La Fantasma ~E l'articolo NON...

By Yuwy_ghost

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🏆STORIA VINCITRICE DEL PREMIO WATTYS 2023 MIGLIORI PERSONAGGI🏆 Vi siete mai imbattuti in una situazione imb... More

✨Riconoscimenti✨
Intervista dedicata
Informazioni utili (o forse no)
~Parte prima~
Prologo
Uno
Due
Tre
Quattro
Cinque
Sette
Otto
Nove
Dieci
Undici
Dodici
Tredici
Quattordici
Quindici
Sedici
Diciassette
Diciotto
Diciannove
~Parte seconda~
Venti
Ventuno
Ventidue
Ventitré
Ventiquattro
Venticinque
Ventisei
Ventisette
Ventotto
Ventinove
Trenta
Epilogo

Sei

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By Yuwy_ghost

Prima o poi arriva, come tutte le settimane: l'ora di ginnastica, o educazione motoria, se vogliamo fare i fighi.

Io la chiamo e la chiamerò per sempre: "L'ora delle discriminazioni e delle torture".

Sì, proprio così, perché oltre ad essere una tortura dover fare dieci giri di corsa, seguendo il perimetro del campo da basket, é l'ora per eccezione nella quale puoi notare le differenze nei corpi delle persone, nel livello di bravura di ogni studente e nell'attenzione che si presta a eseguire un esercizio.

Nella mia classe ci sono persone molto brave, che eseguono esercizi complessi con estrema facilità, cuccandosi di conseguenza sfavillanti dieci in pagella. Io, purtroppo, non sono fra questi.

Non saprei se definire questa mia incapacità nelle attività motorie come una sfiga oppure no: da una parte devo sudare come un lottatore di sumo per arrivare a un sei striminzito, ma dall'altra non é che me ne freghi più di tanto di questa materia, reputata inutile dalla maggior parte degli studenti di questo istituto. Ma ahimè le ore di ginnastica sono obbligatorie, e io farei di tutto pur di esonerarmi da queste, compreso lanciarmi di faccia dal quinto piano di un palazzo o farmi la ceretta all'inguine.

«Vogliamo muoverci? Oppure volete passare tutto il tempo chiuse dentro quello spogliatoio?» la voce burbera del professore di ginnastica si fa sentire, mentre le mie compagne si sbrigano a spruzzarsi il deodorante, infilarsi i pantaloncini e schiappettare fino in palestra sulle loro lunghe gambe atletiche.

Rimango immobile sulla panca dello spogliatoio, fisso i miei piedi calzanti le scarpe da ginnastica nere e bianche della Nike, poi mi alzo e mi do un'occhiata allo specchio: capelli corvini legati in una coda alta, leggins leggeri, maglietta bianca semplicissima e faccia di una che sta, probabilmente, pensando al modo più rapido e indolore per farsi fuori. Sospiro e decido di uscire dallo spogliatoio. La luce accecante della palestra mi investe e brucia i miei occhi come fogli di giornali.

Arrivo al centro del campo e rimango lontana dai miei compagni, in attesa di spiegazioni del prof.

«Cominciamo con otto giri di corsa del campo, via!».

I miei compagni partono a raffica, solo alcune sono lente. Ci impiego un po' a convincere le mie gambe a muoversi, poi inizio a correre, cercando di risparmiare energie. Sono una lumaca, me ne rendo conto, i compagni più bravi mi hanno già superato due volte da quando ho iniziato a correre, e sono come minimo tre giri in avanti rispetto a me. Uno in particolare, Steven, quando mi supera si guarda indietro e mi lancia un'occhiata che non riesco a decifrare. Appena però la incontro, un senso di disgusto si fa strada in me, non riesco più a gestire il mio corpo, inchiodo in mezzo alla pista e inizio a tremare leggermente. Mi ha guardato perché sono imbranata, questo é poco ma sicuro. Ora mi starà prendendo in giro, starà ridendo come un pazzo. I miei occhi cercano di seguire Steven, sul suo volto non è dipinto nessun sorriso o risolino, ma mi sembra palese che se la stia spassando.

«Allen! E muovi quel culo!».

Tento di svuotare la mia testa da qualsiasi pensiero, mentre riprendo a correre. Mi sento un'idiota, un'idiota gracilina che non riesce a gestire le sue emozioni. Mi sento quasi fuori dal mondo, ho perso il mio posto, vorrei sparire nelle viscere più profonde di questo maledetto pianeta. Le mie gambe sono pesanti, la mia testa piena, le braccia cercano di coprire il seno che da un momento all'altro mi pare si stia muovendo troppo, e che magari possa attirare l'attenzione di qualche maschio malizioso. Mi sento male, mi manca il fiato, i polmoni bruciano come carboni ardenti.

Finisco l'ultimo giro e mi dirigo verso il professore. Oggi non ce la faccio, non riesco a sopportare questa lezione, ho bisogno di andarmene e sparire.

«Mi scusi prof...».

Il professore si volta verso di me, scrutandomi con quello sguardo pieno di scazzo.

«Che c'è Allen?».

Cerco di alzare lo sguardo, puntarlo sul suo mento, ma non ci riesco, lo tengo fisso sui miei piedi, imbarazzata.

«Posso assentarmi da questa lezione? Non sto molto bene» cerco di non far tremare troppo la voce, ma fallisco miseramente.

«E che hai stavolta?».

Maledetto, perché vuole sempre sapere il motivo per cui una persona sta male? Se sta male, sta male, non devi sfracellare le palle.

Ovviamente non posso raccontargli la verità: cioè che abolirei volentieri le sue lezioni e lo darei in pasto a Cerbero perché non lo posso vedere, perciò invento la classica scusetta degli studenti con i coglioni pieni, desiderosi solo di sparire.

«Ho un po' di mal di pancia».

Silenzio. Dalla bocca del professore non esce neanche una parola. Ho tanta voglia di prendere una pala, scavare una fossa e gettarmici dentro, anzi, prima vorrei colpire in testa lui, tramortirlo e poi scavarmi la fossa, ma purtroppo non ho una pala e specialmente la voglia di farlo.

«Come vuoi, sei esonerata» con un gesto della mano, simile a quello che si fa per scacciare le mosche, mi invita ad abbandonare la palestra.

Sono al settimo cielo, per fortuna posso evitare questo strazio, anche se so già che la prossima volta dovrò partecipare a tutti i costi, per paura che il prof non possa più credere alle mie scuse da quattro soldi. Che poi non sono nemmeno tanto sicura che ci abbia creduto veramente, magari gli ho fatto semplicemente pena, oppure era ben felice di levarsi dai piedi la lumaca con la paura degli sguardi e del contatto sociale.

Mi fiondo nello spogliatoio e mi cambio. Mi rimetto le Vans, la felpa, i leggins più pesanti e sciolgo i capelli sulle spalle. Finalmente sono a mio agio, non mi resta che andarmene da qui.

Esco nel corridoio che porta alla palestra e mi immergo poi in quello principale. Le altre classi stanno facendo lezione perciò é completamente deserto. Solo alcune bidelle, ogni tanto, passano stringendo in mano fotocopie, scope oppure secchi pieni d'acqua.

Magari il corridoio principale fosse sempre cosí!

Mi prendo tutto il mio tempo e lo attraverso camminando lentamente. Osservo le pareti, le finestre, i cartelloni contro il bullismo e le discriminazioni, che ex alunni hanno fatto negli scorsi anni. Osservo i distributori automatici, mai visti così vuoti, e le finestre che filtrano molta luce e che mostrano il paesaggio innevato.

Che bella la scuola senza alunni, è tutto così silenzioso, così pacifico... Amo tutto questo.

A volte mi capita spesso di pensare a un mondo nel quale abita solo una persona. Suppongo sia triste e demotivante, persino per una che non sa stare con i suoi simili. A me basta sapere che la gente esiste in questo mondo, anche se non voglio che quest'ultima mi consideri troppo.

Il silenzio viene interrotto da un rumore di passi. Non capisco da dove provengono, credo da uno dei corridoi davanti a me. Non mi preoccupo di controllare, sono certa sia una bidella che non mi degnerà di uno sguardo, perciò continuo a guardarmi intorno tranquilla.

«Anche a te piace vagare come un eremita?».

Il sangue mi si gela nelle vene. Quella voce, quella voce l'ho già sentita. È una voce che non scorderò mai, così particolare, a tratti divertente, ma anche profonda.

Mi giro di scatto, scorgo la figura di Charlie. Charlie Gray.

Cazzo! Cerco di mantenere la calma e di non filarmela a gambe levate.

Da quando ho parlato con Eddie, circa due settimane fa, ho convissuto con il terrore di poterlo incontrare, ma grazie a Dio non è mai successo. Invece oggi... Accidenti! Che ho sbagliato nella vita per meritarmi tutto questo karma negativo?!

Non so che fare, mi sento come se mi avessero schiaffeggiato ripetutamente la faccia con la suola di una pantofola. Così rimango in piedi come una bambalucca, gli occhi fissi sul busto di Charlie, sempre attenti a non salire fin sopra la sua testa. Ad un certo punto Charlie si muove, venendo verso di me. Vorrei correre dall'altro capo del corridoio, ma so che non posso perché:

1) Non sono veloce

2) Mi manca la voglia di correre

3) Sembrerei un'idiota

4) Attirerei di più la sua attenzione

5) Potrebbe seguirmi neanche fosse un pazzo serial killer, cosa che potrebbe essere assolutamente probabile.

«Ti hanno sbattuto fuori dalla classe? Non ti facevo tipa da combinaguai».

Alzo la testa, fisso il suo mento. Ora è a pochi centimetri da me, ed è troppo vicino. Cerco di resistere, ma alla fine sono costretta a fare un passo indietro per stargli più lontana. Charlie non sembra essersi accorto minimamente del mio gesto, continua ad avere la sua solita espressione allegra dipinta sul volto, mi chiedo cosa abbia sempre da sorridere...

«No» rispondo con voce flebile «in realtà mi sono semplicemente esonerata dall'ora di ginnastica perché non sto molto bene».

Charlie fa spallucce:

«Cacchio, mi dispiace, come ti senti adesso?».

Non so che rispondere, i miei malori erano solo semplici bugie... Quindi che fare? Dire di stare meglio, rischiando di passare per la bugiarda? Oppure mentire ancora e dirgli di stare male? Scelgo la seconda.

«Non benissimo, ho ancora un po' di nausea e mal di pancia».

Charlie annuisce lentamente, d'un tratto è diventato serio e mi pare quasi irriconoscibile, sembra tutt'altra persona. Con una mano fruga nella tasca dei pantaloni neri della tuta che indossa, ed estrae un paio di monetine. Le conta velocemente, poi chiude la mano a pugno e mi sorpassa.

«Seguimi».

Rimango immobile per qualche secondo, poi decido di schiodarmi e di seguirlo. Rimango sempre ad alcuni passi da lui e gli guardo la schiena curiosa. Il mio cervello prende a farsi film sul posto in cui mi sta portando. Il più carino racconta che la destinazione sia un bel praticello fiorito, dove svolazzano farfalle, coccinelle e apine. Il peggiore invece mi sta facendo venire l'ansia: e se mi stesse portando in uno sgabuzzino delle scope per violentarmi, accoltellarmi e gettare poi il mio corpo in un inceneritore? Ok, forse dovrei smettere di giocare a Yandere Simulator quando sono annoiata, sta iniziando a influenzare la mia vita un po' troppo.

Sgrano gli occhi e inizio a desiderare sempre di più di andarmene, quando Charlie si ferma, distogliendo la mia testa da quegli assurdi pensieri. Siamo ai distributori automatici, sta ordinando qualcosa alla macchinetta del caffè. Lo guardo da lontano, un po' confusa, fino a quando non si volta con un bicchierino fumante di calore, poi torna da me e mi porge il bicchierino. Lo scruto, a lungo, contiene un liquido semitrasparente marroncino.

«E' tè» mi dice «bevi, ti fa bene. Quando stavo male la mia nonna me ne faceva sempre una tazza. Ti scalda lo stomaco e ti aiuta a stare meglio».

Contemplo ancora un po' il bicchiere, poi mi decido a prenderlo fra le mie mani.

«Grazie...».

Alzo lo sguardo su di lui, per un momento scorgo i suoi occhi e mantengo il contatto visivo per circa sette secondi, un record per me, poi, quatta quatta, abbasso nuovamente lo sguardo, fissando la punta del suo naso.

«Di niente» sposta la testa verso la porta della biblioteca scolastica e la indica con un cenno «andiamo a sederci lì? Almeno aspettiamo la fine dell'ora stando belli comodi sulle poltrone».

Annuisco e mi avvio verso l'aula, entro, accendo le luci e mi accomodo su una delle poltrone nere e morbidose. Charlie, poco dietro di me, prende posto su quella di fronte alla mia. Cala il silenzio, pesante quanto un mattone, cerco di ignorarlo sorseggiando un po' il mio tè. E' davvero buono, avevo da sempre sottovalutato il tè delle macchinette, e invece è ottimo, ma mai quanto la cioccolata calda.

«E quindi... Perché gironzoli fuori dalla tua classe?».

Mi stupisco, da dove, ma soprattutto, come sono riuscita a trovare quella domanda? Con quale forza sono riuscita ad attaccare bottone con qualcuno?

Sento lo sguardo di Charlie inchiodarsi su di me, mi pento quasi subito di aver fatto quella domanda.

«Ho fatto incazzare il professore e mi ha sbattuto fuori, ma gli stava bene, quello lá è solo un maschilista».

Ok, adesso sono curiosa.

«In che senso? Che è successo?»

«Ti spiego...» si stravacca meglio sulla poltrona e incrocia le mani dietro alla testa. «...stavamo facendo lezione con il professore di storia, questo tipo mi è da sempre stato sul cazzo, ma di brutto anche, perché tende a comportarsi male con le mie compagne di classe. Prima, mentre spiegava una lezione sugli antichi Greci se ne esce con sta frase: "Le donne non potevano partecipare alla vita sociale, cosa che al giorno d'oggi è completamente differente. Le donne negli ultimi anni hanno preso molto piede in questo mondo, forse fin troppo". Al che mi sono incazzato notevolmente, mi sono alzato e gli ho detto che il mondo sarebbe decisamente migliore se ci fossero le donne al comando, come le professoresse di storia, che sanno insegnare e comportarsi meglio di lui».

Per poco non mi strozzo con il tè. Certo, ciò che ha detto è mostruosamente irrispettoso, ma cacchio! E' una presa di posizione davvero ammirevole e piena di coraggio.

«Cavolo... Senz'altro questo qua se l'è meritato, ma diciamo che hai pagato il tutto a spese tue, per quanto avessi ragione».

Charlie fa spallucce.

«Non mi importa in realtà. L'importante è che abbia detto la mia».

Sospiro, osservando il tè dimezzato nel mio bicchiere.

«Ma non sempre dire la propria porta buoni frutti, in alcuni casi è un vero e proprio suicidio».

Alle mie parole si mette dritto, piegando poi la schiena in avanti, per farsi più vicino. E' serio come non mai e questo fatto mi mette un po' di inquietudine.

«Se la gente rinunciasse a dire la propria, persone come Nelson Mandela, Franca Viola e Malala Yousafzai non sarebbero mai esistite».

Quella risposta mi lascia senza fiato. Ha ragione, eccome se ce l'ha: bisogna battersi per le ingiustizie, costi quel che costi, sono io quella che non ha il coraggio di prendere la parola. Vorrei dire altro, qualsiasi cosa, per scusarmi, dire che ciò che ha detto è molto profondo e giusto, ma una persona si affaccia nella biblioteca: è un professore, sulla sessantina, quasi pelato, e con dei fini occhiali trasparenti poggiati sulla punta del naso.

«Gray, ecco dov'eri finito. Vieni, ti devo parlare».

La sua voce è fastidiosa, tanto anche. Intuisco subito che sia il professore di cui mi ha appena parlato Charlie. Il ragazzo si alza, mi fa un leggero sorriso e mi saluta con voce bassa, poi esce, lasciandomi sola.

Finisco il mio tè, persa in mille pensieri riguardanti sia la personalità per niente comune di Charlie, sia su ciò che ha detto. Per la prima volta sento quasi che qualcuno, al di fuori della mia famiglia, mi interessi davvero. Credo proprio che Eddie si sia sbagliato sul suo conto... Charlie non è un pazzo, è semplicemente diverso dagli altri.

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