La Fantasma ~E l'articolo NON...

By Yuwy_ghost

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🏆STORIA VINCITRICE DEL PREMIO WATTYS 2023 MIGLIORI PERSONAGGI🏆 Vi siete mai imbattuti in una situazione imb... More

✨Riconoscimenti✨
Intervista dedicata
Informazioni utili (o forse no)
~Parte prima~
Prologo
Uno
Due
Tre
Quattro
Cinque
Sei
Sette
Otto
Nove
Dieci
Undici
Dodici
Tredici
Quattordici
Quindici
Sedici
Diciassette
Diciotto
Diciannove
~Parte seconda~
Venti
Ventuno
Ventidue
Ventiquattro
Venticinque
Ventisei
Ventisette
Ventotto
Ventinove
Trenta
Epilogo

Ventitré

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By Yuwy_ghost

Seduta sulla sedia di una sala d'attesa che puzza di alcool e disinfettante, conto quanti infermieri possiedono il camice bianco e quanti invece quello blu/verdino. Non sto nemmendo più piangendo, ho finito tutte le lacrime che avevo da versare, ora nel mio cuore c'è solo un ammasso di fuliggine e confusione.

Avevo letto su un libro che il lutto è caratterizzato da cinque fasi fondamentali:

-Rifiuto;

-Rabbia;

-Patteggiamento;

-Depressione;

-Accettazione.

In questo momento non ho idea in quale di queste mi trovi, forse tra il patteggiamento e la depressione. Anzi, non so neanche se considerare tutto questo un lutto, Charlie non è morto... Ma... Potrebbe sempre esserlo. Chi mi può assicurare che un medico non verrà da noi a darci la notizia del decesso di Charlie Gray? Nessuno, nessuno potrà garantirmelo. La vita del mio dolce Charie è appesa a un filo invisibile, che non si sa se reggerà, se ha già smesso di reggere oppure se sta già reggendo. Non so nulla, sono ignorante. Non so se mai rivedrò quel sorriso, non so se berrò ancora un tè con lui, non so se riceverò ancora un abbraccio, una carezza o un bacio, e non so se l'ultima cosa che rimarrà di quel ragazzo sarà una lapide.

Sposto lo sguardo sui genitori di Charlie, entrambi disperati. Victor sta cercando di consolare Amanda che non smette di stillare lacrime nemmeno per un istante. Continua a mormorare frasi incomprensibili, simili ai capricci che di solito fanno i bambini piccoli. Riesco solo a capire una cosa di quello che dice, ed è una frase, che ripete all'infinito, tra singhiozzi e lacrime:

«È colpa nostra, Victor, è colpa nostra».

So di cosa sta parlando, anche perché concordo pienamente con lei: se Charlie è in questa situazione, la colpa è anche loro.

Il padre di Charlie, Victor, mi ha raccontato vagamente ciò che è successo non appena sono corsa qui in ospedale, sudata e fra mille agonie.

Charlie aveva cercato di parlare con loro quella stessa mattina, nel momento esatto in cui stavano disfando le valigie, di ritorno dal viaggio a Shangai. Si era praticamente sfogato, raccontando tutto il dolore che provava quando rimaneva a casa da solo per settimane fin da quando era piccolo, dei compleanni che avevano dimenticato e dei Natali che aveva passato a casa di altri parenti, senza di loro. Charlie aveva cercato di farsi valere, anche con i suoi genitori, di fare sentire la sua voce e di chiarire tutto lo schifo che si portava dietro fin da bambino. Ma non gli avevano dato ascolto, o almeno, lo avevano ascoltato in modo distratto come al solito, nel mentre preparavano i biglietti per il prossimo viaggio di lavoro.

«Ha iniziato a urlare» mi aveva detto Victor, e nel mentre lo diceva riuscivo a intravedere i brividi che scuotevano il suo corpo. «Si è arrabbiato, urlandoci addosso di tutto e di più. Non l'avevamo mai visto così e ci siamo davvero spaventati. Amanda ha cercato di calmarlo, ma niente, gridava di stargli lontano e di non toccarlo, perché non meritavamo nemmeno la sua materia. Poi è uscito di casa stizzito, ma abbiamo deciso di non seguirlo per lasciargli i suoi spazi, per farlo riflettere. Solo che... Ci siamo accorti solo dopo alcune ore che mancava la macchina».

Già, Charlie aveva deciso di rubare la macchina dei suoi genitori per scappare e andarsene a zonzo per la città. Non se l'era cavata male per le prime ore, aveva guidato con destrezza, rispettando tutti i segnali. Ma aveva sempre diciassette anni e l'inesperienza gli aveva giocato un brutto scherzo. A un incrocio si era dimenticato di controllare se passassero altre macchine, attraversandolo con tranquillità, ma la sfortuna volle che in quel momento passasse un piccolo camioncino a tutta velocità, che lo aveva travolto ribaltando la macchina e disarcionandolo fuori dalla strada.

Mi metto le mani nei capelli, ripensare a tutto il racconto mi fa venire l'improvvisa voglia di accasciarmi a terra e iniziare a urlare come una pazza. Ma rimango rigida, ferma su quella maledetta sedia che mi ospita da più di tre ore, circa anche il tempo in cui Charlie è sotto ai ferri.

Eddie mi ha mandato alcuni messaggi, in cui mi chiede di tenerlo aggiornato. È lui che mi ha portato fino qui, subito dopo aver pianto e gridato fra le sue braccia a casa nostra.

Decido di non leggerli, sia per pigrizia, sia per il dolore che mi attanaglia.

A un certo punto un tizio sbucato dal nulla si avvicina a noi con un'aria indecifrabile. Indossa dei vestiti differenti, nulla a che vedere con i sedici infermieri con il camice bianco che ho contato oppure i ventisei con il camice blu/verdino. Non ci sono dubbi, è un medico.

«Siete voi i Signori Gray?» domanda, avanzando verso di loro.

Amanda e Victor annuiscono velocemente, alzandosi dai propri posti. Con uno scatto mi alzo anch'io, raggiungendoli. So di avere un'aria da serial killer, ma poco mi importa.

«Il ragazzo sta bene, abbiamo finito l'operazione».

Il mio cuore si scioglie di sollievo. È salvo, il ragazzo che amo non è morto e non mi ha abbandonato. Torno a guardare il dottore, notando che la sua espressione si è fatta più cupa.

«Tuttavia...» fa un piccolo sospiro «era davvero messo male e abbiamo cercato in tutti i modi di aggiustare le ossa rotte ed evitare che queste perforassero gli organi interni. In parte ci siamo riusciti, ma purtroppo un pezzo della sua gamba destra era messo davvero troppo male e... Abbiamo dovuto amputarglielo, mi dispiace».

Mi reggo al muro, sconvolta. Non riesco più ad analizzare nemmeno le espressioni e le azioni di chi mi sta attorno. Amputato, tagliato, privo. Tutte queste parole non fanno che girarmi vorticosamente nella testa.

Charlie è vivo, sta bene, ma non ha più un pezzo di gamba, non ha più un pezzo di corpo.

Respiro a fatica, sento gli occhi pizzicarmi ancora e alcune lacrime sfuggirmi da essi. Corro via e mi rintano in uno dei bagni, dove rigetto qualcosa per la nausea che mi ha causato la disperazione dovuta a questo duro colpo.

Rimango accasciata a terra per qualche istante, poi torno in sala d'attesa. Il medico sta ancora parlando con Amanda e Victor, stavolta entrambi in lacrime.

Mi avvicino e l'unica cosa che sento prima di seguire Amanda e Victor verso la stanza di Charlie, è che starà in coma farmacologico per qualche giorno.

L'aria è diventata irrespirabile, tra il dolore che ha bloccato ogni organo del mio corpo, polmoni compresi, e l'insopportabile puzza di disinfettante, sento di star per avere una carenza di ossigeno. Non so come faccio a stare ancora in piedi, come fanno le mie gambe a camminare e sostenere il mio peso.

Raggiungo a stento la camera centouno e mi fermo sull'uscio, sforzandomi di non cadere a terra di faccia.

Eccolo lì: il mio Charlie, in un letto di ospedale, attaccato a un respiratore che lo tiene in vita. Dal suo corpo inerme spuntano tubicini di ogni dimensione e il silenzio è interrotto solamente dagli incessanti bip dell'elettrocardiogramma che monitora il suo cuore.

Raccolgo tutto il coraggio che ho e mi avvicino al letto, fino a quando non gli sono accanto. Gli prendo la mano e intreccio le mie dita alle sue, come eravamo soliti a fare nei momenti di affetto. Ma questa volta Charlie non mi stringe la mano e le sue dita rimangono distese e molli, prive di vita. È freddo, freddo e pallido, ha perso tutto il suo calore, tutta la sua felicità, tutto ciò che lo rendeva Charlie Gray.

Mi pare talmente tanto diverso che per un istante penso quasi di aver sbagliato stanza, di star toccando la persona sbagliata e che Charlie in quel momento si trovi a casa, sereno, con quel suo solito sorriso stampato sulla faccia.

Smetto di guardare il suo volto, nascosto in gran parte dalla maschera del respiratore posata sulla bocca e sul naso, e dirigo il mio sguardo verso i piedi del letto.

Sulle prime guardo il vuoto, completamente persa nelle mie sciocche considerazioni personali, poi inizio a mettere a fuoco ciò che realmente è davanti ai miei occhi: dalle coperte riesco a scorgere la sagoma di un pezzo del suo busto, del bacino, delle cosce e... Di una gamba, quella sinistra. Basta, solo quella. Della destra non ce n'è traccia, le coperte sono piatte dal ginocchio in giù, segno che al di sotto di esse non ci sia nulla.

Amputato. Questa parola inizia a girarmi vorticosamente nella testa, di più, sempre di più.

Sento gli occhi pizzicare. Scoppio di nuovo a piangere.

***

A fatica mi alzo dal letto e controllo pigramente l'orario, sono le tre spaccate del pomeriggio, l'ora in cui di solito vado da Charlie.

Sono passati tre giorni dall'incidente e sono anche tre giorni che non vado a scuola. Dopo ciò che è successo, da quando i miei genitori sono venuti a prendermi in ospedale amareggiati e tristi, mia madre ha deciso di lasciarmi a casa da scuola per qualche giorno.

«Almeno ti riposerai un po'» aveva detto «sarai senz'altro stanca».

Già, ottima balla. La verità era che le avevo fatto pena. Dopo avermi visto in lacrime, distrutta e con il cuore a pezzi, le era sembrato disumano farmi andare a scuola, decidendo di lasciarmi a casa per aiutarmi a elaborare la questione e recuperare un po' di forze. Sono brava a leggere le persone, persino una donna rigida come mia madre. Ho capito che dietro a tutti quegli sguardi abbattuti con i quali mi guardava, si nascondeva tanta compassione, così come gli abbracci che mi aveva dato all'inizio per cercare di staccarmi da quel letto di ospedale che non volevo abbandonare.

Scendo al piano di sotto e indosso scarpe e giacca, poi sistemo la mia tote bag sulla spalla e mi incammino fuori.

Ho con me un numero immenso di fazzoletti, in caso mi venisse improvvisamente da piangere, un libro, per passare il tempo, e qualche snack se dovesse venirmi fame.

Sono pronta per affrontare nuovamente tre ore in ospedale, in quella stanza bianca e troppo illuminata artificialmente.

Cammino a passo veloce e ritmato, gli occhi fissi sulle mie scarpe, mani in tasca e cuffie sulla testa, che mi conducono verso la tristezza sulle note di "Washing machine heart".

Il grande edificio grigiastro si staglia imponente davanti a me, come il ciclope Polifemo davanti a Odisseo.

Incanalo molta aria nei polmoni e la butto fuori, per calmare il cuore pesante quando un mattone che sta scivolando lentamente verso il basso. Osservo la nuvoletta formatasi dal mio respiro volteggiare nell'aria gelida, simile a una ballerina con il tutù bianco.

Ora sono davanti all'ingresso, molte persone stanno entrando e molte uscendo, chi con fogli di esami in mano e chi invece con le braccia conserte. Tutte però hanno una cosa in comune: l'espressione. È seria, cupa, come se quel posto avesse risucchiato a loro ogni forza immaginabile. Forse sarà davvero così, a me stessa è capitato di perdere la gioia in quel luogo.

Entro e a memoria mi faccio largo tra i corridori gremiti di pazienti, parenti, infermieri e medici, fino alla stanza centouno.

Mi avvicino alla poltrona e appoggio le mie cose, lo sguardo sempre basso e il cuore sempre pesante.

Alzo lo sguardo su Charlie, ancora profondamente addormentato. Noto che gli hanno levato il respiratore e il suo corpo é avvolto da meno tubi. Ma i suoi occhi rimangono chiusi e il suo volto pallido.

Mi inginocchio sul pavimento e appoggio la testa sul materasso. Sono persa in un mondo sconosciuto, nonostante stia camminando sul suolo di uno che conosco fin troppo bene.

Non saprei spiegarlo, ma é da tanto che non mi sento più partecipe di ciò che comunemente chiamiamo "vita" o "comunità" o "popolazione". Mi sento entranea a tutto, non so più fare niente, sono diventata vittima di un susseguirsi di azioni senza alcun valore. Sono come... Una marionetta. Una marionetta manipolata dal caos interiore che mi porto dietro.

Gli antichi credevano che tutto si fosse originato dal caos, ma non credo di concordare pienamente con loro: se il caos è distruzione allora perché dovrebbe creare? Non ha senso come ragionamento perché entrambi sembrano l'uno l'opposto dell'altro.

Una strana sensazione mi porta di nuovo nella realtà, o almeno, nell'unico pezzo di realtà che riesco a percepire. È un tocco, un leggero tocco, mi sta... Accarezzando i capelli? Apro gli occhi di colpo schiava di una consapevolezza.

Guardo Charlie e, per la prima volta dopo giorni fatti di speranze e solitudine, il mio sguardo viene ricambiato. È sveglio e mi sta osservando, in silenzio. I suoi occhi sono contornati da una forte stanchezza e sono spenti, molto spenti, non hanno nulla a che fare con quei pozzi di ghiaccio che mi tenevano prigioniera tutte le volte che li guardavo.

Rimango paralizzata per qualche istante per la sorpresa, poi il mio corpo si alza automaticamente e gli getto le braccia al collo, prendendo a singhiozzare. Gli accarezzo i capelli e lo stringo forte, curandomi però di non fargli male.

Il contatto con lui, con la sua pelle, la sua sostanza, mi rende lentamente più partecipe della vita e il mio vecchio mondo riesce a colorarsi ancora con qualche colore caldo.

«Ho fatto una cazzata» lo sussurra, con voce amareggiata «mi dispiace»

«Non importa» singhiozzo «non me ne frega più un cazzo, voglio stare solo con te...».

Appoggia la testa sulla mia spalla, cercando di abbracciarmi nonostante il gesso che lo blocca.

«No, piano» mi stacco da lui e lo costringo a coricarsi ancora «così ti farai solo del male»

«Non mi importa, voglio solo abbracciarti» piange, le lacrime gli rigano il viso come gocce di pioggia su un vetro.

Non ho mai visto Charlie piangere, mai. Nemmeno quando è stato picchiato da Eddie, nemmeno quella volta sul tetto. È sempre rimasto forte, senza versare nemmeno una lacrima. Invece adesso è così debole... Si è fatto piccolo, fragile e bisognoso di affetto.

Sospiro e gli do un bacio sulla fronte.

«A me sì invece, a me importa che tu stia bene».

Gli asciugo alcune lacrime con la manica della felpa, ma presto delle nuove inondano ancora il suo viso.

«Ho perso il controllo... Ho detto tutto quello che mi passava nella testa e... Se lo meritavano, per tutto quello che mi hanno fatto. Ma poi ho preso la macchina, forse per punirli, che ne so... Ma è arrivato il buio e... E...».

Gli tappo la bocca con delicatezza, sentendo tutto il peso del suo dolore gravare sulla mia mano.

«Charlie...» dico il suo nome come un lamento «basta... Ora stai bene, sei qui con me». Più che altro lo sto dicendo a me stessa, per convincermi ancora di più di non stare sognando.

Stringo il suo viso fra le mani e gli accarezzo i piccoli riccioli di capelli castani che gli ricadono sulla fronte, mentre cerco di controllare il mio respiro e le lacrime.

Ho sentito dire che due persone legate da un forte sentimento affettivo, spesso e volentieri condividono lo stesso legame emotivo, quindi c'è la possibilità che se io smettessi di piangere, forse anche Charlie lo farebbe.

Mi impegno, cerco di mantenere la calma, ma non appena Charlie si strappa le coperte di dosso, mostrandomi per la prima volta la gamba bendata e priva di un pezzo, vengo colpita nuovamente dal dolore, accasciandomi sul materasso.

«La mia gamba» singhiozza «l'ho scoperto questa mattina quando mi sono svegliato... Ma la cosa buffa è che me la sento, io sento ancora la mia gamba. Riesco a muovere la caviglia e le dita dei piedi, perché il mio corpo continua a riconoscerla, ma lei non c'è... C'è solo il vuoto». Si mette le mani sul viso, affondando le unghie nella sua fronte. «Come fai ad amarmi ancora?».

A quella domanda mi blocco, persino le lacrime smettono per un secondo di scivolare sulle mie guance. Lo guardo, esterrefatta.

«Tu credi che smetterò di amarti solo perché non possiedi più un pezzo di gamba?» la mia domanda risuona un po' come una minaccia, ma non me ne curo più di tanto, continuo a fissarlo, quasi paralizzata.

«No, non solo per questo» tira su con il naso, gli occhi gonfi e rossi di pianto «ho fatto una cazzata, ti ho fatto preoccupare e soffrire notevolmente, tutto perché i miei genitori mi avevano ignorato per l'ennesima volta. Cristo, avrei dovuto mandare giù ancora il boccone e farmi scivolare addosso quella situazione, così come ho fatto tutte le altre volte in cui mi hanno ignorato e abbandonato. E invece eccomi qui! A far soffrire la persona che amo, quando di problemi nella sua vita ne ha avuti già abbastanza! Sono un egoista, un egoista bastardo che pensa solo a sè stess...».

Mi sporgo fulminea verso di lui e prima che possa finire quella sciocca frase gli poso un bacio sulle labbra.

«Adesso apri bene le orecchie, Gray» la mia voce è ridotta a un sussurro e il mio viso è ancora a meno di un centimetro dal suo «se vuoi farti odiare da me dovrai fare semplicemente una cosa: uccidermi. Ma finché non lo farai, io continuerò ad amarti, che tu dia fuoco a casa mia, rapisca il mio prezioso diario oppure bevi novecento té alla pesca davanti ai miei occhi, denigrando quello verde. Sono stata abbastanza chiara?»

«Il té verde fa schifo...»

«Lo prendo per un sì».

Sul suo viso compare un leggerissimo sorriso, che va ad espandersi non appena lo abbraccio con affetto. Ora lo riconosco, ora sta iniziando a diventare il vero Charlie Gray, il ragazzo con le scarpe rosse che ha imbrogliato la mia scopofobia entrando nel mio cuore e rimanendoci incastrato.

«Non ti lascerò affrontare tutto questo da solo, mai e poi mai».

Non dice nulla, ma annuisce convinto, asciugandosi le ultime lacrime con il fazzoletto che gli offro.

«Vuoi che vada a prenderti un tè alla pesca qui sotto al bar?».

Sorride un poco. «Volentieri».

Ricambio il sorriso. «Te ne prenderò una fabbrica intera».

Non si trattiene, scoppia a ridere, acquistando di nuovo tutta la sua calda e vivace personalità «Ci conto».

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