Chapter 2

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Pioveva, la mattina in cui Harry e Louis si incontrarono per la seconda volta in due giorni.
Louis, piuttosto eccitato all’idea del suo secondo giorno di lavoro, vagava per il reparto malattie terminali e congenite, inciampando più volte in quelle scarpe ortopediche così scomode ma che avevano costretto far indossare.
Indossava anche la divisa da infermiere, motivo per lui di profondo orgoglio.
Aveva studiato per diventare medico a tutti gli effetti, ma anzitutto doveva ambientarsi tra pazienti e sale operatorie, per cui, il signor Jhon, gli aveva affidato quel ruolo temporaneo, affiancandolo al turno di una certa Elisabeth, che non aveva la fama di essere molto simpatica e socievole.
Elisabeth in quel momento non si stava facendo trovare, e Louis, tra quelle scarpe, la pioggia che batteva incessantemente contro i vetri dei corridoi, il chiacchiericcio generale, stava perdendo la pazienza.
Girovagare per i corridoi senza meta non aveva senso per lui, così decise di tornare nella zona accanto l’ufficio del suo caporeparto, chissà che non vedesse ricci familiari spuntare da una porta accanto.
Dopo aver evitato lo scontro con un infermiere e un paziente anziano, in pigiama, che camminava a fatica usando come appoggio un carrellino, si ritrovò esattamente nello stesso punto del giorno precedente.
Stesso corridoio, stessa macchia marroncina nella parte sinistra del pavimento, stessa porta in legno chiaro.
L’unica differenza era una delle stanze per i pazienti; aveva la porta spalancata, che dava su una stanza bianco cadaverico e un lettino dalle coperte sfatte.
Louis odiava curiosare, ma questa volta il suo istinto ebbe la meglio, e vi si affacciò all’interno, timidamente, usando come scusa la ricerca dell’infermiera Elisabeth.
La voce gli si strozzò in gola quando notò il ragazzo del giorno prima, stessa tuta, stessi capelli arruffati.
Era in piedi, di fronte la finestra chiusa, le mani aperte poggiate sul vetro.
Si divertiva a lasciare sbuffi caldi sulla superficie trasparente, disegnando poi con un dito pasticci di vario genere.
Louis trattenne una risata e, guardandosi prima attorno, mise un piede nella stanza.
L’ambiente era troppo triste per l’ospite che conteneva: un lettino, un tavolo ricco di scartoffie e cartoline, un bagno microscopico.
- “Ciao nuovo infermiere” lo apostrofò il riccio, senza voltarsi, con un tono di scherno.
Louis trattenne il fiato, rimanendo impalato al centro della stanza.
- “C-ciao, stavo cercando l’infermiera Elisabeth, sai dove posso trovarla?” chiese timidamente il moro.
Qui Harry scoppiò a ridere, e si voltò verso l’altro.
Louis si trattenne dal portarsi una mano al petto, il suo cuore era indeciso se scoppiare per il suono cristallino della sua risata o se per quei pozzi verdi che gli erano comparsi davanti.
Si sentiva strano, non si era mai comportato così goffamente con qualcuno.
Lui era quello socievole, dalla battuta sempre pronta e la testa sulle spalle, non il ragazzo che fruga nelle stanze degli altri, usando scuse banali, per rivedere qualcuno, maschio per giunta.
Il riccio scosse la testa di fronte l’espressione perplessa e sgomenta dell’altro, quindi si avvicinò al suo lettino, buttandovisi sopra in malo modo.
- “Dimmi, hai scambiato la mia stanza per un ufficio smistamento? Non conosco Elisabeth, sarà stata assunta da poco.” Iniziò tranquillo, portandosi le mani dietro la testa e non distogliendo lo sguardo da Louis.
- “Se non rimani imbambolato ancora per molto possiamo intavolare una conversazione”
Di nuovo quel tono di scherno.
Louis si strinse nelle spalle, sfoggiando uno dei suoi migliori sorrisi e fissando intensamente il giovane.
- “Si hai ragione scusami, sono nuovo e non riesco ancora ad ambientarmi, sono Louis comunque, Tomlinson” provò l’altro, cercando di calmarsi.
Harry fece una smorfia divertita.
- “Bene Louis comunque Tomlinson, non hai del lavoro da sbrigare? Credo abbiano appena gridato il tuo nome dalla segreteria. “ continuò con tono serio ma espressione divertita Harry.
Louis si sentì per l’ennesima volta un idiota.
Chiuse gli occhi per un attimo, si morse il labbro, indugiò, poi, alzando goffamente una mano come cenno di saluto, uscì di corsa dalla stanza diretto alla segreteria.
In testa ancora la risata di quel ragazzo sconosciuto.
 
 - “Allora Boo, come è andato il tuo secondo giorno di lavoro?” la domanda allegra di Johannah si disperse tra i pianti delle gemelle nell’altra stanza, l’urlo confuso di Felicite e Lottie che litigavano a tavola e le imprecazioni trattenute di Mark, il padre di Louis, mentre parlava al telefono in cucina di lavoro.
Louis strinse gli occhi e si sporse verso la madre, seduta di fronte a lui, per cercare di leggerne almeno il labiale.
Roteò gli occhi al cielo.
- “Ma’, non mi chiamare più Boo, ti prego” protestò lui con tono lamentoso, facendo sogghignare la madre, intenta a tagliarsi del cibo nel piatto.
Louis iniziò a giocherellare con la forchetta: si sentiva lo stomaco chiuso, forse per l’aver passato tutta la giornata tra malati.
- “Comunque bene dai. Scusa ma non ho più fame e sono stanco morto, vado a dormire” così dicendo, Louis trascinò la sedia, alzandosi in piedi e dando un veloce bacio sulla fronte alla madre, che aveva un’espressione intristita per il cambio d’umore del figlio.
- “Notte tesoro” biascicò lei, tornando a mangiare.
Louis si voltò un attimo verso il tavolo, dando un veloce cenno di saluto alle sue sorelle, che non lo guardarono minimamente, troppo prese a litigare su qualcosa di stupido.
Si stava già pregustando l’idea di stendersi sul suo letto, poggiare la guancia sul suo morbido cuscino, spogliarsi, quando la voce possente del padre gli giunse alle orecchie. Facendolo irrigidire sul posto.
Le due sorelle maggiori continuarono i loro battibecchi, come la madre continuò a mangiare, ma quando Mark corse dal figlio stringendo tra le mani il suo cercapersone, che vibrava insistentemente, la casa divenne incredibilmente silenziosa, anche le gemelle smisero di piangere, finalmente addormentate.
- “Louis ascoltami quando ti chiamo, è da ore che lo faccio, tieni rispondi”
Louis rimase a fissare il padre incerto, poi, riscosso dai suoi pensieri, tornò alla realtà recuperando il cercapersone e leggendone il messaggio.
Dire che sbiancò all’istante è dire poco.
Sentì le gambe cedere, il mondo girargli vorticosamente attorno, tanto che dovette portarsi una mano alla fronte.
- “Cosa dice Lou?” la voce squillante di Felicite.
- “ Già, cosa dice?” continuò la madre, con tono sorpreso.
Louis guardò entrambe, poi il padre, poi di nuovo l’aggeggio che stringeva tra le mani.
- “Un paziente ha bisogno di soccorso, dicono che ha chiesto esplicamene di me, a quanto pare devo correre” deglutì quindi a fatica, avviandosi in fretta all’attaccapanni in soggiorno e infilandosi la giacca, quindi prese telefono e chiavi di casa di scorta, salutò tutti con un grido e uscì di casa, sbattendosi la porta alle spalle.
Doveva essere per forza lui.
Lui era l’unico a sapere il suo nome.
Il respiro gli si smorzò in petto, mentre accelerò il passo verso l’ospedale. 

Thank you, Lou. {L.S.}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora