La Fantasma ~E l'articolo NON...

By Yuwy_ghost

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🏆STORIA VINCITRICE DEL PREMIO WATTYS 2023 MIGLIORI PERSONAGGI🏆 Vi siete mai imbattuti in una situazione imb... More

✨Riconoscimenti✨
Intervista dedicata
Informazioni utili (o forse no)
~Parte prima~
Prologo
Uno
Due
Tre
Cinque
Sei
Sette
Otto
Nove
Dieci
Undici
Dodici
Tredici
Quattordici
Quindici
Sedici
Diciassette
Diciotto
Diciannove
~Parte seconda~
Venti
Ventuno
Ventidue
Ventitré
Ventiquattro
Venticinque
Ventisei
Ventisette
Ventotto
Ventinove
Trenta
Epilogo

Quattro

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By Yuwy_ghost

Osservo la mia verifica di storia e mi soffermo sugli errori. Ho preso otto, sono molto soddisfatta. La prof di Storia spiega velocemente ciò che la maggior parte di noi ha sbagliato, poi si siede alla cattedra e accoglie gli alunni che hanno domande da fare accanto a sé. Mi piace questa prof, è giovane, gentile e sempre disponibile ad aiutare chi è in difficoltà. Ha un modo di spiegare tutto suo, ma interessante, tranquillo e talvolta divertente. Non a caso vado molto bene nella sua materia. Credo sia la mia prof preferita, insieme a quella di Italiano. Entrambe hanno voglia di interessare i propri alunni, di incoraggiarli a fare sempre meglio e si vede lontano chilometri e chilometri quanto tengano al loro lavoro e ai propri studenti. Tutto il contrario invece del prof di Matematica e quello di Inglese: due vecchi stanchi venuti lì solo per scaldare le sedie e prendersi lo stipendio.

La campanella suona: ora dell'intervallo. Mi alzo, porto il foglio della verifica alla professoressa e glielo restituisco con sguardo basso.

«Tutto ok, Zilla?» mi chiede sorridente, o almeno, così percepisco, dato che non la sto guardando in faccia.

«Sì, tutto bene» alzo la testa e le guardo il mento.

La prof annuisce:

«Quindi tutto chiaro? Gli errori li hai capiti oppure hai bisogno di chiarimenti?»

«No grazie, è tutto chiaro. Arrivederci».

Me la svigno fuori dalla classe. So che è un suicidio uscire fuori nel corridoio pieno di gente pazza, ma devo andare in bagno e non posso assolutamente ignorare questo importante bisogno che mi cresce dall'interno.

Faccio zig zag nel corridoio pieno zeppo di persone che ridono, urlano, si tirano sberle sul braccio e appoggiano la suola delle scarpe contro il muro, lasciando di conseguenza su di esso impronte nere dello schifo su cui avevano camminato fino a quel momento.

Scanso con leggerezza e precisione il gruppo delle ragazze oche. Il tipico gruppetto di ragazze popolari con quattordici strati di fondotinta, che si aggira in ogni scuola superiore che si rispetti. Fortunatamente non incrocio i loro sguardi, l'ultima volta che lo avevo fatto, avevo sentito un pazzesco bisogno di tirare una testata fortissima contro il muro.

Finalmente raggiungo il bagno e mi ci ficco dentro. Sembra quasi una benedizione, talmente tanto splendida che tiro un sospiro di sollievo carico di gioia. Sono libera di fare la pipì, dopo un'ora che la trattengo come una folle, tutto per non alzare la mano durante la lezione e chiedere alla prof se potessi uscire, attirando di conseguenza l'attenzione.

Dopo averla fatta mi sento decisamente meglio, pronta a continuare ad affrontare questa giornata-tortura come sempre. Sguazzo di nuovo nel mare di persone ferme nel corridoio e raggiungo la mia classe. La prof se n'è andata, ora potrò starmene un pochino sola soletta nel mio angolino. Ma non faccio in tempo a finire quella considerazione e dirigermi verso il mio banco, che Margot entra in classe e inizia a frugare nella sua cartella. Merda! Margot proprio no! Con tutti i compagni che potevano capitarmi, proprio lei?! Fanculo!

«Com'è andata la verifica?».

Un profondo odio pervade il mio corpo. Se solo fossi meno timida e non vincolata dalla mia scopofobia, avrei già lanciato quella maledetta nerd stronza fuori dalla finestra, sollevandola per i capelli e facendola roteare tipo "lancio del peso". Come nella scena del film "Matilda 6 mitica" nella quale la Signorina Trinciabue lancia una bambina tenendola per le treccine.

Mi costringo a calmare i bollori e a rispondere in modo vago:

«Bene».

Cala il silenzio, leggermente imbarazzante. Impacciata mi sposto verso il mio banco, e proprio quando spero che il discorso sia finito, Margot riattacca bottone:

«Quanto hai preso?».

Bene, ora ho finalmente compreso che Margot non ha una vita, dato che è così interessata a ficcare il naso negli affari degli altri. Il motivo per cui lo fa è semplice: paragonarsi a me, mostrarmi che è migliore, perché io so, benissimo anche, che lei ha preso un voto "migliore" del mio, e ora non sta facendo che aspettare il momento per sventolarmelo in faccia vittoriosa, sperando che io ci rosichi. Ma ciò non succederà mai, considerando che non me ne frega niente di lei e della sua vita insulsa, attaccata solo ai voti e alla scuola.

Decido di far finire in fretta quel teatrino ridicolo, rivelandole non solo il mio voto, ma ponendole anche la domanda che vuole sentirsi dire.

«Otto e tu?».

Quasi riesco ad avvertire la sua gioia, mentre mi siedo al banco e prendo i libri dalla mia cartella per la prossima lezione.

«Dieci. L'ho trovata una verifica piuttosto semplice».

Ora, oltre che alla voglia di lanciarla fuori dalla finestra, vorrei prima tirarle una testata sul naso talmente tanto forte da tramortirla.

«Anche io l'ho trovata semplice» rispondo, tanto per dire qualcosa e scacciarla.

Per non si sa quale razza di miracolo divino, Margot finalmente se ne va. Tiro un sospiro di sollievo e mi accascio sulla sedia, esasperata e stanca. I miei occhi osservano il paesaggio dalla grossa finestra accanto al mio posto. Amo stare qui, accanto alla finestra, mi permette di estraniarmi dal mondo circostante, dalle preoccupazioni, dalle lezioni soporifere, dai compagni di classe noiosi, dai voti, dalle regole, dalla società.

***

Ha smesso di nevicare, ma ho da poco controllato il telefono e le previsioni del tempo dicono che presto riprenderà.

Nonostante sia uscita come una degli ultimi di tutto l'istituto, Eddie non si vede ancora. Si sarà sicuramente perso a parlare con qualche insegnante oppure starà friendzonando qualcuna, magari la tizia artefice di quel biglietto cretino.

Sento qualcuno che mi chiama, è una voce femminile, quindi non può essere Eddie. Stacco gli occhi dal telefono e mi guardo intorno per capire chi ha parlato. Vedo Penny in piedi a pochi passi da me, che si sbraccia per salutarmi. Penny è una mia amica di infanzia, se è così che la posso definire. Non ho mai avuto veri amici in tutta la mia vita, quindi non saprei se definirla come tale oppure no. Abbiamo fatto le elementari e le medie insieme, lei mi parlava, io le parlavo, ogni tanto uscivamo insieme, nulla di più, nulla di meno. Allora, quando conobbi Penny, non soffrivo di scopofobia, iniziai a soffrirne in terza media e in prima liceo scoprii cos'era quella brutta sensazione che provavo quando guardavo negli occhi qualcuno.

Ora Penny va in un'altra sezione rispetto alla mia e abbiamo un po' perso i contatti, anche se devo ammettere che la mia scopofobia non ha aiutato molto.

La saluto con un cenno della mano, ma non mi avvicino. Dopo pochi secondi è lei che si avvicina a me.

«E' da un po' che non ci si vede!» esclama, piantandosi davanti a me.

Sorrido timidamente, mentre scruto il suo mento.

«Già, come va la vita?»

«Abbastanza bene, non desidero di meglio».

«Buon per te che ti accontenti».

Mi vergogno subito di quella frase, mi è salita dal profondo e non sono riuscita a fermarla in tempo. Per fortuna Penny non la considera più di tanto e non fa domande.

«Come mai non ti vedo in cortile o nei corridoi? Non c'è mai una volta che ti becco per fare quattro chiacchiere».

Grazie al cactus, non metto mai il naso fuori dalla classe, salvo per le emergenze pipì.

«Non lo so... Neanche io ti vedo».

Sono davvero pessima a nascondere la verità.

«Allora dobbiamo senz'altro trovarci qualche volta, magari dopo scuola andiamo da Mary a scofanarci un chilo di gelato, come una volta, ricordi?»

«E come dimenticarselo...».

Penny fa per aprire nuovamente la bocca, ma viene interrotta dall'arrivo di Eddie.

«Scusa Zilly, mi ero perso un attimo, siamo ancora in tempo per l'autobus?» dice, appoggiando una mano sopra la mia spalla.

Si accorge dopo di Penny e appena la riconosce la saluta con un sorriso gentile stampato sulle labbra, uno di quei sorrisi in grado di sciogliere il cervello di una qualsiasi ragazza dell'istituto. Non a caso Penny sembra essersi di colpo rincitrullita.

«Io dovrei andare, se faccio tardi mia madre si incazza. A presto Zilla» dice lei ad un certo punto, riscuotendomi dall'abisso di pensieri in cui mi ero cacciata in pochi secondi.

«Ci si vede...» rispondo, con voce debole.

Non sono sicura che mi abbia sentita, non si è più voltata a guardarmi, ma meglio così. Faccio spallucce, guardo Eddie, che a sua volta mi studia con espressione strana.

«Che c'è?» sbotto divertita

«Nulla, ti guardavo, non posso guardarti?».

Scuoto la testa.

«Dai muoviamoci o perderemo il bus, se mamma scopre che l'abbiamo perso e ci siamo dovuti fare la strada sui ghiacciai dell'Alaska, ci cozza insieme. E sappi che presto mi vendicherò contro di te per avermi fatto attendere una vita, facendoti sculettare sul marciapiede come una majorette, sotto gli occhi di tutti».

Eddie si finge spaventato:

«No! Le majorette no!».

Scoppiamo a ridere entrambi e ci avviamo verso l'autobus che, per fortuna, non è ancora partito.

A casa abbandoniamo le cartelle davanti alla porta d'ingresso e andiamo in cucina, stremati dalla fame e desiderosi di mangiare di tutto e di più. I nostri genitori sono andati entrambi al lavoro, mamma ci ha lasciato due confezioni di lasagne preconfezionate in frigo. Ci scaldiamo quelle e le divoriamo in poco tempo.

Alla fine ci dividiamo, Eddie va a ripassare per una verifica del giorno seguente e io mi butto sul letto, assonnata e priva di voglia di vivere.

Accendo il computer e guardo qualche puntata di una serie televisiva che sto seguendo. Ma dopo un po' mi stufo e chiudo il portatile. Frugo sotto al mio letto e finalmente riesco a raggiungerlo: il mio diario. Lo prendo, lo apro e inizio a scrivere.

17 Novembre

Ormai ho perso il conto delle lamentele che sto facendo qui sopra, ma oggi ho bisogno di scriverne un'altra.

Perché le persone si devono paragonare sempre agli altri? Perché la società impone degli standard che tutti devono seguire? E specialmente: perchè, non appena usciamo un attimo dai binari, siamo visti e rivisti come pazzi dementi da rinchiudere?

Trovo tutto questo assurdo, imbarazzante. Ma purtroppo, dopo tanto tempo, mi sono accorta che anche io faccio parte di questi standard, e non posso uscirne.

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