Nera come la pece

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Nero. Nera. Nera come la pece la sostanza in cui sono invischiata. Un pozzo profondo in cui annaspo. Prendo fiato. Non sprofondo, non emergo, resto. Riprendo fiato.

"Aggrappati a me", mi dice qualcuno. Una voce profonda, che non so da dove arrivi.

Un'ancora di salvezza, mi dico. Allungo una mano nel nero che mi avvolge, cerco un appiglio, una maniera veloce per venirne fuori. Non succede nulla. Resto.

È cominciata così la mia giornata: ho aperto gli occhi e guardato il soffitto della camera. Nero. Nero come una notte senza luna. Prendo il cellulare, spingo il pulsante per accenderlo. Le 3:06.

Perché è così buio, mi chiedo, di solito sul soffitto sono disegnate le righe della luce dei lampioni che penetra dalle imposte; vuoi vedere che mi sono dimenticata un'altra volta di pagare la bolletta del condominio?

Mi alzo, apro la finestra, poi la persiana. Le luci sono spente.

«Ci mancava anche questa», impreco a voce alta. «Non bastano le normali rogne. Pure il condominio. Non mi faccio mancare nulla. E quel maledetto sogno! Riuscirò mai a liberarmene?»

Il nero. È vero che amo il nero, vesto quasi sempre di nero, ma quel sogno tormenta le mie notti. Rimango spesso sveglia fino a tardi, saluto il nuovo giorno, o la notte se più vi piace, lavorando al computer e mi metto sotto le lenzuola solo quando gli occhi cominciano a lacrimare. Dormo poco e pure male. Un po' perché ho tanto di quel lavoro arretrato che i giorni dovrebbero durare almeno settantadue ore per poter recuperare, ma soprattutto cerco, nel lavoro, di allontanarmi proprio dai sogni come questo. È una situazione che non riesco a reggere più, ed è come se quel sogno mi indichi qualcosa. O qualcuno. No, non riesco a comprenderlo.

Vado in bagno e poi torno a letto anche se già so che non riuscirò ad addormentarmi. La mannaia del "condomino accusatore" sta per colpirmi con tutta la sua forza. Parare i colpi ormai è diventato un must, e non solo dai condomini. Una costante che riempie le mie giornate, già fitte di impegni istituzionali e non.

Riprendo il cellulare. Le 3:11. L'unica cosa che posso fare è quella di mettermi a leggere, magari qualche nuova proposta editoriale, con la speranza che sia così noiosa da farmi prendere sonno.

Apro la casella di posta elettronica "del direttore", scorro le e-mail fino a trovarne una che sembra interessante. Ha persino l'oggetto. La apro. Corpo della mail: nullo. Ci sono solo tre file: il romanzo, contrassegnato come "ultima stesura", la biografia e il "riassunto".

Come a scuola, penso.

Leggo prima di tutto la biografia, che poi... non è una biografia, ma un curriculum vitae, dove lo scrivente elenca tutti i lavori che ha effettuato, le lingue che conosce, i premi letterari vinti, con chi è sposato, da quanto, quanti figli ha e pure gli hobby.

Preciso, nemmeno dovessi assumerlo.

Naturalmente "scrive da sempre".

Mi sono sempre chiesta che cosa significhi questa dichiarazione e ogni volta che leggo questo tipo di cose faccio i confronti con me stessa.

Mi ricordo di aver preso per la prima volta una matita in mano all'asilo, coloravo solo i disegni che la suora mi metteva sul banco e pure fuori dagli spazi. Che se quel giorno c'era suor Amelia, andava tutto a gonfie vele e non mi beccavo qualche punizione. Se c'era la superiora, di cui adesso mi sfugge il nome, erano cazzi amari. Tornavo a casa quasi sempre con il culo a strisce. E guai a lamentarmi con i miei genitori, ne avrei prese altrettante. Poi è venuto il momento delle elementari: avevo una maestra bravissima, gentile, sempre sorridente e tanto buona. Con lei riempivo quaderni di asticelle e tondini, e prendevo sempre dieci. In terza elementare "la maestra buona" è andata in pensione e l'ha sostituita il maestro Pietro. Lui ci faceva scrivere "i pensierini", ci portava in giardino a fare ginnastica e ci insegnava a conoscere la direzione del vento: si infilava l'indice in bocca, poi lo sfilava, alzava il braccio con l'indice puntato al cielo e ci invitava a fare altrettanto. Il primo tema credo di averlo scritto in prima media. Un periodo da cancellare. Tre anni buttati al vento.

Scaccio i ricordi e torno al curriculum. Il tipo è nato nel '58. Cinque anni prima di me.

Penso: se ha fatto pressappoco il mio stesso percorso scolastico, allora anche io posso dire che "scrivo da sempre". Devo ricordami di mettere questa cosa anche sulla mia biografia. Sogghigno.

Passo al riassunto. Due righe in croce: "La strada da percorrere, per Carmela, è lunga e tortuosa, ma dietro l'angolo possono aspettarti sorprese. Riuscirà a ritrovare l'amore?"

Sospiro, e chiunque può capire perché. Guardo il soffitto, che è ancora nero, chiudo il file del riassunto e apro il file del romanzo. Cerco di scacciare il solito pensiero "se il buon giorno si vede dal mattino...", ma non c'è nulla da fare, il "mio campanello" ormai è attivo e pimpante. Voglio dargli comunque una possibilità, in fondo, ma molto in fondo, sono buona anche io come la mia maestra delle elementari. Nelle prime cinque righe leggo: "In quella mattina di fine ottobre le foglie spinte dal vento giravano impetuosamente, mentre Lucia, camminando per il viale, guardava il cielo grigio. Girando l'angolo di un palazzo, si mise a piovere e aprendo l'ombrello colpì violentemente un passante. Lo guardò scusandosi e improvvisamente realizzò che l'aveva ritrovato."

Beh, mi dico, risolto il quesito del riassunto, posso anche chiudere qui.

Leggo qualche altra riga, salto qualche pagina, leggo ancora, ma ormai ho capito che non devo perderci altro tempo. Un po' mi dispiace, inviare la classica mail di rifiuto non mi fa stare bene, ma devo. Come diceva quello? È un duro lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. Chiudo il file e guardo l'ora: le 3:56. Ugo ronfa che è una bellezza. Ah, Ugo è il mio beagle ed è parte integrante della mia famiglia. Integrante in tutti i sensi.

Nera a prescindereWhere stories live. Discover now