Capitolo Ⅰ

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Sibilavano sopra le nostre teste, freddi e senza scrupoli; 

mi trovavo steso nel fango, ero solo nella trincea, a farmi compagnia c'era solo il mio capoplotone, o meglio, quel che ne restava. Giaceva lì, nel sangue e nel  fango, occhi sgranati contemplavano il firmamento schiarito dalla luna. Mi sollevai con gran fatica da terra aiutandomi col moschetto, con lo sguardo superai i sacchi di sabbia e per vari secondi rimasi pietrificato da ciò che mi si presentò agli occhi: le mitragliatrici che assordavano i miei camerati, ormai fredde al gelo notturno, tacevano, le carcasse dell'artiglieria con loro, i cadaveri tutt'intorno. Echeggiavano in lontananza le grida di chi ferito cercava invano aiuto e i lamenti di chi ,prossimo alla morte, chiedeva la redenzione per i propri peccati. Avevo paura, eccome se ne avevo, speravo in una via di fuga che non mi avesse esposto al fuoco dei franchi tiratori nemici ma un pensiero tutt'a un tratto mi scosse la mente, non potevo abbandonare la posizione, infrangere gli ordini e disertare, rimasi immobile per qualche secondo, mi ricordo che tra i sensi di colpa pensai < Come potrò vivere sapendo di essere fuggito da qua, che dirò ai miei figli, che ho venduto l'onore per la vita?> decisi di rimanere. Mi sedetti in terra appoggiato ai sacchi e con le gambe raccolte, tenevo il moschetto stretto tra le mani mentre speravo secondo per secondo che nessuna avanguardia austroungarica sarebbe venuta verso la postazione. Rimasi nella stessa posizione per tutta la notte. La quiete notturna, specialmente in guerra quando non si può o non si riesce a dormire, ha dei caratteri tutti suoi; essa ti porta al contrario del silenzio a dei pensieri assordanti che riempiono la mente, forse più nostalgia che paura. La mia testa vagava per le strade della città eterna, vedevo la mia casa, i miei amici di infanzia e mia madre a cui spesso ho pensato in questi giorni. Mio padre non riuscì a superare un male incurabile e morì qualche anno prima di quella maledetta guerra mentre i miei fratelli erano emigrati e vivevano lontani, motivo per cui nostra madre, prima che partissi per il fronte, l'avevo accompagnata a stare nella casa di mio zio. Ricordo quel posto, una casa grande in mezzo ai campi lasciata dai nonni al loro figlio primogenito; lui aveva pagato gli studi dopo la scuola dell'obbligo e mi ritenevo molto fortunato al tempo, io studiavo mentre gli altri dovevano lavorare ma lì, lì in trincea non esistevano più differenze, c'erano calzolai e librai, giovani intellettuali e ragazzi di campagna, contadini e filosofi, tutti chiamati alle armi senza distinzione di classe o provenienza. Si era instaurato un legame tra me e i compagni del 79° fanteria durante la marcia verso Nord, ricordo di avere legato con un ragazzo che prima della guerra lavorava in un caffè, Puccini, lo chiamavamo 'Puccio' un po' per il cognome e un po' per il mestiere. Non sapevo quanti di loro fossero ancora vivi e se fossero restati, l'indomani avrei fatto un'amara scoperta.

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