OLIVIA

By makebaba

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Avete presente la ragazza introversa e un po' sfigata che va a lavorare per il ricco direttore di un'azienda... More

Elenco dei personaggi
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Capitolo XIV
Capitolo XV
Capitolo XVI
Capitolo XVII
Capitolo XVIII
Capitolo XIX
Capitolo XX
Capitolo XXI
Capitolo XXII
Capitolo XXIII
Capitolo XXIV
Capitolo XXV
Capitolo XXVI
Capitolo XXVII
Capitolo XXIX
Capitolo XXX
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo XXVIII

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By makebaba

«Non me ne frega niente, se entro domani mattina non paghi tutte le mensilità arretrate lascerai questa stanza»

Le urla della vedova Flynn, una vecchia americana che gestisce una pensione in questo tremendo sobborgo parigino, rimbombano lungo le scale. Le pareti sono decorate da una orrenda carta parati color malva, sgualcita e strappata in alcuni punti e il gatto della vedova si trova acciambellato sul bancone all'ingresso di questo squallido motel.

La signora Flynn continua ad inveire contro di me dalla cima delle scale mentre la osservo indifferente, poggiata con entrambi i gomiti sul legno del bancone e  una sigaretta tra le labbra.

«Le ho già detto che pagherò tutto e che nel frattempo può usare i soldi della caparra» rispondo calma, mentre prendo un'altra boccata di fumo.

«Questo me lo ha già ripetuto il mese scorso. Cosa crede, che l'anticipo che ha versato basti a coprirla per un anno?» ruggisce la vecchia, trascinandosi claudicante sul retro del bancone.

«E poi, quante volte le ho detto di non fumare qui dentro?» brontola, allungando la mano ossuta verso la sigaretta che stringo tra le labbra. La afferra con un gesto secco e la spegne nell'acqua del vaso dei fiori appassiti che tentano di ravvivare l'ambiente.

«Ma cos–» cerco di protestare, indignata da quel gesto rude.

«Sono seria, Josephine – mi dice con voce ferma – se non mi paghi dovrai veramente andartene»

Mi sporgo verso di lei, facendole gli occhi dolci: «Signora Flynn, non sia così fiscale. Potrei aiutarla con le pulizie, la spesa...quello che vuole. Ma la prego, mi faccia rimanere qui. Non ho altri posti dove andare, lo sa» cerco di convincerla, tentando col vittimismo.

Che poi, tanto vittimismo non è.

Sono a Parigi da sei mesi e non c'è una e dico una cosa che sia andata per il verso giusto. Il costo della vita è troppo elevato e ho finito i risparmi nel giro di poche settimane. Senza una laurea, un titolo valido e la conoscenza perfetta della lingua, poi, trovare un lavoro dignitoso risulta quasi impossibile. Sono andata avanti grazie a lavoretti saltuari e alla clemenza della signora Flynn, ma quest'ultima a quanto pare non sembra voler durare ancora per molto.

«Ma poi non ha detto che le ricordavo la sua nipotina?» aggiungo, sbattendo le ciglia come una bambina innocente.

«Josephine» mi richiama lei: «Non dipende più da me, ho una montagna di bollette da pagare e mio figlio Augustine ha perso il lavoro. Non posso più permettermi di tenere una stanza occupata gratuitamente» si giustifica, mentre negli occhi le aleggia un lieve senso di colpa.

Fuori la notte sta calando e la primavera lascia spazio a un clima mite. Lancio un'occhiata alla strada prima di rivolgermi a lei, rassegnata: «Ha ragione, libererò la stanza adesso. Ho approfittato fin troppo della sua bontà»

Mi allontano dal bancone e inizio a risalire le scale tappezzate dalla moquette polverosa, ignorando la voce della vecchia zoppa che m'implora: «Ma non c'è bisogno di andare via a quest'ora della notte, Josephine! Puoi farlo domattina con la luce del sole»

Mi affaccio alla ringhiera in ferro battuto della scala, guardandola con sufficienza: «Stanotte, domani mattina, cosa cambia?»

Tanto vale cominciare a dormire sotto i ponti sin da subito.

Spalanco con poca grazia la porta della mia stanza, la quale si apre cigolando e acchiappo tutta la mia roba per gettarla alla rinfusa dentro la valigia aperta sul letto. Afferro tutto ciò che ho e mi porto fuori da quel palazzo putrido che, nel bene o nel male, è stato la mia casa negli ultimi mesi.

La notte mi avvolge e un vento fresco accarezza la pelle scoperta delle mie braccia. Pensandoci meglio, il clima non è poi così tanto mite. Sbuffo e mi accovaccio per terra, mettendomi a frugare all'interno del mio zainetto alla ricerca della giacca: me la poggio sulle spalle infreddolite e riprendo la mia camminata solitaria.

Le insegne al neon di un bar rischiarano la stradina, mentre una folla di gente si riversa al di fuori del locale. Ci passo davanti, sul lato opposto del marciapiede, non degnando di uno sguardo i clienti dall'aria poco rassicurante che affollano questo postaccio. Stringono bottiglie di vetro tra le dita e l'odore di fumo e alcol, assieme alle loro risate sguaiate, giunge sino alle mie narici. Quando mi notano, il loro occhio cade rapace su di me. Non mi sorprendo: sono una ragazza giovane, sola, con una valigia in mano in un quartiere sperduto. La preda ideale per questi depravati.

Il loro sghignazzare si fa più forte e subito dopo iniziano a rivolgersi a me con parole francesi che non conosco, ma che suonano volgari persino alle mie orecchie. Decido di non lasciarmi intimorire e di passare oltre ignorandoli, nella speranza di svoltare in una strada più illuminata e sicura di questa. Quando sono quasi allo svincolo però, uno di loro – un uomo di mezza età, calvo e leggermente robusto – attraversa la via diretto verso di me.

La sola vista di lui, che mi si avvicina con un ghigno malevolo, basta a far scattare le mie gambe. Corro veloce, una scarica di adrenalina mi pervade, mentre l'uomo mi rincorre urlandomi contro parole confuse. Il tizio si arresta dopo poco, troppo ubriaco per starmi dietro ma io, terrorizzata, non mi fermo: fuggo ancora per parecchi metri, addentrandomi in viuzze a me sconosciute. Quando sbocco su una strada trafficata, sfinita, mi concedo di riprendere fiato.

Mi poggio di spalle contro il muro di un palazzo e alzo gli occhi verso il cielo. La luna piena illumina la notte parigina, mentre le stelle sono quasi completamente assenti. Il sudore m'impela la fronte e la scia di vento fresco mi fa rabbrividire. Infreddolita, infilo le mani nelle tasche della giacca e le mie dita sfiorano la superficie di una carta ripiegata. 

Faccio roteare gli occhi da una punta all'altra della zona fino a quando non trovo ciò che cerco. Prendo un respiro profondo e mi dirigo un punto preciso: entro all'interno di una cabina telefonica, anonima e sporca al bivio della strada. Le mie dita premono incerte i tasti del telefono, digitando il numero scritto sul bigliettino che avevo in tasca. Appoggio la cornetta all'orecchio, mentre il cuore in martella in petto.

«Allô?» risponde una voce roca, dopo un tempo che mi appare infinito.

«Ehm...Puis-je parler à Léon?» domando incerta.

«Josephine?» lo sento esclamare, mentre tiro un respiro di sollievo.

«Si, sono io» rispondo, tamburellando le dita sul vetro della cabina.

«Certo che ce ne hai messo di tempo per telefonare» scherza lui, ma la mia voce rotta dalle lacrime lo interrompe: «Io non...so dove andare, un tizio mi ha inseguita...ho paura»

«Mio Dio, Josephine. Dimmi dove ti trovi»

Guardando oltre il vetro sudicio della cabina telefonica e gli comunico il nome della prima insegna stradale che leggo: «Rue Dalbury, credo»

«Ho capito, ti vengo a prendere» risponde risoluto. Riattacco la telefonata, mentre mi asciugo le lacrime con il dorso della mano.

Mi odio.

Mi odio per essermi ridotta così, mi odio per aver pianto davanti ad un estraneo, mi odio per il fatto di essere solamente una miserabile e che non mi basta un passaporto nuovo per colmare l'inettitudine che mi porto dentro.

Sono ritornata al punto di partenza: il panorama attorno a me è cambiato, ma sono rimasta sempre io. Vagabondo senza un soldo, una meta e uno scopo: proprio come ai vecchi tempi. Quanto ci vorrà prima che io ritorni a delinquere per potermi sfamare? La mia vita è un circolo vizioso che si ripete ed è come danzare, con le mani legate, sull'orlo di un baratro.

Dopo un po' due fari mi abbagliano, riscuotendomi dal mio momento di autocommiserazione. Mi porto una mano davanti agli occhi, accecata dalla luce intensa dell'auto scura che si è fermata a pochi metri da me. Un rumore di uno sportello che si apre precede l'uscita di un'alta figura
dall'abitacolo. Mentre il ragazzo avanza verso di me, il vento gli scompiglia i capelli scuri. La giacca di pelle aperta, lascia intravedere lo scollo di una canottiera nera.

«Ciao» mi saluta.

«Perdonami se...» tento di dire, stringendomi maggiormente nella giacca.

Léon fa cenno di tacere con la mano: «Per favore, entra in macchina»

Senza farmelo ripetere, m'infilo dentro sedendomi sul sedile del passeggero. Il torpore dell'auto mi investe regalandomi una sensazione di benessere. Léon prende il suo posto in macchina e mette in moto, allontanandosi veloce dal quartiere malfamato nel quale è venuto a recuperarmi.

«Cosa ci facevi lì?» mi domanda lanciandomi un'occhiata furtiva, mentre il centro di Parigi inizia a fare capolino dai finestrini. Strade pulite e palazzi ordinati prendono subito il posto degli edifici fatiscenti che costellano la periferia.

«Ho avuto delle difficoltà» cerco di difendermi rimanendo sul vago, ma non sembra funzionare. Lèon guida tenendo una sola mano sullo sterzo, mentre con l'altra si tocca il mento pensieroso.

«Potevi chiamarmi prima» mi dice in tono di rimprovero.

«Non mi sembrava il caso»

«Ti ho dato il mio numero apposta. So quanto può essere insidiosa Parigi per i nuovi arrivati» mi spiega, mentre allontana la mano dal viso per inserire il cambio: «Ma tu sei testarda, a quanto vedo» aggiunge, girandosi appena verso di me.

«Mi hai salvata» constato semplicemente, guardando brevemente negli occhi questo sconosciuto. Lo dico con leggerezza e, senza neanche lontanamente immaginare, che lo farà per davvero.

Un anno dopo,
Santa Monica.

«Olivia, diglielo tu che è ora di andare a letto» mi supplica Martha, guardandomi occhi imploranti. Nel cortile della sua casa a Santa Monica, Claire scorazza da una parte all'altra del giardino.

«Sì, ma non chiamarmi Olivia» la riprendo: «Potrebbe sentirci»

«Scusami, davvero. Devo farci l'abitudine» risponde la mia amica, mentre alza gli occhi al cielo notturno.

Una brezza gradevole mi accarezza gentile le spalle e – a parte gli schiamazzi di Claire – il quartiere è immerso in un silenzio tranquillo. Martha e Sam si sono sistemati in una zona residenziale di Santa Monica con le villette a schiera e le strade pulite. È quanto di più lontano potesse esistere dal rione popolare in cui vivevamo ad Atlanta, l'una di fianco all'altra.

«Josephine» la correggo a voce alta, ostentando fermezza: «É cosi che devi chiamarmi davanti la bambina»

Martha si volta appena verso di me e ripete: «Zia Josephi...» ma la frase rimane sospesa a metà perché mi scoppia a ridere in faccia.

«É davvero così orribile?»

«Sì, è terribile» afferma tra una risata e l'altra.

Mi passo la lingua tra le labbra per trattenermi, ma un sorriso involontario mi sorge comunque sul viso: «Sembro la vecchia zia acida con questo nome»brontolo, spostando lo sguardo da Martha a Claire. Quest'ultima ha appena deciso di fare un bagno alle bambole azionando la pompa da giardino.

La mia amica strabuzza gli occhi, sconvolta: «Claire! Cosa fai? É mezzanotte!»

Quando riusciamo a mettere finalmente a letto la piccola peste, decidiamo di sederci sui gradini antistanti la porta d'ingresso. Sono in California da meno di ventiquattr'ore e abbiamo molto di cui discutere, finalmente di persona. Mi accendo un sigaretta e ne offro una alla mia amica, la quale rifiuta prontamente.

«Non pensavo avessi ripreso a fumare» esclama, rompendo il silenzio.

«Già» ammetto, tentando di scacciare dalla mente il ricordo della Centrale, il posto dove ho ripreso questa cattiva abitudine.

«E come vanno le cose adesso?» mi chiede, mentre disegno nuvole con la bocca.

«Adesso meglio. Lavoro, ho ripreso a studiare, ho un tetto sulla testa...»

Martha prende un respiro profondo, come se ciò che sta per dire le costasse parecchio: «Io non voglio ritornare sull'argomento ma dannazione, Olivia!Avresti potuto dirmelo al telefono, ti avrei mandato dei soldi»

Chiudo gli occhi, cercando di portare pazienza dinanzi a simili assurdità: «Quante volte hai intenzione di dirlo? Sai che non lo avrei mai fatto e mai lo farò. Vi ho già chiesto molto chiedendovi di occuparvi di Claire, non vi avrei domandato anche dei soldi. E poi lo sai sono cresciuta per strada, in qualche modo me la cavo sempre. Non mi sembrava il caso di darvi ulteriori preoccupazioni» ribatto, nella speranza di chiudere definitivamente l'argomento.

«Potevi prendere i soldi che ti ha lasciato Iago!» insiste la mia migliore amica.

«Non se ne parla nemmeno» sbuffo, mentre faccio cadere un po' di cenere dalla sigaretta.

«Ma eri finita per...va bene, ho capito» s'interrompe, davanti al mio sguardo truce ma poi aggiunge:«Sei troppo cocciuta però» e sbuffa sonoramente.

Allungo una braccio e le cingo le spalle, posandole un bacio tra i capelli che profumano di more.

«Ti voglio un sacco di bene» le sussurro, in una delle mie ormai rare dimostrazioni di affetto.

Sono costretta a staccarmi da lei quando la breve vibrazione del mio cellulare interrompe il momento. Lo tiro fuori dalla tasca, per leggere il contenuto del messaggio che mi è appena arrivato. Nel farlo, gli angoli della mia bocca si piegano leggermente all'insù, tradendo la mia espressione neutra per un attimo.

«È lui, eh?» domanda maliziosa Martha, beccandomi a sorridere come un'idiota davanti allo schermo del cellulare.

«Già» confermo, alzando gli occhi verso di lei.

«Perchè lo dici con quella faccia?» mi punzecchia, sospettosa.

Le rispondo con un ghigno: «E tu perché sei così maledettamente impicciona?»

«Sai che non mi sfugge niente, quindi fai prima a dirmi cosa c'è che non va?» asserisce convinta.

Rinfilo il cellulare in tasca per prendere tempo e mi concedo un profondo respiro prima di parlare: «E che mi ha chiesto di...insomma...io non posso farlo»

«Aspetta, aspetta, aspetta» esclama, cominciando a stringermi un braccio e costringendomi a guardarla dritta in faccia: «Cosa mi stai dicendo? Ti ha chiesto quello che penso io?»

«Sì, mi ha chiesto di sposarlo» mi sfugge in sospiro, mentre chiudo le palpebre per un breve attimo. Quando le riapro, Martha mi guarda con occhi lucidi: «Ma è fantastico. Ti rendi conto? È un ragazzo d'oro! Tu...tu gli risponderai di sì, vero?» dice in tono concitato.

«No, non lo so» rispondo smontando il suo entusiasmo.

«Ma perché? Vivete insieme da un anno!»obietta, allontanando la sua mano da attorno al mio braccio.

«Sì...da quando mi ha raccolta da in mezzo alla strada come un gatto randagio» sbuffo, con lo stomaco che si contorce al solo ricordo di quella notte. Provo ancora una profonda vergogna per quella storia, per il modo in cui mi ero ridotta e nonostante nessuno - nemmeno lui - me lo abbia mai fatto pesare minimamente, io non riesco a ripensarci senza sentirmi a disagio.

«Smettila di tormentarti per quella storia. Piuttosto, dimmi perché non gli hai ancora detto di sì»

Distolgo lo sguardo da Martha, girandomi dall'altra parte e spegnendo la sigaretta calpestandola la suola della mia scarpetta da ginnastica. Non riesco nemmeno ad affrontare l'argomento con la mia migliore amica.

«Olivia...» tenta di dire. Sento il suo sguardo su di me, che mi costringe a guardarla negli occhi: «Vedi è proprio questo il problema: non sa nemmeno che mi chiamo Olivia, il mio vero nome, come potrei accettare di sposarlo?»

Lo sguardo che mi rivolge Martha si riempie di tristezza e lentamente sposta gli occhi verso il cielo: «È solo questo che ti frena?»

«Ti sembra poco?» rispondo in tono ovvio.

Martha sorride appena: «Non intendevo questo, dico...lo ami

La sua domanda, a bruciapelo, mi spiazza ma nel profondo del mio cuore conosco bene la risposta: «Io...gli voglio molto bene»

«Ma non è lui, giusto?» osserva la ragazza al mio fianco: ha dato una risposta semplice al casino che ho in testa. Il solo rimuginare su di lui mi stringe il cuore. Pensarlo mi squarcia ancora dentro come lame affilate.

«No, non è lui» confesso.

«E sentiamo, da quanto non lo vedi? Da quanto non lo senti? Ti ha lasciata sola a Parigi, senza protezione, senza un contatto o un indirizzo, in una fottuta stanza d'ospedale! Dov'era mentre vagabondavi a stomaco vuoto in quei cazzo di sobborghi malfamati? Ah già, che stupida – esplode, colpendosi la fronte con un gesto teatrale – era in giro per il mondo con la scusa del supereroe!»

Si è alzata in piedi gesticolando e ha le guance rosse per l'agitazione. Non tutto ciò che ha detto su Connor è vero, ma lei è la mia migliore amica e sta agendo da tale: cerca di proteggermi, di indirizzarmi verso la scelta migliore per me. O meglio, verso la persona migliore.

Martha continua imperterrita, non lasciandomi nemmeno il tempo di controbattere: «Chi c'era con te quella notte? Chi ti ha aiutata a rimetterti in piedi in quest'ultimi due anni?»

«Sei ingiusta. È anche grazie a Connor se sono qui e non in galera» cerco di farla ragionare, ma mi fulmina con lo sguardo: «Non sono stati i documenti falsi per i quali hai lavorato duramente a salvarti. Sii sincera con te stessa!»

«È tutto giusto quello che dici, ma non posso scegliere chi amare»

«Fai come credi – sospira, rimettendosi a sedere – ma non buttare alle ortiche l'opportunità di vivere una vita felice per colpa di un uomo che non si farà mai più vivo»

«Razionalmente, il tuo discorso non fa una piega e, infondo, lui non mi ha chiesto di aspettarlo» dico, rivolta più a me stessa che a lei.

«Peggio mi sento!» sbotta sarcastica, mentre si sistema nervosa il vestito leggero sulle ginocchia. Vederla così infervorata – cosa estremamente rara –
mi lascia perplessa. Martha è la persona più tranquilla del mondo ma, per le persone che ama, è pronta a cacciare gli artigli. Dopo tutto ciò che le ho fatto partire, non ho il coraggio di contraddirla.

«Cosa mi consigli di fare?» le domando, arrendendomi alla logica dei suoi ragionamenti, mentre tiro fuori il cellulare dalla tasca e comincio a rigirarmelo tra le mani.

«Parlagli. Digli tutto» risponde lentamente, guardando un punto fisso dinanzi a sè.

«Cosa? Sei matta!»

«Fallo. Raccontagli tutto di te, senza tralasciare nulla. Fatti vedere per ciò che sei, senza filtri. Solo così saprai cosa rispondergli»

«E se la prende male? Se mi lascia e va via di casa?» constato dubbiosa, mentre una strana sensazione mi assale alla sola idea di Lèon che fa le valigie.

«E se fosse molto più comprensivo di ciò che pensi?» osserva la mia amica, con l'aria di una che la sa lunga.

«Be, sarebbe...» cerco di dire, mentre inizio a guardare le cose da una nuova prospettiva.

«In entrambi i casi, avrai la tua risposta» conclude Martha, mentre poggia entrambi i palmi sulla pietra del gradino e si dà una spinta per rimettersi in piedi.

Mi posa un bacio sulla guancia, augurandomi la buonanotte e scompare all'interno della sua casa, lasciando la porta socchiusa. Rimasta sola, mi riaccendo un'altra sigaretta e il canto dei grilli fa da sottofondo ai miei pensieri, ancora più confusi di prima.

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