XXX. Nel tempio di Kalì

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La bruciante energia che aveva in corpo era troppa perché Smokey potesse aspettare che tutti i suoi compagni uscissero dall'ingresso sotterraneo: spalancò le ali e spiccò il volo non appena svanì l'eco dell'ultimo rullo di tamburi

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La bruciante energia che aveva in corpo era troppa perché Smokey potesse aspettare che tutti i suoi compagni uscissero dall'ingresso sotterraneo: spalancò le ali e spiccò il volo non appena svanì l'eco dell'ultimo rullo di tamburi.
Sorda a ogni richiamo, sorvolò a bassa quota le centinaia di gradini che in tempi remoti conducevano al tempio i fedeli di Kalì, allora sprovvisti di ali o di branchie.
Sentiva riecheggiare quei tamburi maledetti nei battiti frenetici del suo cuore:
"Sono vicini, oggi come allora!" pensò, rammentando che anche quindici anni prima quel suono era stato il segnale che aveva dato il via all'imboscata. Per quanto aguzzasse la vista e gli altri sensi, però, non fu in grado di scorgere nulla oltre il fitto fogliame della jungla; colse invece un'immagine che le strinse la gola e la costrinse ad atterrare bruscamente, spaventando un giaguaro appostato nei paraggi.

Con passo malfermo, Smokey si avvicinò allo scheletro che giaceva scomposto nel mezzo del sentiero: col tempo, le piogge avevano lavato via ogni altro segno del massacro, ma quel corpo era rimasto lì, ignorato anche dai brigatisti che avevano recuperato i resti dei loro compagni. E gli animali che lo avevano spolpato, portandosi via qualche pezzo, non erano stati più clementi.
Eppure Smokey aveva ancora un ricordo ben definito dei lineamenti squadrati, dei lunghi capelli corvini e dei baffetti curatissimi che sovrastavano un sorriso astuto. Sostò accanto al cadavere per diversi minuti, nell'attesa che gli altri la raggiungessero: la smania di porre fine a quella storia era svanita, sostituita dalla pietà e dal rimorso.
Manik le si accostò in silenzio sotto la luce del sole ormai del tutto sorto, si inginocchiò e con un profondo timore reverenziale, quasi temesse di romperlo al minimo tocco, sollevò il teschio e lo fissò a lungo.
I suoi occhi scuri erano colmi di lacrime. 

«Ora puoi andare, se vuoi» mormorò gentilmente Smokey, spostando imbarazzata il peso del corpo da un piede all'altro.
In quel momento le sembrava che su quelle scale ci fossero solo lei e Manik, uniti da una manciata di ossa.
«Hai fatto ciò che ti ho chiesto, non ci devi più nulla. Va', riporta tuo padre a casa e torna a prenderci questa sera.»

L'indiano non esitò neanche un istante:
«Vi seguirò fino alla cima di questa montagna, ma non è a voi che lo devo» mormorò, raccogliendo le ossa del padre in una pila ordinata.

Senza degnare né lei né gli altri di una seconda occhiata, riprese a salire i gradini: il passo era svelto e sicuro, la treccia oscillava contro la sua schiena al ritmo dei suoi passi orgogliosi e solo un leggero tremito nelle spalle incurvate rivelava il suo profondo dolore.

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