Guadagni due spicci, credi di esser già grande, credi di aver passato i peggiori momenti della tua vita, ma provaci tu a fare quello che noi abbiamo fatto con un figlio sulle spalle. Ma con quale coraggio, con quale faccia, ti permetti di lamentarti?!»
Continuò ad urlargli contro.
«Sei solo un ragazzino che crede di aver vissuto abbastanza per parlare, ma non hai fatto proprio niente da solo. E anzi, le poche cose che hai fatto da solo si vede come le hai fatte bene.»
Gli parlò, prendendolo in giro.

Christian sentì il petto vuoto.

Quell'umiliazione, quelle parole, quelle grida.

Le stesse di sempre.

Le stesse di quando era piccolo.

Le stesse di quando era bambino.

Le stesse parole che l'avevano sminuito così tanto da creder di essere un idiota, uno stupido, uno di quelli che non ha mai il diritto di parlare.

Guardò la casa.

Quel giorno.

Quel giorno in cui aveva tredici anni e si era affacciato alla porta della cucina, vedendo sua madre piangere.

Era stato zitto da quel momento in poi.

Incassando ogni colpo.

Giustificando sempre sua madre.

Dicendosi che lei soffriva, per questo faceva così.

Aveva lavorato.

Non voleva essere un peso, inizialmente.

Poi dopo, non voleva semplicemente essere a casa.

Aveva faticato tanto.

Era stato zitto pur quando voleva urlare.

Non aveva pianto pure quando stava morendo.

Aveva creduto di essere uno zero pur di dar ragione ai suoi genitori, pur di dirsi che loro sapevano di cosa parlavano, che non lo odiavano per il semplice fatto che era un peso econonico.

Aveva creduto per anni di essere una delusione.

Ma era stanco di crederlo.

Ed era stanco di fingere di esserlo.

Era stanco.

Era stanco di cercare amore pur dove sapeva che non l'avrebbe mai trovato.

Perciò trattenne il nodo alla gola che all'improvviso gli si era formato, e prese a guardare il tavolo.

Ricordò per un attimo come si sedevano, quando riuscivano a mangiare insieme.

Il padre a capotavola, e mamma e figlio uno di fronte all'altro.

Ricordava che quando la mamma aveva iniziato a stare male, aveva iniziato a mangiare di meno.

E ricordava che quando finiva il piatto, Christian era così felice che la mandava a sedere sul divano, e faceva lui i piatti.

Era sempre stato un bravo bambino.

Un bravo bambino senza alcun complimento.

Ma con una carezza sul viso, forse per ringraziarlo, forse per semplice educazione.

Christian alzò lo sguardo verso la mamma.

«Un giorno mi piacerebbe iscrivermi all'Universitá.»

Sussurrò.

«Volevo da sempre, per questo mi sono messo da parte i soldi, inizialmente. Poi ho preferito andarmene.»

Cacciò.

«Ho messo da parte i soldi. Credo che per settembre riesco.»
Tenne lo sguardo basso.
«Sono fidanzato. È una cosa seria e vorrei che andasse il meglio possibile. Sono innamorato, e mi sta aiutando tanto.»
Annuì.
«Alex e Luigi li frequento ancora. Vivono ancora insieme e sono dei buoni amici, sanno consigliarmi sempre le cose giuste quando mi serve un consiglio.»

Alzò lo sguardo verso di lei.

E non seppe perché, iniziò ad avere gli occhi lucidi.

«I-Io sto bene.»

Sussurrò.

«Non mi lamento. A volte ci sono degli alti e dei bassi, a volte vorrei prendere tutto e andarmene, però poi rimango. Rimango sempre, alla fine.»
Si strofinò una mano sul naso.
«Ho anche altri amici, e altre persone che mi vogliono bene. Esco tutti i sabati sera e tutte le domeniche, ma se devo lavorare poi torno prima. Non bevo se guido. E- con la macchina tutto apposto, mi piace ancora guidare e lo faccio quando mi sento un po' giù di morale. Ma non corro, comunque.»

Sbattè un paio di volte gli occhi, dato che la vista iniziava ad appannarsi.

«H-Ho ancora dei problemi con il sonno. Dormo poco e a volte non dormo proprio. A volte mi rotolo nel letto e vorrei avere qualcuno da chiamare. Però poi mi ricordo che delle persone da chiamare ce le ho, e non le chiamo lo stesso.»
Sorrise.
«Però è in generale tutto okay.»

Tirò su con il naso.

«Non so perché te lo sto dicendo.»

Sussurrò, sincero.

«Pensavo solo dovessi saperlo.»

Si voltò verso la porta.

«Io adesso vado.»

«Christian.»

Lo richiamò sua madre.

E quel tono gli era sembrato debole e fragile.

Come se quelle parole l'avessero ferita più di quando voleva ferirla intenzionalmente.

Il moro si voltò nella sua direzione.

Lei era aggrappata ad una sedia.

Lo guardava con le lacrime agli occhi.

Sembrava stanca.

Stanca di lottare.

Stanca di andare persino avanti.

«Dimmi la verità.»

Sussurrò.

«Cos'è successo con Marco?»

Fortsett å les

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