Non fui altrettanto fortunata, qualche ora dopo, al mio definitivo risveglio: l'altra metà del letto era vuota; e su quel vuoto passai la mano, come ad accertarmi di quel fatto, cercando ancora il calore lasciato da un corpo, forse per assicurarmi che qualcuno, lì, ci si era sdraiato davvero.
«Lea, sono qui.» E sì, quella voce che venne dalle mie spalle mi diede sollievo e no, non me ne vergognai: me ne preoccupai. Moltissimo.
Mi rotolai per vederlo, trascinandomi dietro le lenzuola morbide di quel verde orribile che sicuramente mi faceva apparire cianotica.
Trevor si piegò sulle ginocchia per avvicinare il suo volto al mio. Era già pronto, impeccabile, come una Ferrari appena uscita dalla concessionaria.
«Se ti prepari, scendiamo a fare colazione.»
«Al mattino bevo solo caffè.»
E se mai su quel volto, in nottata, era davvero passato un sorriso, in quel momento non ne restava più alcuna traccia.
«Non oggi, Lea.»
La sua ossessione per la mia nutrizione mi infastidiva?
Sì.
Mi alzai comunque per prepararmi?
Sì.
Attraversai la camera completamente nuda per raggiungere il bagno davanti a suoi occhi?
Sì.
Feci i capricci per scendere a fare colazione?
No.
***
«È troppa roba, Trevor.»
Cornetto, pancakes, yogurt greco, miele, frutta secca, cereali, crostata alle fragole (non di stagione), confetture varie, mirtilli freschi. Quella roba non riuscivo a contenerla nemmeno con gli occhi, figurati se l'avrei contenuta nel mio stomaco.
«Non devi finirla tutta.»
Vorrei vedere!
Per Trevor muffin salati, che io avevo escluso categoricamente.
Studiai le varie possibilità che non attendevano altro che una mia decisione, sul tavolo che sembrava imbandito per un Battesimo più che per la colazione.
Infine presi lo yogurt greco, ci versai dentro miele, mirtilli e frutta secca.
Trevor parve soddisfatto e tornò a concentrarsi sulla sua, di colazione.
Io gustai la mia, che risultò davvero azzeccata.
«Brava.»
Il suo giudizio non richiesto mi irritò. «Non mi serve il biscottino ogni volta che ti soddisfo, non sono il tuo cane.»
Appoggiò i gomiti sul tavolo, sporgendosi verso di me. Era sempre così dannatamente serio.
«Ma sarebbe interessante vederti gattonare fino ai miei piedi.»
Lo disse senza particolari inflessioni nel tono, ma la mascella serrata e quel breve guizzo negli occhi mi fecero comunque avvampare. Serrai le cosce, d'istinto, improvvisamente vogliosa di nuove attenzioni lì in mezzo.
«Siamo in un hotel di lusso, non fai che ripetermelo...»
E la sua espressione non cambiò nemmeno mentre rispondeva a quell'affermazione. « Già, la moquette è abbastanza morbida da non scorticarti le ginocchia; sei fortunata, bambina.»
Mi si contorsero le viscere. No, non per il disappunto.
«Trevor...»
«Tutti questi vecchi miliardari tediati dagli affari ti vedrebbero le mutandine nere spuntare dalla gonna di Jeans, Lea, mentre gattoni verso di me, davanti a loro.»
E fui abbastanza certa che la vampata di caldo avesse ormai raggiunto le guance, arrossandomi il viso e rivelando a Trevor quanto ogni sua parola mi facesse pulsare la vagina di un bisogno disperato. «Cazzo...»
«Non essere volgare, Lea, le signore non apprezzerebbero il tuo linguaggio, mentre i mariti ti accarezzano ogni parte del corpo con i loro sguardi bramosi.»
Afferrai il tovagliolo tra le mani, stritolandolo, per occupare le mani e impedire loro di scendere tra le gambe e fornire sollievo a quella parte di me che continuava a urlare la sua disperazione rilasciando fluidi cremosi. «Forse è meglio se la smetti, Trevor.»
Alzò le labbra da un lato, in quel suo mezzo sorriso che mandò definitivamente in tilt le mie terminazioni nervose.
«Perché? Che succede, bambina?»
Come si risponde a una domanda del genere in una situazione del genere?
«Succede che se mi alzo, Baker, le mutande nere me le sfilo qua davanti a tutti e gattono fino lì per slacciarti i pantaloni.»
Prese un respiro, ma il suo tono mantenne la sua staticità. «E questo dovrebbe fermarmi, Lea?»
«Sì, perché hai prenotato la suite a nome tuo e non credo tu voglia dare spettacolo in pubblico, Trevor.»
Si passò il pollice sulle labbra: pareva incredibilmente a suo agio, eppure, se avessi dovuto scommettere, avrei detto che anche lui stava gestendo qualche disagio tra le gambe.
«Pensaci, Lea. Tu daresti spettacolo in pubblico? Perché conosco più di un posto in cui potremmo fare questo e altro. Ma una volta che sei dentro, è meglio non cambiare idea: i gestori non ammettono curiosi, ma solo attivi partecipanti.»
E io, che quelle frasi le avevo dette solo per provocarlo e tenergli testa, mi ritrovai nella condizione di prendere in considerazione quella proposta che nulla aveva a che fare con il motivo che ci aveva portati fino lì: El Diablo.
A salvarmi, in corner, fu l'arrivo di Andrey, che si avvicinò al nostro tavolo silenzioso come un ninja nonostante la stazza da T-Rex.
«Capo.»
Trevor parve leggermente infastidito dall'interruzione, ma inghiottì il suo lampo di stizza in meno di un attimo.
«Dimmi.»
«L'affare è concluso. Hanno firmato stamattina davanti al tuo legale e al notaio.»
Non provai nulla di nuovo a quella rivelazione: che quella fosse una partita persa senza che io nemmeno vi avessi effettivamente partecipato, lo avevo già capito al Demons. Mi stupii solo della velocità tutt'altro che italiana con cui Trevor concluse anche l'aspetto burocratico. Dedussi che lo studio notarile avesse ricevuto i soci in affari di Baker fuori orario, se non addirittura all'alba.
Incassò la notizia con un cenno della testa e liberò Andrey con un gesto sbrigativo. Quando tornò a guardarmi pareva rilassato. Io stavo ancora desiderando di strapparmi le mutande.
«Andiamo in centro, bambina. Poi ti porto a casa. Tu hai intenzione di restare conciata così per tutto il tempo?»
«Assolutamente sì.»
E non desistetti. Una canottiera fuxia, gonna di jeans, sneaker Puma in tinta con la canottiera e capelli legati: più che appariscente, ero fosforescente. Soprattutto accanto a Trevor, elegante anche dentro il suo completo casual di lino e la sua camicia blu di ottima sartoria. Forse sembravamo mal assemblati, agli occhi degli altri. Ma nessuno poteva comprendere quanto fossimo davvero mal assemblati.
***
Poteva sembrare mia figlia, probabilmente, perché dimostrava dieci cazzo di anni in meno, quella mattina, il ché portava a pensare che fosse minorenne o quasi.
Ma era bella, così piena di colori, anche se quel fuxia non c'entrava proprio niente con la sua pelle chiara, con i suoi capelli ramati e i suoi occhi verdi. Ma Lea poteva infilarsi dentro qualunque cosa. E qualunque cosa avrebbe desiderato infilarsi dentro di lei.
Ma mi ci ero infilato io, quella notte, dentro di lei, e non un numero soddisfacente di volte, perché l'avrei tenuta sveglia per invaderla in così tanti modi che alla fine non avrebbe più capito da che parte girarsi per tirarsi in piedi.
Ma mi era piaciuto anche sentire il suo respiro sul mio petto mentre dormiva, abbandonata su di me come se potesse fidarsi, anche se non era vero. Non avrebbe dovuto fidarsi, perché con me era al sicuro ma io non ci potevo restare, con lei. E da Londra, da lì a un mese, avrei potuto fare poco, non abbastanza, per evitare che qualche russo, o magari qualche canadese, si fiondasse a casa sua a strapparle qualcosa che non aveva più, in modi che io non solo conoscevo ma che in parte avevo anche ideato. E per questo era importante che non mi nascondesse nulla: perché qualcuno, prima o poi, l'avrebbe trovato, quel qualcosa. E quindi dovevo trovare tutto io, e in fretta, prima di tornare a Londra. E il primo da cui avrei dovuto proteggerla, era mio padre. Se c'era un figlio di puttana che non doveva mettere le mani addosso a una come Lea, era mio padre.
«Lo voglio. Entro. Posso entrare? Entro lo stesso. Lo voglio.» Una mitragliata di frasi e parole sconnesse che ricordo ancora benissimo perché alimentate da un entusiasmo assolutamente incomprensibile. L'origine di tanta vivacità era un pigiama da ventidue euro e novantanove centesimi, di un cotone che pareva troppo sottile anche attraverso la vetrina.
«Non ci vedo proprio niente di speciale» commentai, osservando il manichino in cerca di una motivazione plausibile al suo desiderio di avere quel completo di cotone.
«A me piace. Un pigiama con Crudelia dovrebbe stare negli armadi di qualunque donna, Trevor. Lo voglio. E poi è nero e fuxia, come me oggi, è chiaramente un segno del destino.»
« "Who needs a boyfriend when you have puppies?" » recitai leggendo lo slogan accanto al personaggio stampato.
«Grande verità» concluse lei, battendo le mani in uno schiocco croccante.
«Tu non hai un cucciolo.»
«Neanche un fidanzato. Io ho Denis, che racchiude il meglio di entrambi senza cagarmi sul tappeto.»
Rievocare il nome del frocetto mi infastidiva. Lea parlava di lui come se davvero potesse farle da principe azzurro, portarla in salvo, difenderla, donarle un regno o salvarla da una maledizione con un bacio. E non è che l'avergli incrinato un paio di costole avesse incrinato anche la fiducia nei suoi confronti, cazzo. No. Lei ancora credeva in lui.
«Quando troverà un altro stronzo omosessuale in cui infilare l'uccello vorrai un cucciolo o un fidanzato anche tu.»
Mi guardò corrucciata.
«Denis si innamorerà di un uomo come lui, Trevor Baker. E a quel punto avrò due Denis al prezzo di uno. Nessun cucciolo mi cacherà sul tappeto.»
Che bel broncio, che aveva. Restare impassibili senza fiondarci l'uccello dentro non era cosa semplice.
«Non consideri proprio l'opzione di un fidanzato, Lea Gessi.»
Tornò a guardare la vetrina.
«Entro e lo compro.»
E ne uscì soddisfatta, con la sua sportina nera di carta e un sorriso da infarto. Avrei potuto comprarle il pigiama, tutti i pigiami, il negozio e pure quello di fianco. Ma si sarebbe offesa, avrei gettato un'ombra su quell'acquisto gioioso. E alla fine mi ritrovai a pensare che mi sarebbe piaciuto infrangere anche quel sorriso per infilarci dentro il cazzo. Stavo degenerando? No. Tutto nella norma. Sia per me che per lei. Credo.
Mi mostrò la sportina come se fosse un gioiello della corona. E la vidi, la vidi bene, cristallina, senza patine lucide né opache né oscure a sbiadirne i contorni: era la bambina, quella vera, quella che Lea aveva rinchiuso da qualche parte, chissà quando, per difenderla da chissà cosa o, più probabile, da chissà chi. Era ancora lì, genuina, fioduciosa, in cerca di farfalle da inseguire.
Ma a inseguire farfalle ci si ritrova sotto un camion, piccola Lea. Hai rischiato? Hai sentito il camion fendere l'aria e passarti a meno di un palmo dal naso? È stato lui? Come l'hai chiamato? "Quello prima di te", così l'hai chiamato. Lo guidava lui, il fottuto camion, mentre tu inseguivi farfalle? E forse, forse non ti ha solo sfiorata, ma nemmeno investita. Forse ti ci ha fatta salire, sul suo camion di merda. E hai smesso di inseguire farfalle, perché sul camion non ce ne sono. E però da lì dentro non puoi nemmeno essere investita, ed è così che ti ha fatta salire. È così che ti ha fatta sentire al sicuro. E quando hai visto cosa succede nel retro del camion, hai capito che non si è al sicuro mai. Né sulla strada, né sul camion. Ti capisco, piccola Lea. So cosa significa. Abbiamo fatto scelte divergenti, ma ti capisco.
«Preso!» sentenziò Lea. No, non Lea. La bambina. Quella vera.
«Hai fatto bene.»
Mi guardò tra lo stupore e il diffidente. «Hai detto che non è niente di speciale...»
«No, avevo detto che non ci vedevo niente di speciale. Ma mi sbagliavo. Adesso vedo meglio.»
Lentamente, abbassò il suo tesoro, distendendo il braccio lungo i fianchi stretti, che non vedevo l'ora di stringere di nuovo tra le mani per fare di lei tutto quello che volevo.
Tornò a rinchiudere la bambina da qualche parte e liberò l'adulta, quella ferita, ma combattiva. Mi piacevano entrambe.
«Allora la prossima volta guarda meglio, Trevor Baker. Certe valutazioni sbagliate portano a errori irrimediabili.»
La presi per mano. «È ora di tornare a casa. Andrey ci aspetta.»
«Mi serve una calamita.»
«Una calamita?»
«Per il frigo. La collezione di calamite.»
Aggrottai la fronte, che cazzo stava dicendo?
«Tu non hai nessuna calamita sul frigo.»
«Non io. Denis.»
Sbuffai. Quel frocetto del cazzo spuntava troppo spesso nel corso delle mie giornate. Ma Lea mise il broncio e quando Lea mette il broncio non le può resistere nessuno. No, nemmeno io.
SPAZIO AUTRICE
La Lea bambina mi ha preso il cuore, forse anche quello di Trevor.
Si torna a casa, in quello sputo di città che non si sa bene dove sia, nascosto tra le nebbie padane.
So che vi sembra corto (a me è sembrato cortissimo), ma sono 2000 parole e visto la fruizione da cellulare non volevo farlo troppo lungo.
SPECIAL GUEST STAR DEL CAPITOLO:
Immagini rimosse