Capitolo IV

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Quella notte dovevamo riposare, avrei dovuto riposare, ma non ci riuscivo. C'era silenzio, i soldati dormivano, gli elmetti d'acciaio proteggevano gli occhi dalla prossima alba, sul naso chini, chini come se potessero sentire il dolore degli uomini di Caporetto, già, come se potessero prostrarsi per rispetto. L'ansia quella notte era venuta a tormentarmi, mi giravo e rigiravo nella branda come se potessi voltare lo sguardo alle preoccupazioni, e quelle, ignorate, sparire tra le tenebre. Pensavo a mia madre, ai miei fratelli, ai camerati caduti pochi giorni prima e allo stesso destino che avrei potuto avere anch'io; un peso sull'anima mi stava schiacciando, a ogni pensiero mi irrigidivo e un brivido di freddo mi passava per tutto il corpo. Mi misi seduto e con le mani levai il sudore freddo dalla fronte e dal collo, dovevo cambiare aria, ambiente. Forse stavo uscendo fuori di testa, questo pensai tra me e me, tutto intorno a me era così assurdo, uomini che scherzano davanti alla morte, persone uscite fuori di senno che, dicevano da dopo le esplosioni, venivano portate via a forza perché andavano in giro farfugliando parole incomprensibili, tutto era assurdo lì. Raccolsi il moschetto e uscì senza fare rumore, salendo uno a uno i gradini fino alla botola. La postazione in cui mi trovavo era situatag su di una collina, sopraelevata rispetto alle trincee. Mi guardai intorno: a Nord, direzione del fronte, desolazione e oscurità avvolgevano ogni cosa, a Sud, verso valle, potevo scorgere le luci di un paesino che scacciavano l'uniformità delle tenebre notturne; quella notte il cielo era privo di nuvole, neanche un filo di vento o il ronzio lontano di un aeroplano, riuscivo a distinguere chiaramente le diverse costellazioni, l'Orsa Maggiore, la minore, Scorpione e Cassiopea; mi sembrava di sentire ancora mio padre vicino che col suo ditone, allora molto piè grande del mio,mi indicava le stelle e le univa. Ero rilassato, ero calmo come tutto intorno a me, ricordai che Puccio mi aveva dato una stecca di sigarette ma l'avevo lasciata nell'altra uniforme; scesi le scale del rifugio e la presi silenziosamente ma uscendo ricordai di non avere da accendere perciò mi diressi al campo dei feriti per chiedere, lì sicuramente avrei trovato qualcuno sveglio. L'ospedale da campo era molto vicino alla posizione del nostro reggimento, giusto circa sessanta ottanta metri perciò non impiegai molto tempo. Appena girai l'angolo notai subito un uomo che suscitò in me curiosità: indossava una divisa da ufficiale e si distingueva subito il grado di tenente nel colletto, grado che in genere portano i giovani ufficiali, lui però di un giovane non aveva benché la minima apparenza, era calvo ed erano evidenti i segni dell'età nel viso, portava una benda sull'occhio ma pur ferito era ancora sul campo. Seduto su una panca dietro la tenda dell'ospedale,usando l'illuminazione,scriveva nervosamente sul suo taccuino; sotto di lui tre o quattro fogli accartocciati, presumibilmente non gli piaceva ciò che c'era scritto. Decido di avvicinarmi per domandare se potesse accendermi la sigaretta, inizialmente mi notò camminare ma tornò subito a ciò che stava facendo, poi, mi sedetti vicino a lui. Con la sigaretta in bocca gli feci cenno

 "Può?" gli chiesi facendo intendere di volere che me l'accendesse;

Distolse lo sguardo dal suo taccuino e si limitò ad annuire, cacciò la mano dentro la giacca e tolse fuori il suo accendino, pareva antico e pregiato, avvicinai il capo chiudendo le mani e mi fece il favore. Tornò subito alla sua attività e per tre minuti ancora rimase così mentre mi godevo la mia sigaretta notturna, poi, ripose il quadernino nella sua borsa a tracolla in pelle, si alzò e si dileguò tra i bui cunicoli delle trincee. Terminai la mia sigaretta, quell'uomo mi era rimasto impresso nella mente e non riuscivo a togliermelo dalla testa; mi chinai per stare più comodo e notai che aveva lasciato i fogli accartocciati per terra. Ne raccolsi uno, ora non posso ricordare chiaramente cosa ci fosse scritto su quella precisa carta, era una bozza però, una bozza di un'opera che sarebbe stata pubblicata di lì a poco. Cari lettori vi allego la pagina corrispondente a cui si riferiva la bozza, alla fine capirete chi incontrai quella notte...

"Nel fango le scatole di latta vuote, gli stracci, le bottiglie rotte, le tavole, le cartucce, i caschi sformati, i sacchi sventrati, qualche scarpa fradicia. Gli uomini stracchi russano. Non arrivano altri feriti.Quelli dell'ambulanza dormono, lungo le pareti, sotto le loro croci rosse. Non c'è una goccia d'acqua. Ho sete. Non posso neppure inumidirmi gli occhi. Da tre notti non mi spoglio, non mi lavo... Il terrore che tutti manifestano quando si affaccia la possibilità che io sia fatto prigioniero. Ma, in ogni caso, porto sempre con me la liberazione: il veleno istantaneo, nella piccola scatola su cui è lo smalto delle pigne: quella che metto sempre davanti al ritrattino di mia madre. (Mia madre non mi incita ad andare nel pericolo. E' sempre la madre che teme. Perché? Mi dice ogni tanto all'orecchio, con la sua voce di quando io ero un fanciullo:"N' nci ì '")."

Gabriele D'Annunzio

Elmetti d'acciaioWhere stories live. Discover now