Capitolo 31

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Adam non si fa vivo per tutto il giorno.

Le poche volte che ci siamo incontrati, mi ha ignorata.

Dopo cena, decido di uscire di nascosto.

L'aria serale è fredda e pungente.

Mi stringo le braccia al petto per ripararmi al meglio dal freddo.

Non so cosa diavolo sia venuta a fare, o cosa mi sia passato per la testa, ma ora sono qui, davanti alla lapide di Margaret, all'interno del cimitero, posto a poca distanza dal centro, alle porte della città. 

Nella foto la mia amica sorride. Ha otto anni. Le mancano i denti davanti. Sorrido, anch'io, ma nulla a che vedere con il suo sorriso spensierato. Il mio è carico di nostalgia ed amarezza, di pesi sulle spalle che rappresentano gli anni vissuti e che hanno scacciato la spensieratezza dell'infanzia. Forse più velocemente del solito.

- Cosa vuoi da me? - sussurro alla foto.

Ora so per certo che ho perso la testa. Sono completamente pazza.

Aspetto. Un minuto. Due. Tre.

Finché non mi risveglio dal mio torpore, e il freddo ritorna a farsi sentire.

Sospiro. - Mi dispiace, Margaret. Nulla potrà mai spazzare via il mio senso di colpa, lo sai.

Quando torno a casa, le luci sono spente.

Facendo attenzione a non fare il minimo rumore, salgo piano le scale. Percorro lentamente il corridoio e apro la porta della mia stanza. Mi infilo dentro, e richiudo la porta. Faccio per accendere le luci e tirare un sospiro di sollievo, quando due mani mi afferrano da dietro.

Faccio per urlare, ma il mio grido è bloccato in gola; una mano mi copre la bocca, impedendo ad alcun suono di uscire.

Mi dibatto, cerco di ribellarmi, ma la presa del mio assalitore è forte e ben salda.

Le mie mani sono bloccate dietro la schiena, ma nonostante la presa sia decisa, è allo stesso tempo abbastanza delicata da non farmi male.

Un lieve sentore di acqua di colonia mi arriva alle narici.

- Dove diavolo eri? - mi sussurra Adam all'orecchio.

Riesco a liberare un braccio dalla sua presa e gli tiro una gomitata.

Adam geme di dolore.

- Mi hai fatto preoccupare tantissimo. Sono venuto qui, e poi non ti ho più vista e...non puoi immaginare lo spavento che mi sono preso.

Mi libera dalla sua stretta e mi toglie la mano dalla bocca.

- Ma si può sapere che diavolo ti è preso?! - urlo.

- Per tutto il giorno non ti fai vedere, e poi mi aggredisci appena entro in camera mia!

- Lo so, Lenah. Lo so. Ma dovevo riflettere. Tu...non mi dici niente, io...mi sento impotente. Poi, quando vengo da te per chiarire la situazione, non ti trovo. Dov'eri? È quasi mezzanotte e tu te ne vai in giro da sola.

- Non mi serve la predica di un genitore - dico scansandomi da lui.

- Ora, se vuoi scusarmi, vorrei dormire.

- Che cosa?

- Mi hai sentita.

- Tutto qui? Me ne dovrei andare? Io voglio aiutarti.

- Non mi serve un babysitter, Adam. So cavarmela da sola. Come ho sempre fatto.

Scuote il capo.

- Non ci casco, Lenah. Tu fai la dura per allontanarmi. Ti è successo qualcosa. Sei costretta a fare così. Io lo so che lo sei. So che tieni a me quanto io tengo a te. E so, che non avresti mai detto una cosa del genere.

- Fuori.

- Mi stai chiedendo di uscire dalla stanza? O dalla tua vita?

Deglutisco.

Il labbro inferiore mi trema, il sopracciglio destro ha uno scatto.

- Ti sto chiedendo di uscire dalla mia vita.

Adam annuisce, carezzandosi il mento con una mano. 

Poi se ne va.

Non sbatte la porta, non mi urla contro.

Mantiene la calma.

Ed è la cosa peggiore che abbia mai potuto fare.

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