PATENTE E LIBRETTO, SIGNORINA.

By GoldSkyAtNight

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«Scott... posso assaggiare?» «Io sono più dolce.» «Mi avevi promesso fragole fresche.» «Siamo fuori stagione... More

1. Blinding Lights
2. Stiamo scherzando?
3. Mutanda Party
4. Pecorelle
5. In filo veritas
6. Paghi uno, prendi due
7. Labbra amare
8. Voce del verbo essere malinconici
9. Fashion blogger
10. Medusina
11. Maledetto vino (½)
12. Maledetto vino
13. YOLO
14. Ogni riccio un capriccio
15. Questione di lingua
16. Fragole fresche
17. Sabbia nel reggiseno
18. Vuoi assaggiarlo?
19. Questo ora è mio
20. Damiano Carrara direbbe sciangommoso
21. Oggi sei a digiuno, Amanda
22. Sadness is a blessing
23. Ops, i did it again
24. Hotter than hell
25. Sweet Candy
26. Tutta colpa del cameraman
27. Paranoia
28. La prima volta di ogni cosa
29. We hold the key of the night
30. Poisoned youth
31. Terza stella a destra
32. Courage
33. To be or not to be
34. Nuvole bianche
35. In grassetto e corsivo
36. Sdentato il drago
37. Eclipse
38. Buongiorno una banana!
39. Mordo come un lupo
40. Sì, Signor Agente
41. Locked Out of Heaven
42. Salse piccanti per lingue taglienti
43. ABCDEF U
44. Keep slowing your heart down
45. Come un proiettile che lascia il segno
46. You are so bad, my strawberry boy
47. Un buon kanelbulle non ha mai tolto di mezzo nessuno
48. Answer the phone. Amanda, you're no good alone
49. Answer the phone. Scott, you're no good alone
50. Crema solare persino sul cuore
51. This is the very, very last time I'm ever going to
52. Centimetri che contiamo con righelli di chi in matematica aveva quattro
53. Facing tempests of dust, I'll fight until the end
54. Amor, ch'a nullo amato amar perdona
55. Juliet to your Romeo
57. Half love, half regret (½)
58. Half love, half regret
59. Vieni, posa la testa sul mio petto, ed io t'acquieterò con baci e baci
60. Ti volterai senza vedermi, ma io sarò lì

56. Darling, all of the city lights never shine as bright as your eyes

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By GoldSkyAtNight

Le guance di Scott si fanno di un colore più vivido, raggrinzendosi all'altezza degli zigomi, sotto gli occhi verdi. Lo splendore del suo sorriso illumina improvvisamente la cucina, foderata soltanto dalla sottile luce del lampadario in salotto, quindi alle mie spalle.
I denti dritti tintinnano per sbaglio sulla forchetta mentre addenta la pasta al pomodoro che ho preparato. La mangia con un gusto che mi fa quasi chiudere lo stomaco.

Ho dimenticato il sale. È così insipida da sembrare carta masticata e sputata su un marciapiede.

«Hai avuto una giornata pesante a lavoro?» cambio argomento, bevendo un grande sorso di acqua per sciacquarmi la bocca.

La seconda bottiglia di birra posta sul tavolo luccica quando lui la afferra tra le dita. Tintinna contro il metallo argento dell'anello all'indice, provocando un suono calmo che mi gratta proprio il lato destro del cervello.

Guardo il vetro verde con tensione, catturata dal liquido che si muove al suo interno con una spirale larga e inquietante. Se assottigliassi gli occhi, sono sicura che riuscirei a vedervi dentro il mio riflesso.

Annuisce con le labbra serrate, «Abbastanza, ho dovuto saltare la pausa pranzo per colpa di un'emergenza. Ho mangiato un tramezzino al volo gentilmente offerto dal mio collega, non abbiamo nemmeno avuto tempo per un caffè».

Mi sento profondamente in colpa per avergli preparato soltanto della misera pasta al sugo. Non che le mie doti culinarie siano eccelse, ma avrei potuto impegnarmi di più. Non ho nemmeno immaginato che avesse saltato il pranzo, non me lo ha detto e oggi ci siamo sentiti poco per messaggio.

Se solo... ci fossimo parlati.

Non glielo dico. Mi limito a piegare verso il basso le labbra e spappolare gli spaghetti nel piatto fino a quando non diventano una poltiglia. Li guardo. Distolgo lo sguardo.

Tanto non avevo per nulla fame.

Scott se ne accorge, ma anche lui resta in silenzio, facendo finta di non aver visto niente.
Tuttavia, noto benissimo la mascella contratta e il pugno della mano sinistra stretto troppo attorno alla forchetta. Le nocche gli sono diventate bianche, le dita lunghe rossastre.

La tensione che imprime sul tavolo è tale da farmi pensare che sarebbe in grado di scavarci un buco perfetto con il pugno, se solo lasciasse andare il braccio e si liberasse della frustrazione.

Distolgo lo sguardo e lui continua a mangiare, aspettando che io dica qualcosa per mandare avanti la piccola conversazione che abbiamo iniziato.

Devo pensarci un attimo. Mi sono svegliata un'ora fa e non sono ancora del tutto sul pianeta terra. Ero così stanca, che mi sono addormentata sul suo divano, dopo appena aver messo piede in casa. È stato lui a svegliarmi, mi ha dato un bacio sulla fronte e io l'ho sentito anche nel sonno.

Ho ancora gli occhi così gonfi che mi fanno male le pupille. Faccio fatica a tenerli aperti. Persino la testa non mi dà tregua, sto vivendo un dopo sbornia mai avvenuto con delle casse attaccate alle orecchie che non smettono mai di suonare a palla.

Rimbomba tutto. Anche i nostri respiri si fanno più grandi, più profondi.

Schiarisco la gola con un colpo di tosse basso e sono pronta a schiudere le labbra, quando lui anticipa le mie intenzioni, rendendomi la situazione più facile, ma... faticosa.

«Tu, invece? Come è andata oggi?».

Ho la lingua impastata. Abbasso lo sguardo, «Bene, anche se non ho fatto un granché. Sono rimasta tutto il giorno in casa, sempre immersa tra i miei vestiti».

«Ginni non è venuta?» sembra sorpreso.

Nego con il capo, «No, era impegnata anche lei con le valigie» taglio corto, «Domani che turno fai?» torno su di lui.

Si gratta una tempia con il dito, nel punto in cui i capelli sono leggermente più corti e le orecchie rimangono scoperte.
Lo vedo pensare e negli istanti di silenzio che seguono, spero che possa passare del tempo insieme a me, perché ne ho davvero bisogno.

«Pomeriggio. Dalle dodici alle diciotto, se tutto va bene e mi lasciano tornare a casa per cena» risponde, «Perché? Volevi fare qualcosa? So che ti annoi a stare da sola tutto il giorno. Mi dispiace di non essere presente in queste ultime settimane».

Annuisco flebilmente, «Non dispiacerti, non è colpa tua. Volevo chiederti di venire con me in spiaggia, ma non fa niente. Puoi passarmi a prendere quando hai finito?».

«Certo, senza alcun problema» beve un profondo sorso di birra per finirla, «Vuoi andare a cena da qualche parte?».

Quel verde mi cattura di nuovo e sono costretta a pungermi con l'unghia il palmo dell'altra mano, per tornare a concentrarmi nuovamente su di lui.

Mi stringo nelle spalle, pensandoci, «Sarebbe carino, so che hanno aperto un nuovo ristorante in centro. Dicono che si mangi bene. Non è nemmeno troppo caro».

Sorride dolcemente, alzandosi dalla sedia con scioltezza. «Vada per quello».

Si ferma davanti alla sedia quando io continuo a parlargli. «Però siamo usciti già due volte, questa settimana».

«Non è un problema, se tu vuoi andarci ci andiamo».

«Sì, però mi dispiace farti spendere continuamente soldi e uscire anche quando sei stanco. Tu lavori, io invece no e non voglio disturbarti o farti stancare».

Mi guarda sconvolto, come se avessi detto una cosa bruttissima e sperasse in tutti i modi di non averla mai sentita. «Innanzitutto non sei in alcun modo un disturbo» mette in chiaro, «Secondariamente, non ci sono problemi di soldi. Lavoro per spendere, tu ed io siamo una coppia e lo sai che non mi piace contare chi spende per cosa e quanto. Ringrazio i tuoi genitori, ma voglio pensare a te anche io, nel mio piccolo e voglio passare del tempo insieme».

Prendo un grande respiro, «D'accordo, scusami. È che dovevo dirtelo, era una pensiero che mi portavo dentro da un po'».

Ci sto provando. Sto facendo del mio meglio per non chiudermi in me stessa e restare a labbra cucite fino a quando tutto non si dissipa e fingiamo di stare bene.

Ce la sto mettendo tutta. Anche se mi sento a disagio a dirgli certe cose ad alta voce e non tenermele per me come faccio sempre. Nonostante non riesca sempre a guardarlo negli occhi mentre gliele dico e anche quando la sua sicurezza è così forte da farmi sentir piccola come una formica.

Voglio credere sul serio di potercela fare, di poter affrontare e superare questo lato di me che ho sempre nascosto con la maggior parte delle persone. So che Scott è importante e che di lui mi posso fidare. Lo sento nel cuore, eppure non è lo stesso facile.

Non si può cambiare per qualcuno. Non lo si può fare in meno di due settimane.
Mi dispiace per entrambi, perché vorrei poter fare di più per noi, anche al costo di dirmi menzogne e farmi credere ciò che non sono.
Eppure, più spingo dentro di me, più una ferita in un'altra parte del corpo si apre.
Perché... non voglio che sia così.

Annuisce, dopodiché alza leggermente un angolo della bocca, mostrandomi un sorriso da togliere il fiato. Così puro e genuino da sembrare lucido come un sole estivo, quello che ti brucia perfino con la protezione cinquanta. E Scott riesce a bruciarmi ogni volta.

«Hai fatto bene a parlarmene, grazie» afferma, «È importante quello che hai fatto, che stiamo facendo. Grazie».

Perché continui a ringraziarmi?

Riprende a camminare, dirigendosi lentamente verso la parete sinistra della cucina. Afferra l'anta con una mano, muovendo il braccio con una convinzione che potrebbe essere fuorviante.

Quando apre il frigorifero per prendere un'altra birra, mi convinco di non avere di certo più fame e lo sento soprattutto quando il mio stomaco si chiude con un nodo stretto all'altezza delle costole più piccole.
Fa male, quindi schiaccio quel punto con una mano, nascondendola con il braccio.
Mi brontola la pancia, ma non è fame.

«Non ti preoccupare, va bene?» mi parla con ancora la testa al fresco, ma io non rispondo.

Mi accascio sulla sedia con le braccia intrecciate, decisamente più molli di prima. Spingo la lingua contro i denti, lo sguardo è duro e il corpo teso. La testa martella ad un ritmo costante. Ogni tre secondi.
Un doppio ticchettio sullo scadere del secondo istante, proprio in contemporanea con uno dei miei respiri, fa tremare lo strato di pelle sottilissima che si trova sul collo, sotto l'orecchio.

Scott.
Guardo il suo corpo. È immerso in quel frigorifero come se stesse cercando l'Eden sulla terra. Ci scava dentro, si sporge in avanti poi esulta quando lo ha trovato.
Le gambe lunghe ma stanche si spingono all'indietro, mostrando i muscoli dei polpacci nudi grazie ai pantaloncini che indossa.
Un pezzo di schiena è scoperto, ma quando si mette dritto gli scivola addosso, tornando al proprio posto.

Muove un passo e io mi metto a guardare il comodino di fronte a me, quello dove ci sono le tazze e i bicchieri.

«Ho detto di non preoccuparti, okay?» ripete, pensando veramente che io non lo abbia sentito.

«Mhm».

Ho detto che ci sto provando, non che riesco sempre a farcela.

Alla mia risposta, lui aggrotta le sopracciglia e mi guarda torvo in viso, sorpreso, stranito, anche confuso.

Si risiede di fronte a me, ma non riprende subito a mangiare. Aspetta e aspetta, ma io non riesco a capire cosa, perché sto fissando la piccola macchia di pomodoro che sporca la tovaglia azzurra. Sento soltanto il suo sguardo premere al centro della mia fronte e mi costringe ad indietreggiare con una forza di attrazione che è impressionante.

«Stai male?» domanda, con lo stesso tono di un medico.

Alzo gli occhi su di lui. «No, perché?».

Si schiarisce la gola: «Non hai toccato la pasta» guarda il mio piatto. Io non lo faccio.

«Ho già mangiato a casa» mento, cercando di sostenere il suo sguardo.

Mi viene difficile.

Lo capisce subito che sto dicendo una bugia. Guardarlo in volto non è stata la cosa giusta da fare. Me ne pento, perché glielo leggo addosso che stanno per partire una serie infinita di domande alle quali non ha senso per me rispondere.

Non voglio che ci concentriamo su di me. Voglio che parliamo di lui.

«Non ti va? Posso andare a prenderti quello che vuoi. Dimmi pure» parla con calma nonostante la frenesia lo stia divorando.

So quanto ci tenga a fare le cose per bene, con me. Si sta impegnando per avere calma e andarci piano anche quando scendere in picchiata sarebbe più facile.
Lo capisco benissimo e lo vedo chiaramente. Così come vedo il verde intenso dei suoi occhi lucidi.

«Sono a posto» mi stringo il corpo esile con le braccia, trattenendo l'impulso di includervi anche le gambe e chiudermi definitivamente come un baco da seta.

Mi lascia in pace per una manciata di secondi, quel tempo che basta ad entrambi per scaldarci e prendere fiato. Non ci guardiamo l'un l'altra, non ce n'è bisogno.

Anche lui ha smesso di mangiare. Non abbiamo più scuse per silenzi sfiziosi, teatrali.
Afferro il mio bicchiere per metà pieno e per metà vuoto. Bevo un minuscolo sorso.

«Che succede?» domanda preoccupato, infine, come se fosse una liberazione.

«Niente» mento di nuovo.

«Non continuare a dirmi bugie, per favore. Cosa c'è che non va, Amanda?».

«Ho detto niente» insisto, indispettendomi.

Ha capito benissimo che non ho voglia di parlarne, eppure continua a farmi domande.
Non riesco a rispondere adesso. Ho bisogno del mio tempo, dei miei spazi. Ho bisogno di essere lasciata in pace e farmela passare da sola. Ma per lui non va bene, perché deve per forza tirarmi fuori le parole di bocca, che mi piaccia o no.

La mia gamba sotto il tavolo si muove incontrollata, scricchiolando ogni volta che la agito nel tentativo di scaricare la pressione.
Smetto solo quando il tavolo prende a vibrare e capisco di essere troppo agitata per rimanere seduta. Devo alzarmi. Non adesso però.

Scott continua a non parlarmi, ma anche questo non fa altro che aumentare il tremolio del mio corpo. Ho un po' freddo.
Mi azzardo ad alzare il mento, lo faccio di scatto. Non riesco proprio a trattenermi e quando lancio una veloce occhiata alla bottiglia di birra, lui la coglie immediatamente, dato che non smette nemmeno per un secondo di scrutarmi.

Me ne pento subito. Capisco di aver fatto un errore banale, certo, ma indietro ormai non si può più tornare. Sono stata io ad iniziare questa conversazione. Devo essere io quella a concluderla.

L'afferra, spingendola verso di me come fosse un telecomando. Il fondo umido sfrega contro la tovaglia e per poco non si rovescia. Non cerco nemmeno di afferrarla, ci pensa lui.

«Scusami, non te l'ho chiesto. Ne vuoi un po'?» sembra innocentemente imbarazzato e io vacillo.

Rimango di stucco, esattamente come se avessi ricevuto una secchiata di acqua e ghiaccio dritta sulla testa e fosse pieno inverno.

Reprimo la voglia di prendere quella bottiglia e scaraventarla il più lontano possibile da me, da lui, quindi mordo forte il labbro inferiore, alzandomi definitivamente dalla sedia. Faccio strisciare le gambe contro il pavimento ed un rumore fastidioso mi buca le orecchie. Indietreggio rapida. Mi allontano.

«No».

Prendo il mio piatto e ne vuoto il contenuto nella spazzatura. Resto a guardarlo per alcuni istanti di troppo, lì, in quel sacchetto nero.
Lo poso nel lavello, assieme al bicchiere e alle posate, che tintinnano ad ogni minimo tocco. Sembrano campane attorno alle mie orecchie.

Quando mi volto, Scott è ancora seduto al tavolo ed ha la schiena così dritta che temo si possa spezzare. Le spalle sono aperte, le braccia tese. È teso, bloccato.
Non posso vedergli il viso, ma sono sicura che sia anch'esso contratto, rigido.

Non so cosa stia aspettando, che cosa voglia fare o cosa si aspetta che io faccia, ma non ho intenzione di bruciare l'attesa con lui, dietro di lui, alle sue spalle, per cui esco a passo svelto dalla cucina, lasciandolo solo ed andando a sedermi sul divano. Accendo la TV, scelgo il primo film che compare e mi fingo interessata, nonostante non sia con la mente sullo schermo e nemmeno con gli occhi.

Scott si prende del tempo. Tanto. Troppo.
Lo sento sparecchiare la tavola e lavare i piatti. Immagino stia usando l'acqua bollente e che adesso le sue mani siano ancora più rosse. Lui è abituato così. Io non riesco a starci sotto neanche per mezzo secondo.

Resta in cucina anche quando sono sicura abbia finito. Lo aspetto e lo aspetto e lo aspetto senza veramente aspettarlo e dopo un tempo che sembra infinito, lui mi raggiunge, sedendosi a debita distanza su questo divano che sembra infinito.

Mi si stringe la gola quando noto tutto lo spazio vacuo che ha lasciato tra di noi, senza nemmeno che ci fosse il bisogno di chiederglielo. Ha presupposto che lo volessi e basta. Fine. Niente domande.

Scott guarda lo schermo ma è distratto. Continua a distogliere lo sguardo e grattarsi la barba incolta con l'indice e il medio. Forse sta cercando il coraggio di dire qualcosa o forse il film gli interessa così tanto da aver già capito il finale.

Non ci sono pubblicità. Manca quindi quella sceneggiatura che ci servirebbe per sentire veramente del silenzio tra noi due, senza voci altrui a coprirci l'animo.

Sono così rigida, da non sentirmi più i muscoli delle gambe, fatte su contro il petto inquieto.
Se mi muovessi non riuscire a reggermi in piedi. Il torpore della sera mi si sta posando addosso come una coperta, creando l'illusione che io possa addormentarmi serenamente qui, in questo momento.

Si spezza tutto all'improvviso. «Parlami, per favore» parla lui, quasi spaventandomi.

Anche la gola è dura. Faccio fatica a deglutire, «Vorrei guardare il film».

«Posso spegnere?».

Allora non mi stai ascoltando.
Glielo dico con lo sguardo ed aggiungo anche un "no" così secco da far invidia alla siccità.

Lui però non mi ascolta sul serio e ruba talmente velocemente dalla mia custodia il telecomando, da farmi capire in ritardo quello che sta facendo.

«Stava finendo...» borbotto, tornando impegnata nello strappare ogni pellicina che incontro sulle dita.

«Lo riguarderemo» risponde schietto, «Ora dimmi quello che non va, per favore. Non sopporto questo silenzio. E perché sei così lontana? Non riesco a guardarti bene in viso, c'è troppo buio».

Più lui parla, più io mi faccio stretta a me stessa, rimanendo esattamente nella stessa identica posizione, immutabile.
Non voglio muovermi, spostarmi, mettermi più vicina.

«Posso venire più vicino?» chiede cauto, senza muoversi.

Annuisco flebilmente. Scott si alza e striscia i piedi fino a sedersi proprio al mio fianco, con una spalla che sfiora la mia. Combatte contro il dilemma se stringermi il ginocchio con la mano o lasciare che sia il suo a subire questa sorte. Alla fine decide per sé e abbandona ogni desiderio di sentirmi ancora più addosso.

«Non fare così, Amanda» mi rimprovera, «Ho bisogno che tu mi parli, perché se non lo fai, non capisco e se non capisco non possiamo risolvere ed andare avanti» ora mi supplica, «Necessito di sapere che mi vuoi accanto anche in momenti come questi, quindi ti prego di darmi delle risposte, non importa quanto crude o dirette siano. Sono qui per ascoltarti».

Combatto a lungo con me stessa. Sono così indecisa se dirgli la verità o continuare a tacere, che mi viene quasi voglia di urlare dalla frustrazione per riprendere finalmente a respirare. Mi sento soffocare e più resto a fissare il vuoto, più questo calore strano si propaga al centro del petto, procurandomi fastidio.

La pressione mi schiaccia da tutte le parti e sopporto in silenzio fino a quando non ce la faccio più, quindi glielo confesso come fosse uno dei peccati capitali commessi della sottoscritta.

«Mi dà fastidio» sussurro incerta ma allo stesso tempo sicurissima di quello che voglio dire, «L'odore di birra. La birra... su di te... prima e... adesso».

Non so come dirglielo. Non so nemmeno se sia giusto dirglielo e se questo sia il modo migliore per farlo. Probabilmente non capirà, perché sono stata così vaga da farmi arrossire le guance per il pentimento.
Avrei potuto essere più diretta, ma non ci sono riuscita e il risultato sono parole strane e confuse che vogliono dire tutto e vogliono dire niente. Parole difficili da interpretare, figuriamoci da capire.

Aggrotta le sopracciglia folte. «Intendi che ti dà fastidio l'odore di birra?» domanda altamente confuso, «Vado subito a lavarmi i denti».

«No» lo blocco prima che si alzi. Se ora se ne va, sono sicura che non sarò più in grado di affrontare l'argomento in un secondo momento. Non penso di riuscirci nemmeno adesso. «Quello che voglio dire... io... è che tu...».

Mi interrompe: «Qual è il problema?».

Schietto e dritto al punto. Una semplice domanda per una semplice risposta.
Io fatico ad essere come lui.

Glielo chiedo senza giri di parole. «Perché hai bevuto?».

«Cosa intendi?». Se prima la sua espressione era colma di confusione e sincera preoccupazione per il mio comportamento, ora muta leggermente. Gli occhi si illuminano e le pupille si dilatano. La stessa reazione di chi ha capito fin troppo bene dove voglio andare a parare, ma ha il viscerale bisogno di sentirselo dire ad alta voce, con parole concrete e alte.

Se è questo ciò che vuole, glielo darò.
«Da quando ci siamo seduti a tavola, non hai fatto altro che aprire una bottiglia dietro l'altra, senza sosta e non si tratta di semplice sete» non lo sto accusando di niente, «Come se ti servisse coraggio per guardarmi in faccia e parlarmi. Non ci riesci, senza? Capisco la situazione, ma non mi sento a mio agio in questo modo».

Si allontana. Di proposito, senza farci caso, chi lo sa, ma lo fa. Si tira indietro sul divano, portando il corpo verso i cuscini alle nostre spalle, senza però appoggiarvisi. Nello spazio ora vuoto, sento un'aria fredda tirare nella mia direzione, ma reprimo la necessità di riportarlo vicino con uno strattone e assicurarmi che non lo abbia fatto con cattiveria. Che non lo abbia fatto e basta.

Raccoglie quello che ha da dire e il viso si fa sempre più contratto ad ogni istante che passa. La mascella si distorce e le dita lunghe delle mani tremano sotto agli spasmi di un battito che è fin troppo accelerato.
Non mi guarda mentre osservo il suo profilo così dolce da essere tagliente. È teso come una corda di violino che sta per spezzarsi.

«E dimmi, Amanda, com'è la situazione?».

Non me l'aspettavo.
Non mi sarei mai aspettata che mi facesse una domanda del genere, in un tono talmente accusatorio da farmi stringere lo stomaco. Non avrei mai immaginato che la sua voce si facesse gelida, che scendesse sottozero proprio con me, in queste condizioni, in questa situazione.

Avrei giurato che mi avrebbe chiesto scusa, esattamente come volevo facesse, come ha sempre fatto. Mi avrebbe detto quello che avrei voluto sentirmi dire, facendomi scivolare di dosso tutto il disagio che, un po' per stanchezza e un po' per stupide ragioni, mi aveva attanagliato la mente.
Io avrei accettato le sue parole e saremmo andati a letto come una coppia dopo una tranquilla serata passata insieme. Forse, l'indomani avrei anche dimenticato l'accaduto e mi sarei svegliata con il sorriso sulle labbra e i fianchi stretti dalle sue braccia.

Invece no.
Scott non mi sta chiedendo scusa. È arrabbiato. Lo nasconde così bene che quasi non me ne accorgo, eppure anche un cieco lo noterebbe.
Non me lo dice. In realtà, resta in totale silenzio, perché secondo la logica quella a dover parlare sono io, ora.
Eppure, Scott stringe i pugni così forte, così tenacemente, da rendermi l'idea che sui dorsi vi siano scritte parole accusatorie nei miei confronti, lettere messe insieme che allontanano e creano sfiducia. Il suo corpo, che è un covo di rovi, mi punge con le sue spine, facendomi più male di quello che avrebbe fatto uno schiaffo improvviso in pieno volto. La mia pelle brucia proprio in quel punto. Me la tocco.

Non ricordo l'ultima volta in cui si è arrabbiato con me, intendo senza un mio contributo nella faccenda, che poi sarebbe sempre sfociato in una litigata rabbiosa.
Non rammento di momenti in cui l'ho visto sul serio furente nei miei confronti, istanti in cui questa sensazione fosse unidirezionale soltanto verso di me.

Forse non lo è mai stato.

Perché è lui ad arrabbiarsi? Dovrei essere io quella infuriata. E invece... sono solo... incapace di dargli una risposta. Incapace di alzare lo sguardo e sfiorargli il braccio, incapace di stargli vicino e capire quello che sta pensando.
Insicura. È così che mi sento.

Di fronte al mio silenzio, lui scuote la testa con disappunto, facendo rimbalzare i riccioli quasi dorati. Mi sembra di intravedere l'ombra di un sorriso amaro spuntargli sulle labbra, ma proprio quando è al suo picco di attuazione, inverte la rotta e spinge l'espressione verso il basso, in un gesto estremamente remissivo.

«Una cena» dice, «Volevo godermi in pace soltanto una cena, con te, in casa mia, solo noi due». Eccolo di nuovo quello sguardo carico di disappunto, rammarico, tristezza. «Pensavo che ultimamente le cose tra noi due andassero bene, che potessimo funzionare ancora. Cazzo... ci ho sperato davvero». Sembra parlare con se stesso, ma io sono proprio qui, inchiodata su questo divano che ascolto passivamente tutto quanto.

Ho le gambe così pesanti, che sembrano fatte di cemento. Guardo la porta d'ingresso come fosse una salvezza, ma sono troppo consapevole del fatto che non potrei mai andarmene via. Lo ferirei troppo, più di quanto non lo abbia già fatto. Ma quello che temo di più, è immaginare che un giorno, quella porta sempre presente per me, Scott me la chiuda in faccia e non la riapra più.
Mi sento crollare nel vuoto nell'immaginare la freddezza con cui potrebbe guardarmi, parlarmi, evitarmi, dimenticarmi...

Un soffio di vento e non esisterei più, e la possibilità che ciò accada non mi è contemplabile. Se Scott mi facesse una cosa del genere, non sarei più la stessa. Cambierebbe tutto quanto. Non riuscirei a superarlo.

Voglio restare.

Questo pensiero è così contorto, da farmi male alle tempie.

«Sono stufo, Amanda» ammette, pugnalandomi al cuore, «Sono stanco di sentirmi in questo modo, sempre teso e impaurito per ogni cosa che faccio, che dico, che penso. Perfino per ciò che non faccio, non dico e non penso. Mi sento mancare l'aria, soffocare».

Anche io. Capisco benissimo ciò che provi. Non preoccuparti, va bene.

Stringe una manciata di capelli con la mano, tirandone le punte in modo nervoso, quasi fosse un tic.

«Sono carico di lavoro, mi faccio il culo tutto il giorno per poter tornare a casa il più in fretta possibile e stare con te. Sto saltando pause pranzo da quasi un mese, perché preferisco di gran lunga mangiare una merda di panino al volo, ma sapere di vedere te, piuttosto che fare le cose con calma. Non me ne frega un cazzo di quanto sono stanco o stressato o impaurito. Tutto quello che voglio è stare con te, ma forse non è abbastanza. Forse non è la cosa giusta da fare. Forse non è quello che vuoi».

Non posso fare altro che starlo ad ascoltare. Sono priva di parole, in questo momento.

«Non ho mai voluto niente per me stesso, se ciò significava sottrarlo a te» finalmente riesce a guardarmi dritto negli occhi. Io esito, ma non abbasso lo sguardo, perché so che per lui è importante che lo guardi. «Credo, però, che sia arrivato il momento di dirti ciò che voglio veramente: essere tranquillo. Non dovermi continuamente scusare per qualcosa di cui non ho colpe, non dover calcolare ogni minimo passo che faccio verso di te, non dover avere il timore di dire una parola sbagliata per paura che ti allontanerebbe. Voglio essere sicuro quando sono con te, forte».

Nega con il capo a non so cosa, a un suo pensiero che non mi rivela.
«Quando si trattava di te, ho sempre agito d'istinto, senza freni, con il cuore aperto» confessa, «Ora non è più così e ci soffro. Vorrei che le cose andassero diversamente, che fossi spensierato e anche un po' folle per amore, per te e per noi».

La seconda parte fa più male a me di quanto lo faccia a lui. Io lo so bene. Lui anche.

Sentirsi dire di star facendo soffrire una persona è ancora più triste che soffrire.
Perché? Perché non percepiamo il dolore sulla nostra pelle, quindi non riusciamo a capire quando fermarci, cosa fare o come cambiare.
Certo, possiamo immaginarlo, fare appiglio a ricordi di sensazioni, emozioni o situazioni simili, ma ciò non aiuta per niente. Non c'è limite. È solo un'illusione effimera.

Ognuno guarda alla propria individualità. Sembra un pensiero arcaico ed egoista, ma è così. Possiamo metterci nei panni dell'altro quanto vogliamo, eppure non riusciremo mai ad essere un sosia perfetto di qualcuno.
Quindi, viene così naturale non fermarsi di fronte alle difficoltà di un altro, specialmente se è la persona che si ama, che quando ce ne si accorge è troppo tardi. Sempre se si riesce a prenderne coscienza.

Lo comprendo sempre di più.
Per quanto Scott ed io siamo legati e ci capiamo, non saremo mai in grado di provare l'uno le esatte emozioni dell'altra. È per questo che accadono divergenze, che molte volte non ci ascoltiamo e finiamo per discuterne a voce troppo alta. Perdiamo la pazienza e in un battito di ciglia stiamo litigando senza che ci importi nulla dei reciproci sentimenti.

Quando si è arrabbiati, feriti, tristi... si dicono cose orribili. Cose di cui ci si pente, ma che rimangono impresse nella mente sia di chi le ha sentite, che di chi le ha dette. E covano, portando un rancore così amaro che spaventa.
Solitamente, questo culmina nel rinfaccio, che forse è anche peggiore.

Se ci penso, vorrei poter cancellare molte delle parole che gli ho rivolto, inclusa la semplicità e cattiveria con cui l'ho fatto.
Me ne pento. Tanto, tantissimo, così profondamente che mi viene da piangere e mi risulta difficile guardarlo negli occhi.

Mi dico che è normale, che succede in ogni relazione, ma il mio cuore continua a sperare che tra noi due sia diverso. Che noi possiamo rappresentare l'eccezione.

«Forse hai ragione» schiocca la lingua sul palato, risvegliandomi dai pensieri profondi come un sonno. «È come dici tu: riusciamo ad avere una conversazione normale solo così, quando uno dei due è disperato, malato, stanco, malinconico o ubriaco. È così o niente. Estranei o innamorati. Non c'è una fottuta via di mezzo con te. Tu non la vuoi una soluzione, una cazzo di tregua».

Le sue accuse rivolte ad entrambi sono appuntite come frecce. Mi tagliano la carne fino a ridurla in brandelli e lasciarmi con il cuore martoriato.

Al loro interno non vi è cattiveria, colpa o difetto. Soltanto verità. E questa verità brucia come fuoco vivo contro la mia pelle, perché entrambi abbiamo usato più volte queste scuse per starci vicino, per fingere che andasse tutto a gonfie vele. Non andava bene niente. Lo sapevo anche prima, ma non volevo ammetterlo, neppure pensarlo. Tantomeno, volevo che proprio lui me lo dicesse. Con questi occhi, con questa ira, con questo distacco.

Ciò che mi sconvolge è pensare che Scott abbia pescato questa verità da me, che io ne sia stata la sua musa ispiratrice.

Che significa che io ho ragione a dire così? Non ho mai detto qualcosa del genere, non l'ho nemmeno mai pensato, eppure lui crede che sia io ad aver architettato tutto.
Sta proiettando tutta me stessa su di lui, facendomi dire per bocca sua cose che io non avrei mai nemmeno sussurrato al buio.

Mi rovina constatare quanto non si stia sbagliando per nulla. È tutta verità, fino all'ultima goccia.

Il mio viso si bagna delicatamente.
Mi accorgo trattarsi di lacrime solo quando tiro su con il naso e una stilla precipita fino al collo, nascondendosi tra i capelli sciolti.
Ne seguono tante altre, fino a quando non ho il volto completamente umido e salato.

Trattengo i singhiozzi, ma il groppo in gola è troppo doloroso. Mi impedisce anche di respirare. Resto immobile, rossa in viso e con le guance scavate.
Cerco di nascondermi, ma ho il timore di muovermi e farmi vedere così da lui.

Scott, il gufo che vede ogni cosa, che si accorge di ogni minimo cambiamento o movimento che compio, il più inutile che sia, mi vede piangere soltanto quando oramai sto per finire, perché svuotata di ogni sensazione.

Non esita. Mi corre incontro, sedendosi con un tonfo così profondo sul divano, da farmi sobbalzare.
Se ne frega della distanza, del mio corpo rigido e dell'aria che già i singhiozzi mi stanno portando via. Me la ruba pure lui, afferrandomi per le spalle nel tentativo di farmi alzare il viso.

Quando capisce che non lo farò, mi stringe così forte al suo petto, da farmi diventare uno strato di seconda pelle. Non sento il suo tocco, ma sono certa che ci sia. C'è sempre, non lo sto immaginando.

«Scusami....» supplica, carezzandomi la testa, «Scusami, ho sbagliato». Per poco non gli si spezza la voce. «Non volevo dire quelle cose brutte» si lascia prendere dalla foga o forse dalla paura di lasciarmi andare e guardarmi uscire da questa casa. Potrei farlo, se solo lo volessi davvero.

«Perché le hai dette?» trovo la forza di chiedere, mangiandomi così tante lettere tra il pianto, da dubitare che lui mi abbia capita.

Non so perché sto piangendo. È stupido.

«Perché sono arrabbiato» mugugna addolorato, «Sono terrorizzato, in verità. Non riesco più a pensare lucidamente, mi faccio prendere dalle paure e ti ferisco in questo modo, scusami. Non era mia intenzione, sono stato troppo... precipitoso».

Mi stringe. Mi abbraccia tanto, dolcemente e con ossessione. Rinchiude entrambi in un contatto forzato di cui abbiamo bisogno per non sgretolarci e dividerci come è già successo in passato. Ora, è lui la colla di questo rapporto. Ci tiene uniti. Non per sempre, per il tempo che basta. Non sappiamo quanto.

Mi aggrappo con le dita alla sua maglietta, stropicciandola senza pudore. Faccio sì di trovarci faccia a faccia, naso contro naso. Dobbiamo guardarci negli occhi. Devo vedere il suo verde, il suo solito sguardo dolce.

«La mia pasta faceva schifo» piango con disperazione e più lo faccio, più mi sento una stupida, una bambina.

Non ho mai visto Scott più confuso. Mi guarda come se avessi tre teste. «La pasta?».

«Sì, la pasta» mi sento una sciocca. Me ne vergogno tantissimo.

Cerca di capirmi, ma probabilmente è impossibile. «Perché la pasta?».

Lo ignoro, «Faccio tutto per gli altri: accompagno tua sorella alle visite, ascolto le paure di Duncan, resto accanto a Ginni e Froy e tengo lo spirito alto per i miei genitori. Faccio questo per loro, molto spesso, quasi sempre, senza pensare alla fatica e alla stanchezza, perché so quanto sia difficile per tutti e non voglio essere un ulteriore peso» ho degli acquazzoni al posto degli occhi. Me li sento gonfi.

«E per te... sono riuscita a dimenticare di fare una cosa così stupida come mettere il sale nella pasta. Ti rendi conto? Del sale... per te, Scott».

Ho toccato il fondo con queste parole. Non immagino cosa stia pensando di me. Non riesco nemmeno a vederlo in volto, talmente sto piangendo.

Racimolo aria, «Capisci? L'unica persona che mi sta veramente accanto in tutto e per tutto, con le difficoltà e le paure che mi prosciugano e mi fanno agire in modi che non vorrei, l'unico a cui fuggire sarebbe stato facile ma non lo sta facendo e anzi mi vuole più vicino che mai... io dimentico di mettere il sale nella pasta. Quanto sono egoista... inutile... insens-».

«Basta così» mi ferma, posando un dito sul mio labbro inferiore, facendolo rimbalzare, così come il mio collo, che indietreggia. «Non dirti queste cose, per favore».

Ammutolisco, nonostante la voglia di parlare mi si blocchi proprio sulle gengive. Stringo le labbra in una linea dura, facendole sbiancare.
Mi mordo perfino la lingua, pur di rimanere in silenzio e fare come dice.

Ma non ci riesco proprio a reprimere ciò che voglio dire. Sento che se non me ne liberassi, non riuscirei più a chiudere occhio ed ho bisogno che qualcuno mi ascolti.
Chiunque, purché non sia me stessa.

Scosto la sua mano, ancora appoggiata alla mia guancia, con delicatezza. Mi libero la bocca.
«Quello che mi terrorizza di più, è sapere che per un'altra persona me lo sarei ricordato».

Anche stavolta, sono convinta, ha fatto più male a me. Mi sono dipinta io stessa come un mostro, qualcuno da non voler accanto per nessuna ragione dopo una confessione del genere. Sono soltanto un peso morto.

Mi formicolano le dita. Le ossa dei polsi tremano e il sangue bolle nelle piccole vene verdi e viola.

L'espressione di Scott non è di certo come me l'aspettavo. Avevo messo in conto di dover affrontare uno sguardo trafitto, gelido e distante. Non in maniera innocua, io intendo seriamente. Intendo Scott disgustato dalle mie parole e infuriato per avere al proprio fianco una persona tanto individualista che non gli fa altro che male nonostante lo ami.
Sarebbe totalmente giusto. Lo capirei.

Non riesco invece a comprendere l'espressione con cui mi sta guardando, senza sosta.
Le guance sono sciolte, gli occhi rilassati e le labbra quasi inarcate verso l'alto, in un sorriso che è ben distante dall'essere tale.
Sembra... tranquillo. Per nulla colpito da ciò che ho detto con così tanta disinvoltura.

Guarda in faccia la mia vergogna ma non mi deride. Resta semplicemente a guardarmi come si fa con qualcosa o qualcuno a cui si tiene davvero.

Gli sono grata del suo silenzio. Anche dell'indice umido della mia saliva che mi massaggia dolcemente la spalla arrotondata, con movimenti lenti. Mi ricorda per l'ennesima volta che è al mio fianco. Che per me lui c'è.

Mi accorgo solo ora di aver smesso di piangere e anche della pelle salata che tira all'altezza delle guance e delle labbra. Dovrei farmi una doccia.

Sbatto le ciglia piano, «Ma non mi sarei sentita in questo modo se lo avessi scordato. Invece, dimenticarlo per te mi ha... distrutta mentalmente» aggiungo.

Vorrei aggiungere mille altre parole sul modo in cui mi ha fatta sentire, ma sarebbe troppo anche per me. Voglio tenerle nascoste dalle sue orecchie, perché sono sicura che non le dimenticherebbe mai.

La presa del mio ragazzo si fa più stretta prima di passare a sfiorarmi il collo. Devo concentrarmi per avere la meglio sul solletico e non sorridere in un momento del genere.

Chiudo gli occhi per dire quello che verrà: «Mi sento una pessima persona, una pessima fidanzata» confesso flebilmente, «Non ti merito affatto».

Me ne rendo conto di quello che faccio e quello che dico. Il problema è che accade troppo tardi e rimediare agli errori non è facile, così come è complicato non scappare di fronte alle difficoltà o alle conseguenze. Soprattutto le ultime, mi terrorizzano perché non posso controllarle, sono indipendenti.

I miei genitori me lo hanno insegnato fin da piccola a prendermi le mie responsabilità ed affrontare le situazioni di petto. Ci ho lavorato tanto nonostante fossi timida e decisamente chiusa con i miei sentimenti. Piano piano sono riuscita ad aprirmi.

L'amore, però, è una storia diversa. Non è paragonabile alla vita reale, all'ingenua convivenza di relazioni di amicizia e conoscenza. L'amore è l'amore. Corre così in fretta da continuare a sfuggire. Si divincola alle prese più strette e si diverte a giudicare quelle più deboli. L'amore, poi, non dimentica. Non gli sfugge nulla e mai come in questo momento quando penso a lui, penso solo a Scott.

Lui racchiude il mio amore. Ne è il fulcro, l'unica definizione che conosco. Lui è la prima persona che mi verrebbe in mente di nominare se qualcuno mi chiedesse il nome di un sentimento così astratto.

Certo, ci sono tante categorie di amore, alcune delle quali non sono nemmeno paragonabili al nostro, come quello che provo per la famiglia o gli amici. Ma qui si tratta di un tipo di sentimento diverso, che va oltre perché condivide così tante cose fisiche e mentali, da non poter non essere definito tale.

Scott ed io ci siamo scoperti, in ogni pezzo che tenevamo al sicuro.
Entrambi siamo usciti dai nostri gusci e ci siamo fatti avanti lentamente, incerti ma con tanta voglia di incontrare qualcuno di significativo e per cui ne valesse la pena.

Mi duole e mi perseguita l'idea che per me lui vale ogni tutto che ho, mentre io per lui non penso di essere così vivida. E non perché lui me lo abbia dimostrato o detto, ma per pura mia convinzione. Si tratta di una paura che mi sta con il fiato sul collo e continua ad aumentare più il giorno della mia partenza si avvicina.

Voglio che per Scott ogni momento passato insieme sia valso la pena per tutto quello che proveremo dopo, quando non sarò più a Santa Monica. Desidero che lui abbia un bel ricordo di me, che non mi serba rancore o si senta in qualunque modo triste e colpevole.
Se accadesse, non riuscirei a perdonarmelo e andare avanti con la mia vita sarebbe troppo difficile. È per questo che stringo così forte i denti per non crollare, non voglio trascinarlo a fondo con me.

Rimango a formulare questi pensieri con gli occhi chiusi. Li tengo serrati anche quando lui mi bacia la fronte, indugiando per tantissimo tempo prima di allontanarsi.
Quel semplice tocco basta a liberarmi di ogni fatica e per poco non perdo ciò che volevo dirgli.

Riafferro tutto quanto. «Non è una questione di cosa ti meriti, ma di quello che vorrei per te» lo guardo dritto negli occhi, «E per te voglio qualcuno che si prenda cura della meravigliosa persona che sei e che valorizzi ogni singolo tratto stupendo del tuo carattere. Del tuo cuore, che è più grande dell'universo e di tutto ciò che è sconosciuto. Qualcuno che ti faccia sentire al sicuro, amato e... tranquillo».

«Smetti di parlare, per favore» cerca di fermarmi, «Non serve dire altro. Ho già trovato questa persona. Non ho bisogno di nessun altro. Ho te».

Avvicina la bocca alla mia. Vuole porre fine a questo sproloquio con un bacio. Glielo leggo negli occhi che ha bisogno che io taccia per sempre.

«Non posso darti tutto quanto. Lo vorrei, ma non ci riesco» sposto il viso per continuare, nonostante la sua forza sia dieci volte la mia, «Ma so che ti spetta, perché sei così buono, così premuroso e gentile. Non ho mai incontrato nessuno come te, Scott. Io... non credevo che le nostre vite si sarebbero intrecciate, per poi-».

«Shh» riesce ad afferrarmi le guance, così piano che mi domando quanto effettivamente io mi stia opponendo. «Basta, basta, ti prego».

Ho la bocca bloccata, è a forma di quella di un pesce e lui la tiene in prigionia.

«Era solo della pasta. Non me ne frega un cazzo, nemmeno del sale e di tutto quello che c'è prima del sale. Sono cose di poco conto, anzi, non hanno alcun valore. So tutto quello che devo sapere per amarti e non ti amo di meno soltanto perché ti dimentichi di fare qualcosa per me. Chiaro?».

Annuisce per farmi annuire, ma a me viene difficile. Un po' per la posizione scomoda, un po' anche per le mie convinzioni.

«Non sono quel tipo di persona, Amanda. Non mi attacco alle piccole cose, non sono un calcolatore. Certe volte, non me ne accorgo nemmeno, come oggi. Dopo tanto tempo, sono riuscito a godermi una cena a casa con te ed ero felice e la pasta non mi poteva sembrare più buona. Tu mi hai reso felice. Non vedevo l'ora di vederti, ho atteso il momento per tutto il giorno» imprime ogni singola lettera nel mio petto, «Anche se mi avessi preparato una cena stellata o soltanto dell'acqua, sarei stato felice, perché con me ci sei tu».

Mi bacia. Di sfuggita e con agitazione, ma posa le sue labbra umide sopra le mie, seppur sia difficile che riesca a ricambiare. Le sue dita continuano a stringermi le guance.
È fugace e spontaneo, ma lascia un segno profondo dentro di me. Riesce subito a placarmi e la tensione nei muscoli si scioglie come ghiaccio al sole.

«Se non ti dico nulla, perché ti metti in testa questioni che non esistono?».

"Perché esistono" vorrei rispondergli, ma mi limito a scusarmi. «Mi dispiace, scusami».

Scuote la testa in segno di negazione. «Basta incolparti per ogni cosa, Amanda».

«Sì...» rispondo vaga, abbassando lentamente lo sguardo.

Lui non molla la presa, mi tiene ancora stretta.
«Guardami».

Faccio fatica a rialzare gli occhi, perché il contorno spesso del suo collo virile mi sembra un luogo di gran lunga più sicuro a cui fare appiglio.

«Per favore» chiede, abbassando di un tono la voce.

Osservo il suo mento marcato, seguendo il contorno definito della mascella destra, poi dello zigomo alto e della piccola infossatura alla base della tempia esposta dai ricci.
Ci metto parecchio per convincermi a virare più a sinistra, contro il verde dei suoi bellissimi occhi.

Quando li trovo già su di me, ho un sussulto alla base dello stomaco. Prende a formicolarmi ogni cellula del corpo. Stringo ancora di più le dita sulla sua maglietta, facendomi vicinissima.

«Con te, io sono felice» parla, muovendo le labbra appena, «Se fosse il contrario, non sarei qui, adesso. Sei la mia donna e sono profondamente innamorato di te. Devi credermi».

Ti credo. Lo so.

«Quando tengo ad una persona si vede, perché la metto al primo posto e non mi allontano solo perché è complicato superare le difficoltà. Non voglio farlo soprattutto perché riguarda te e so che ci soffri» aggiunge.

Si appoggia con la fronte alla mia. «Quando ho detto di essere stufo, non intendevo di questa relazione, di te» ci guardiamo negli occhi da troppo vicino, «Sono soltanto stanco di vederci così, di saperti tesa e affranta per la partenza, di non avere più la serenità di un tempo. Vorrei soltanto che tu fossi contenta per il tuo futuro. So che è brutto da dire, ma per una volta, vorrei che ci dimenticassimo di ogni cosa e passassimo una giornata normale, come abbiamo sempre fatto. Ce la meritiamo, non credi?».

Infilo una mano tra i suoi capelli arruffati, chiudendo gli occhi per concedermi un sospiro in privato.

Li riapro con uno scatto. «Facciamolo».
Sono pronta a partire da zero per un solo giorno. Ne abbiamo entrambi bisogno. Sarà facile, tra di noi va tutto bene.

Gli occhi di Scott prendono a brillare di una strana ed intensissima luce trasparente. Alza appena l'angolo della bocca, abbozzando un sorriso sincero, quasi soddisfatto.
Dopo quella che sembra un'eternità, lascia libere le mie guance, sfiorandomi con una mano la tempia per scostarmi dagli occhi una ciocca di capelli ribelle.

«Sei sicura? Ti va bene?» si preoccupa.

Annuisco. «Sì, sono sicura».

Ripete il mio gesto senza smettere di fissarmi, ma nemmeno io demordo, nonostante sia così stanca da sentirmi cadere.

Mi fido di lui. Lo amo.

Incolla i polpastrelli delle dita al mio viso, sulla guancia. Ne sento i calli. Sono graffianti ma delicati. Li preme piano contro la pelle morbida, ancora bagnata dal pianto.
È come se volesse essere sicuro di chi io sia. Come se mi stesse cercando attraverso la fisicità dei nostri corpi.

«È questo quello che voglio, questa sensazione reale di calore che mi sbrana le viscere e mi lascia con la fame» vengo catturata da queste parole così rudi, da lui. «Voglio te. In tutte le sfaccettature, forze, difficoltà, paure e gioie di cui sei fatta. Sei perfetta ai miei occhi. Sei tutto quello che ho sempre desiderato in una donna. Ho l'impressione che se ti lasciassi andare, mi mancherebbe l'aria. Tocca il mio cuore».

Mi afferra la mano.
La fa posare sul suo petto ampio, nel punto dove un calore profondo brucia vivo. Mi trema il polso e forse è per questo che sento tamburellare le dita al ritorno di un cuore che batte. Sembra impazzito, è feroce.

«Lo senti?».

«Sì» soffio a labbra incollate.

Quella mia stessa mano, Scott la rigira, scoprendone il polso. Resta a scrutarlo per un lungo secondo e così faccio anche io, cercando di anticipare la sua imprevedibilità.
È stretto e ossuto, fa quasi male da guardare, ma lui lo bacia e ne smussa così bene i contorni, in maniera talmente fine, da non farmelo più riconoscere.

Ha le labbra calde ed è difficile concentrarsi. Dimentico perfino come si respira. Penso di non riuscire più a farlo.
Lo scalfisce con i denti, lasciandoci sopra un tenero segno rosso che a malapena si vede.
È suo. Io sono sua.

«Non lo farò più» promette, «Non farò più niente che ti provochi disagio o ti faccia star male».

«Quindi aggrappati a me, quando avrai paura. Aggrappati con le unghie, con i denti, non importa. Io ci sarò sempre per te, se tu mi vorrai. Ti prego, dammi tutta te stessa» un'altra promessa è stata fatta.

Si spazzola contro la mia pelle, come un gatto fa contro un divano. I ricci mi solleticano, ma mi vieto di sottrarmi a queste carezze così sottili e sensibili. Invece, trovo conforto nella sua guancia, alla quale mi appoggio con l'intero peso della testa.

Devo essere pesante, però lui non si muove. Non mi respinge e non mi avvicina. Rimane fermo. Io riesco finalmente a trarre un respiro di sollievo ed il petto si allevia piano piano.
Anche la testa non scoppia più.

«Che succede?» chiede, preoccupato, gentile, presente.

«Sono stanca. Ho bisogno di dormire».

Si muove contro di me, «Andiamo, ti porto a letto».

Mi assale un terrore così nero da farmi venire la nausea. «Non vieni a letto con me?».

Pensavo che avessimo risolto. Abbiamo parlato e non abbiamo urlato, non c'è stato nessun litigio. È arrabbiato con me? L'ho ferito e adesso non mi vuole più? Mi detesta?

«Certo, andiamo insieme». Basta solo questo a farmi calmare.

D'accordo. Non mi odia. Non così tanto da dormire separati.

In silenzio, ci alziamo dal divano. Scott spegne ogni luce, non guarda nemmeno le stoviglie sul ripiano e il disordine che c'è in cucina.
Camminiamo nell'ombra illuminata soltanto dalla luna e dalla luce dei lampioni che passa oltre le finestre.

La forza della nostra camera da letto mi attrae così tanto, da sentirmi le ossa vibrare. Sono così assonnata che potrei addormentarmi perfino sul pavimento, se solo Scott non mi reggesse il braccio con il suo.

Ancora una volta, ho bisogno di lui.

Ad un tratto smettiamo di camminare, di salire. È lui a bloccarsi, con un piede su un gradino e l'altro leggermente più alto.
Mi ferma e per poco non inciampo, così mi aggrappo di nuovo a lui, che mi regge saldamente e solo quando ho trovato stabilità su entrambe le gambe, mi spinge verso la parete, facendomi indietreggiare a piccoli passi. Lo seguo soltanto perché sono confusa e mi ritrovo con la schiena appoggiata al muro, freddo e duro.

È buio, vedo a stento i suoi occhi. Ho il cuore in gola, non riesco a deglutire.
Mi chiude con la sua altezza, tenendo una mano al lato del mio viso, appoggiata anch'essa alla parete di ghiaccio.
La vedo con la coda dell'occhio. È forte e tenace, ferrea come se stesse trattenendo tutta l'energia che ha in corpo.

Che cosa mi sta succedendo? Sento uno... sfarfallio... è nello stomaco. Mi scombussola le gambe. Tremano anche quelle.

Si gratta la gola con un colpo di tosse, poi avvicina il viso al mio, quasi a sfiorare il naso con la punta del suo. Trasalisco.
Sto respirando la sua aria, il suo fiato.

«Se pensi, anche per un solo secondo, che io ti possa gettare via, sei un'ingenua e menti a te stessa, perché tu più di me sai quanto ti voglio. Sempre. Senza pause e compromessi».

Ora sono le sue iridi a farmi luce. Risplendono. Sono vive. Meravigliose. Mi catturano, mi incatenano a lui.

Alzo il mento. È così pesante, ma ci riesco.
Il suo viso è vicinissimo al mio. Lo sporgo ancora più in avanti, sfiorandogli la bocca dolce.

Decido di fermarmi per respirare e commetto un grosso errore. Non appena apro le narici, vengo scaraventata via da un'esplosione del suo profumo, forte e virile.
Non credo di aver mai sentito un aroma così rassicurante in vita mia. È morbido e calmo, allo stesso tempo aggressivo e inquieto.
Mi ci ubriaco. Ci perdo la testa.

Sono io a baciarlo. Senza calma. Con irruenza. Veloce e forte.

I nostri ruoli si sono invertiti. È lui a dirmi di rallentare, posando le mani sulle mie spalle dolcemente. Ma non mi allontana del tutto, permette ancora alle nostre bocche di toccarsi.
Ci aggiunge anche la lingua e parte una danza che vorrei non finisse mai.

È caotica, ma perfetta per noi, che siamo un bel casino.

Ci stacchiamo, entrambi ansimanti e con gli occhi che sprigionano fiamma pura. Il petto si alza e si abbassa incontrollato. Ho le labbra bagnate. Mi prudono per tutti i morsi che vi ha inflitto contro. Non m'importa, ne voglio altri.

Scott continua a guardarmi. Vede solo me, la vera me. Come sia possibile non lo so, ma è sicuramente reale.

Schiude le labbra per parlare, ma non vi esce alcun suono. Quindi muove il pomo d'Adamo con impressionante sforzo e questa volta la lingua spinge in fuori delle parole.

Conosco il torpore nel dover dire qualcosa quando si ha la gola chiusa, stretta in una morsa. È un dolore non paragonabile.

«Non piangere più per me, d'accordo?».

Sbatto le palpebre, quasi allucinata. Ed annuisco, inconsapevole della sua domanda, inconsapevole della mia risposta.
Non lo capisco, non lo comprendo proprio che cosa voglia dire, che cosa vuole che io faccia o non faccia. È troppo presto per capirlo. Mi ci vorrà del tempo e adesso non è il momento giusto. È ancora presto.

Scott afferra di nuovo la mia mano e riprendiamo a salire le scale, questa volta senza pause.





BUONASERA SCOTTINE 🤍
Wow... questo capitolo è stato come andare sulle montagne russe: letteralmente un crescendo di sali e scendi. 📈📉📈
Non riuscivo a smettere di scrivere, le idee continuavano a farsi avanti ed è stato un po' difficile raggrupparle in un unico discorso sensato e importante.

Scott e Amanda sono un uragano. Non si capiscono, si rinfacciano cose e poi si riavvicinano, implorando il perdono come si fa con le persone a cui si tiene veramente.
Il problema è che non a tutti è concesso di sbagliare all'infinito.💗

Scott ha detto cose importanti. Davvero tante (come è suo solito aggiungerei), ma queste, ragazze, sono davvero davvero molto molto importanti.
Ricordatevele. 🦋

Cosa ne pensate dell'atteggiamento di Amanda?
So che alcune di voi non la vedono di buon occhio e non sono particolarmente contente o convinte di quello che dice o di come si comporta nei confronti di Scott.

Però ricordate: errare è umano ed entrambi hanno delle colpe. Così come dei meravigliosi pregi e qualità. 🌸

Lo so che siete curiose di leggere il prossimo capitolo. E io ve lo dico per il vostro bene, ora o mai più: preparatevi.
Vi metto anche il bollino rosso che segna *caos*📛. Sarà un capitolo lungo e (abbastanza complicato).
Io vi ho avvisate.

Fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto.💌

Grazie per averlo letto. 🗝

IG: @thalia.owl_autrice

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