2. Modalità robot

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“Ho lasciato dentro le chiavi dell'appartamento!”

A che ti servono?

Mi bloccai pochi secondi per rifletterci. Fu una decisione formulata sul momento, ma anche una presa di coscienza.

“A nulla” risposi.

Allora vattene, Cristo. Veloce, veloce, gridava Software.

Le mie mani tremavano. Premetti il pulsante in metallo lucido e in un attimo il terrore mi pervase. Che cosa avrei fatto se l’ascensore non fosse arrivato? Tutto il piano poteva andare in frantumi per un'unica variabile fuori dal mio controllo? Quanto sarebbe stato complesso fare quattro rampe di scale con due scatoloni?

Ma l’ascensore arrivò. L'attesa era stata estenuante. Mi infilai nella cabina e trassi a me gli scatoloni dall’interno. Battei l’indice sul tasto “zero” in successione tre, quattro, cinque volte. Il meccanismo del portello si azionò. Mi sentii mancare l'aria. Il pavimento si mosse. Scesi per due piani a occhi serrati. Poi il portello si riaprì.

Veloce, mi intimò Software. Veloce, veloce!

Mi affacciai nell’atrio. Vidi, attraverso il portone, che il piazzale era ancora deserto. Trascinai gli scatoloni fuori dalla cabina, premetti il pulsante dell’apriporta, diedi una spallata allo stipite e uscii all’aperto. L’aria era gelida.

Trova un riparo, cosicché lui non possa vederti, nel caso tornasse prima dell’arrivo del taxi.

Trainai gli scatoloni con entrambe le mani lungo la pavimentazione esterna per più di quindici metri. Camminando all’indietro superai e girai attorno a due angoli. Poi mi fermai. Ero schermata rispetto al piazzale, sul lato opposto rispetto all'entrata del parcheggio e lontana dal cono di luce di qualsiasi lampione. Ero avvolta nel buio. Mi appoggiai con la schiena al muro. Mi affidai all’udito da quel momento in poi. Davanti a me c’era una siepe e, al di là, un condominio, identico al nostro, con le finestre serrate.

Passarono quattro, cinque minuti. Poi il taxi arrivò. Io mi sporsi per osservare oltre lo spigolo: la vettura – bianca, con degli adesivi rossi applicati sulla portiera – era impegnata in un’inversione di marcia. Il motore si spense e la portiera si aprì. Ne scese un uomo tarchiato, brizzolato, con una giacca a vento di colore verde. Io ripercorsi all’indietro gli stessi quindici metri finché non fui in vista.

«Reale?» domandò.

«Sono io.» Mi palesai. Scrutò il mio volto per, credo, non più di un secondo. E scorsi qualcosa di strano, nella sua espressione: gli occhi appena sbarrati, un tremolio nel labbro inferiore. “Perché mi ha guardato così?” chiesi a Software.

Non pensarci, rispose Software. Non ti serve, adesso.

«Ho due scatoloni» aggiunsi. L’uomo annuì e distolse lo sguardo. Andò al posto del conducente, tirò una levetta: il bagagliaio produsse una piccola vibrazione e io mi avvicinai al retro del veicolo. Lui mi raggiunse, sollevò il primo scatolone, lo ripose all'interno. Mi tolsi lo zaino e gli domandai se potevo tenerlo nell’abitacolo. Acconsentì, perciò salii e lo infilai tra le caviglie.

“Jamshed Khan” lessi sul cartellino appeso al cruscotto. Mi rimpicciolii nel sedile e mi allacciai la cintura di sicurezza. Il signor Khan risalì a sua volta; si allacciò la cintura e chiuse la portiera.

«La destinazione?»

La luce dell'abitacolo si spense. Non seppi subito cosa rispondere. “Cosa gli dico?” chiesi a Software. Software mi suggerì di prendere tempo e di iniziare col dare un indirizzo qualsiasi. 

«Vada alla stazione ferroviaria» dissi al tassista. Più tardi avrei dovuto affrontare quella falla del mio piano.

Il mezzo si mise in moto e partì. Percorse la salita che, dal piazzale, portava fino allo stop. I fanali di un veicolo di piccole dimensioni proveniente dalla direzione contraria puntarono verso di noi.

Sta’ giù!

E mi piegai in avanti, la testa tra le gambe. Il rombo di quell’auto passò oltre il taxi e si allontanò alle nostre spalle, verso il mio condominio. Rialzai la testa e guardai oltre il lunotto posteriore. Era una Fiat Panda, perciò, chiunque ci fosse stato all’interno, non era lui. Mi rigirai in avanti. Percepii in maniera indistinta, di nuovo, l’espressione allarmata del signor Khan, che mi aveva lanciato un’occhiata di sbieco, solo per un attimo, attraverso il buio. Mi rifiutai di indagare e piantai le pupille sullo schienale del sedile del guidatore. Stavamo per superare una rotonda; presto ci saremmo immessi in Via Giuliano da Sangallo.

“Software” chiamai. Software era silenziosa.

Hai finito, Chiara, mi informò. Sei fuori.

“Un’azione dietro l’altra” pensai.

E proprio in quel momento un furgone arrivò dalla carreggiata opposta, con i fari alti puntati di fronte a sé. Per un attimo, il bagliore mi investì il volto, tanto forte che strizzai gli occhi per non farmi accecare. Ciò mi fece confondere e dimenticai le istruzioni: guardai dentro allo specchietto retrovisore, davanti a me. E la vidi, inondata di luce. La mia faccia.

Modalità robot – interrotta.

RecursionWhere stories live. Discover now