cap5

48 2 0
                                    

Dovevo fare un gesto indimenticabile per poter essere soddisfatta di me stessa.

Per tutto il mese di ottobre avevo deciso di non rivolgere neanche uno sguardo al professor Giudici.

Alla mia prima interrogazione di matematica avevo svolto gli esercizi che mi aveva assegnato correttamente, e lo stesso feci con fisica, ma non avevo mai alzato gli occhi dalla lavagna o dal pavimento.

Non sapevo bene cosa mi fosse preso, però.

Probabilmente mi ero offesa troppo per una cosa stupida, inutile, ma ormai avevo fatto la mi decisione, e non potevo tornare indietro.

Nonostante ciò in questo mese avevo imparato a conoscerlo, sebbene senza guardarlo o senza rivolgergli mai la parola direttamente.

Conoscevo le sue cadenze quando parlava, conoscevo il suo metodo impeccabile di insegnamento, e dal suo tono di voce riuscivo a capire il suo stato d'animo.

Quando non avevi la possibilità di capire una persona guardandola negli occhi, la voce era il mezzo migliore.

Novembre iniziò con le giornate che si volevano accorciare sempre di più, e con le foglie che cadevano dagli alberi e che facevano rumore quando ci camminavi sopra.

Avevo da sempre avuto un rapporto di amore-odio con questo mese: da una parte cominciava un mese in cui potevi vestirti più pesante, coprendo il corpo con cui dovevi convivere continuamente e che magari sotto sotto non ti piaceva più di tanto, ma dall'altra le piogge e il freddo dopo un po' venivano a noia.

La voglia di andare a scuola diminuiva sempre di più, e non si aspettava altro che le vacanze natalizie.

Quel lunedì mattina in cui mi alzai in ritardo dal letto si prospettava essere il peggiore lunedì dall'inizio della scuola.

Arrivai a scuola di fretta, vestita di nero come il mio umore e mezza addormentata. Decisi di prendere un caffè velocemente alle macchinette, per evitare di addormentarmi durante l'ora di matematica.

Inserii i soldi e aspettai di poter prendere il caffè, ma non andò tutto come mi aspettavo. Il bicchiere rimase incastrato nella macchinetta, e provai a tirarlo invano. A forza di tirare riuscii a togliere il bicchiere ma il caffè mi finì direttamente sulla felpa che indossavo.

"Grandioso!" dissi spazientita, per poi girarmi di scatto per dirigermi in classe.

Dietro di me però mi ritrovai il professor Giudici, ma non feci a tempo a vederlo che gli andai addosso con una tazzina di caffè vuota e una felpa macchiata.

"Scusi" dissi, per poi cambiare direzione.

"Aspetta" mi disse, e con la sua mano mi toccò leggermente la mia. Questo contatto mi diede come una scarica elettrica che mi inondò tutto il corpo.

"Tieni questa" mi disse porgendomi la sua giacca di pelle.

"Non si preoccupi" gli risposi, senza mai incontrare i suoi occhi.

"Per favore, prendila"

In quel momento suonò la campanella, e non ebbi il tempo di ribattere che lui mi pose la giacca in mano.

"Non accetto un no come risposta. Adesso vieni a lezione"

Arrivammo in classe insieme, però decise di far entrare prima me. Nel frattempo mi ero tolta la felpa e avevo tenuto in mano la sua giacca titubante, indecisa su cosa farmene.

In quest'aula faceva veramente molto freddo, i termosifoni non funzionavano e io indossavo solo una maglietta a maniche corte. Fantastico.

Il professore cominciò l'appello, e appena arrivò al mio nome decisi di guardarlo.

Dopo un mese, un lunghissimo mese, decisi di rincontrare finalmente i suoi occhi. Quegli occhi profondi, che sembravano riuscire a capirmi senza il bisogno di parlare. Quegli occhi che non mi giudicavano, ma che mi comprendevano.

Riuscii a vedere la sorpresa nel suo sguardo, o probabilmente fu solo una mia impressione. Quanto avrei voluto che fosse vero, quanto avrei voluto che io significassi qualcosa per lui.

"Corsi, non hai freddo? Fossi in te mi coprirei"

Arrossii. Ci provai a non farlo, ma più cercai di rimanere impassibile, e più il mio volto andava a fuoco.

Presi la sua giacca e la indossai. Mi stava larga, ma sembrava adattarsi bene al mio corpo. Provai una strana e piacevole sensazione di calore, che avrei voluto non finisse mai.

Mi stavo rammollendo. Ma forse, andava bene così...

No, ero forte, ero autonoma, e non dovevo sicuramente dipendere da nessuno. Sicuramente, non dal mio professore di matematica e fisica.

Leonardo per tutta la lezione cercò di iniziare un discorso con me, ma con scarsi risultati. Tutto ciò a cui riuscivo a pensare erano quegli occhi neri.

Il professore interrogò, e io mi lasciai cullare dalla sua voce profonda e soave. Avrei potuto ascoltarlo parlare di matematica all'infinito e non mi sarei stancata mai. Riusciva a dare alle sue materie un fascino che nessun altro sarebbe riuscito a dare.

Non mi attraeva neanche più di tanto ormai il suo aspetto fisico, ma la sua intelligenza, le sue parole.

"Ragazzi, le olimpiadi di matematica saranno la prossima settimana. Chi è interessato all'intervallo venga a cercarmi in aula professori. Arrivederci"

Le due ore successive con la Sforzi passarono lentamente. La professoressa aveva spiegato per due ore ininterrotte, e io l'avevo seguita con in sottofondo Leonardo che mi raccontava le sue esperienze del sabato sera in giro per la città a rimorchiare ragazze.

Non mi interessava più di lui però. Sentirlo parlare delle sue conquiste non mi infastidiva più come prima. Non mi intristivo se lo immaginavo con un'altra ragazza, non cercavo più di fare colpo su di lui inutilmente. Ero riuscita a togliermi questo tarlo dalla testa, ma solo per lasciare spazio ad un altro molto più fastidioso.

Suonò finalmente la campanella, e mi diressi in sala professori con Leonardo e Fabrizio, il secchione della classe.

"Ragazzi, qua ci sono i moduli per le olimpiadi. Riportatemeli firmati entro domani l'altro"

"Grazie, arrivederci" dissero in coro i miei due compagni. Fecero per uscire dall'aula, ma Leonardo, non vedendomi al loro seguito, si fermò.

"Vieni Vale?"

Ero come bloccata davanti alla scrivania dell'aula professori, immobilizzata. Non riuscivo neanche a rispondere qualcosa di sensato a Leonardo.

"Devo parlarle io un attimo, voi andate pure" disse il professore. Leonardo mi guardò confuso, e io annuii impercettibilmente per farlo andare via. Non volevo parlargli, volevo solo andarmene, ma il mio corpo non voleva seguire i miei pensieri.

"Ti sei degnata di guardarmi oggi"

"Si" risposi fredda.

"Si" ripetè. Ci guardammo negli occhi per più di un minuto, senza il bisogno di dire niente. Poi si alzò e mi si avvicinò, sorpassando la scrivania.

Lo spazio tra noi due si accorciò sempre di più, per diventare di solamente una decina di centimetri.

"Mi sono mancati i tuoi occhi" mi disse, aprendo il suo volto con un sorriso.

"Si" dissi. Con tutta la confusione che avevo in testa, riuscivo a rispondere solo questo. Gli porsi la sua giacca di pelle che avevo in mano e mi voltai per andare verso la porta dell'aula.

"Anche i suoi" dissi prima di uscire.

È solo una moltiplicazioneWhere stories live. Discover now