Capitolo 2

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Eccolo lì, la barba scura ben curata, i capelli laccati ancora tutti al loro posto nonostante l'età avanzata e quegli occhi di ghiaccio che sembravano scrutarmi l'anima.
Mio padre era in piedi davanti a me con addosso un grembiule banco con su ricamata la scritta "the greatest dad"
Sembrava una presa per il culo. 

Gli passai affianco senza nemmeno
alzare lo sguardo. 
«Bene» risposi freddo.
Lui mi prese per il borsone costringendomi a girarmi. 
«Ma che cos'hai, ti ho fatto una domanda»
«Ed io ti ho risposto»
«Ti sembra il modo?»
«Si raccoglie ciò che si semina»
Papà dischiuse leggermente le labbra, sorpreso dalla risposta. 
«Ho avuto un impegno di lavoro»
«Come sempre» sussurrai. 

A quelle parole scattò
«Sei solo il solito ingrato! Hai avuto tutto, ti ho dato tutto, cosa dovresti volere di più!?» 
«Forse quello che tu non sei mai stato per me» la mia voce era spezzata per lo sforzo di trattenere le le lacrime «un padre»
«È ora di crescere Paolo! Io lavoro per mantenere te ed è così che mi ripaghi? Colpevolizzandomi per non essere venuto ad una di quelle stupide competizioni? Se non ti piace come vanno le cose in questa casa, vattene! Hai diciotto anni non sei obbligato a restare!» sbraitò. 
Restai a bocca aperta.

«Cosa sta succedendo qui?» la voce confusa di mia madre mi riscosse. 
Lanciai il borsone in un angolo del salotto e salii le scale di corsa diretto alla mia camera.
A metà strada sentii le voci dei miei genitori discutere animatamente ma non ci feci troppo caso. Avevo fin troppi pensieri per la mente. 

Arrivato nella mia stanza chiusi la porta a chiave e mi buttai sul letto.
La voce di mio padre mi rimbombava in testa “se non ti piace vattene” “non sei obbligato a restare”

Non lo pensava davvero, o forse sì. 
Era questo che ero per lui, una bocca in più da sfamare?

Rabbia, era questo che sentivo pura e semplice rabbia. 
Non riuscivo nemmeno ad essere triste per ciò che mi aveva detto. 
Nel mio cuore c'era posto soltanto per l'odio.
Il mio petto sembrava andare in fiamme, lacrime di rabbia mi rigavano il viso ed i palmi delle mani mi iniziavano a fare male a causa della violenza con cui avevo stretto i pugni.
Mi alzai di scatto, la testa iniziò a pulsare, ma a me non importava. 

Voleva che me ne andassi? Bene. Per una volta avrei fatto il bravo figlio e lo avrei accontentato. 

Aprii l'armadio e afferrai lo zaino da campeggio di mia madre, era davvero enorme, steso diventava la metà di me. 
Lo lasciai a terra e mi arrampicai per raggiungere l'ultima mensola del mio armadio, dove tenevo un sacco a pelo e lo stuoino. 

Essere andato in campeggio non mi era mai sembrato così utile. 

Staccai il primo cassetto della mia scrivania e lo rovesciai sul letto. Inserii la mano nello scompartimento sottostante per prendere la busta con tutti i miei risparmi. 
Diedi una rapida contata, dovevano essere all'incirca trecento euro.
Abbastanza per sopravvivere qualche settimana prima di trovare un modo per guadagnare altri. 

Mi si dentro dei vestiti ed un po' di biancheria, tiriai fuori dei jeans comodi, una maglia, una felpa, la mia giacca militare e mi vestii in tutta fretta.

Presi anche il mio berretto preferito, un cappello in lana con ricamata sopra la scritta Angel, era uno dei soprannomi che mi piacevano di più, me lo avevano affibbiato alle elementari ed ormai mi ci ero affezionato. 

Girovagai un po' per la stanza in cerca di qualcos'altro da portare. 
Decisi di inserire anche un quaderno, dove trascrissi alcuni contatti e qualche penna, una torcia, una coperta e un cuscinetto gonfiabile. 

Ero pronto. 

Mi misi in tasca il coltellino svizzero e l'Ipod con le cuffiette. 
Lasciai il cellulare sul tavolo, non volevo che nessuno avesse modo di contattarmi, e feci per andarmene quando un oggetto attirò la mia attenzione, la mia chitarra. 
Era lì, nell'angolo, nascosta dalla pila di vestiti che avevo lasciato sul pavimento. 

Ebbi una stretta a cuore, non potevo lasciarla lì. 
La musica era una delle uniche cose che non mi aveva mai abbandonato. 
Le giornate, le notti, passate a strimpellare stupidi motivetti per la grande gioia dei vicini. 
Presi la custodia rigida e ci misi dentro lo strumento, assicurandomi che al suo interno ci fossero anche plettri e canzoniere e la fissai allo zaino in modo che non mi desse fastidio. 

Mi alzai in piedi e mi diressi verso la porta, stavo per aprirla quando mi bloccai, non potevo uscire dalla porta principale, c'erano ancora i miei genitori di sotto e non avevo intenzione di incontrarli.
 
La chiusi a doppia mandata e mi fermai un attimo a pensare prima di prendere una decisione. 
Sarei uscito dalla finestra. 
Lo avevo già fatto varie volte, non era difficile, l'unica mia preoccupazione era lo zaino ma scacciai presto il pensiero. 

La aprii e mi sedetti sul bordo, dandomi una leggera spinta saltai atterrando sul cornicione della finestra sottostante, il peso dello zaino mi sbilanciò indietro per un attimo ma riuscii ad aggrapparmi alla grondaia. 
Appena riaquistai l'equilibrio da lì saltare a terra fu un gioco da ragazzi.

Vorrei potervi dire che non mi voltai mai indietro, ma non posso farlo. Restai a guardare la mia casa per un po', la mia vecchia e bella casa dalle pareti ormai non più tanto bianche e dall'aria severa. 

Un urlo squarciò il silenzio della sera
«Paolo! Apri questa dannata porta, non puoi restare chiuso li dentro per sempre!» 

Il momento di serenità svaní e quelle parole mi riportarono alla realtà.
 
Dovevo andare.
 
Presi una stradina laterale che mi avrebbe portato in città.

Camminando i miei pensieri cominciarono a vagare, tornando però sempre a quelle ormai maledette  parole. 

L'arte della stradaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora