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Uno spruzzo di colore qua e là, una pennellata distratta, le tempere rovesciate sul pavimento in legno della sua piccola mansarda in affitto. Quella era ormai la normalità per Kim Taehyung, quasi ventenne, dai capelli lunghi fino alla nuca e l'aspetto trasandato: dei lunghi e morbidi pantaloni color marroncino gli ricadevano lungo le gambe, con qualche macchia di vernice alla fine, mentre sopra un maglioncino color khaki, con le maniche arrotolate fino al gomito, lo proteggeva dal leggero freddo di quella giornata autunnale.
A dare un tocco di finta eleganza, all'orecchio sinistro, un unico orecchino di perla pendente, che gli donavano una apparenza quasi androgina.

Kim Taehyung non era mai stato un tipo normale: i suoi compagni di classe, a Daegu, nella sua vecchia città, lo avevano sempre emarginato. Lui era sempre quello strano, quello pazzo, l'artista maledetto che a lezione non faceva altro che scarabocchiare sul suo quadernetto di carta giallognola; lui era sempre quello che, quando i suoi attacchi d'ira si impossessavano di lui, era paragonato al diavolo, e guai a dissentire in quella comunità di cristiani convinti. 

L'anno precedente, il 7 agosto 1983 per essere precisi, Taehyung si era diplomato - o come amava definirlo lui, aveva preso la licenza per uscire di prigione, finalmente- e non ci aveva pensato un attimo a scappare via da tutto. D'altronde, non gli restava nessuno: nè una madre, nè un padre a cui dare conto, solo una zia cieca e vecchia, che non si preoccupava minimamente di lui. La vecchia decrepita non si accorgeva neanche della sua presenza, quando tornava a casa, o quando cucinava per lei, o quando lavava il bagno, il salotto, quando la portava a letto: e dalle sue labbra non era mai neanche fuoriuscito un grazie o un qualcosa che gli assomigliasse. Mai. Mai una parola di gratitudine, un gesto carino. Per lei era sempre stata un'abitudine, quella di avere il ragazzo attorno, ad aiutarla, a sostenerla, nonostante lo trattasse male; ma ormai, Taehyung aveva preso la sua decisione, e non si sarebbe tirato indietro. 

Così, con lo zaino in spalla, pieno di biancheria, qualche vestito e qualche cosa da mettere sotto i denti -un pezzo di pane, del kimchi e dell'uva- si era messo in cammino. Verso dove? Neanche lui lo sapeva. Amava dire in giro di essere in cammino verso l'ignoto, verso un futuro migliore, verso un posto tranquillo, ma la verità è che neanche lui sapeva dove fosse diretto.

''Dove il cuore mi porta'', ''Dove l'aria mi spinge'', ''Dove sento di appartenere'' erano solo scuse che si erano ripresentate nella sua testa come plausibili, e che propinava ad ogni qualsiasi sconosciuto che gli si avvicinasse, incuriosito dal suo grosso zaino e dai suoi lineamenti delicati, voglioso di conoscere la storia di quel ragazzo. A dirla tutta, Kim Taehyung aveva seguito la scia dei girasoli lungo tutta la strada che aveva imboccato sin dall'inizio: dovunque vedesse girasoli, era là che andava. Si ritrovò a percorrere un cammino di giallo e nero per notti intere, riposandosi a volte in qualche rifugio di fortuna, abbandonato da qualcuno in precedenza. Al mattino, quando il sole sorgeva, riprendeva il suo camminare, e camminare, e camminare fino allo sfinimento, sentendo le gambe andargli a fuoco. Girovagò a vuoto per circa una settimana, senza trovare nulla che lo soddisfasse appieno: una dolce nonnina si era offerta di farlo stare a casa sua a patto che lavorasse i campi poichè lei ormai era troppo vecchia e non riusciva a star dietro a tutto quel lavoro, ma rifiutò a malincuore; non era sfuggito alla sua quotidiana routine per stare al servizio di altri, seppur ben più piacevoli e gentili. 

Era assetato di ispirazione, cercava qualcosa che, in quella triste realtà del dopoguerra, gli desse una ragione per vivere e dipingere. Qualcosa di divino, ultraterreno, che gli succhiasse tutto l'estro dal corpo.

Le sue scarpe alte, ormai consumate per il troppo camminare, e sporche a causa dei sentieri sterrati, gli dolevano immensamente, la vista gli si era appannata a causa della pioggia incessante che da quella mattina batteva sul suo capo e sui suoi vestiti, completamente zuppi. Gli veniva da piangere, quasi, anche le sue mutande erano bagnate, i suoi calzini, sentiva l'acqua persino nelle orecchie. Voleva fermarsi, al riparo sotto qualcosa, un albero, una casetta, ma era in mezzo al nulla, letteralmente. 

Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, aprendo la bocca per far uscire tutta la sua frustrazione, nella speranza che quel semplice gesto lo aiutasse a scaricare un po' di rabbia. «Che Cazzo!!! Fanculo! Quindi è così che mi punisci visto che non credo in te, eh?! » esclamò, aprendo le braccia, con lo sguardo rivolto al cielo «Dio misericordioso un cazzo!» sputò infine acido, chiudendo gli occhi e strizzandoli fra loro. Kim Taehyung era sempre stato ateo, sin da quando ne aveva memoria: non aveva mai creduto in tutte quelle stronzate, la religione, l'idolatrare una persona che non esisteva e che aveva dei fantomatici superpoteri, era una cosa da ignoranti. E questo suo essere non credente, era stato uno dei tanti motivi per i quali era sempre stato l'emarginato della situazione: per una normale famiglia, per un normale studente, era impensabile una cosa del genere: nella società degli anni ottanta, essere cristiani era come essere... vivi. 

Era così assorto nei suoi pensieri, nel suo maledire mentalmente un qualcuno che non esisteva neanche, che non si accorse dell'auto rumorosa che stava percorrendo quel sentiero, e che si approcciava a lui. Il moro si girò, impaurito che potesse investirlo, e subito si fece al lato della strada sterrata. Però, pensò poi, che forse quella era la sua occasione. Si sbracciò così, al meglio che potesse, facendo segno sotto la pioggia all'auto che continuava il suo percorso, e urlò un ''HEY'' per richiamare l'attenzione del guidatore. Qualche secondo dopo, la macchina rossa si fermò a qualche metro da lui, e Taehyung corse incontro al suo salvatore -o alla sua salvatrice- col fiatone e un grosso sorriso sulle labbra.

«Amico, così morirai! Salta su, dai!» un uomo sulla trentina, coi capelli scuri e delle fossette sulle guance lo invitò ad entrare, spalancando la portiera di quell'auto scassata appena. «Grazie! Ti devo un favore!» sorrise ancora il moro, lanciando nei sedili posteriori il suo zainone «Scusami, ti sto inzuppando la macchina...» continuò Taehyung, mortificato, saltando sul sedile e richiudendosi la portiera alle spalle.

«Nah, tranquillo. Anzi forse devo ringraziarti sai, è così sporca di terriccio che le servirebbe proprio una lavata. » rise il guidatore, mettendo nuovamente in moto il veicolo e facendosi strada per quel sentiero, che aveva assunto un aspetto più fangoso. «Sono Namjoon.» continuò lo sconosciuto, presentandosi al vagabondo. «Io sono Taehyung, piacere!» rispose entusiasta il minore, seppur bagnato dalla testa ai piedi.
«Come mai eri solo in mezzo al nulla e senza ombrello?» la curiosità non potè che farsi strada in Namjoon, che indossava ancora la sua tuta da lavoro sporca di olio. 
«Sto cercando un posto dove stare... Mi sono appena diplomato e...» sospirò indeciso su cosa dire, ma l'altro lo precedette e parlò al posto suo.
«...sei scappato di casa.» 

Beh, non era proprio così, ma da qualcosa era pur scappato: era scappato dalla normalità, dalla noiosa quotidianità in cerca di qualcosa di migliore. Così annuì, si disse che Namjoon non doveva proprio sapere tutto, gli bastava la spiegazione più semplice.
«Aish i ragazzi...» scosse la testa sorridendo «Così spensierati... Comunque puoi stare da me, se ti va, magari anche solo per stasera. Abito a Goyang, è un paesino di campagna e non c'è molto da fare, ma almeno hai un tetto sulla testa.»

Fu così che il viaggio di Kim Taehyung verso una vita nuova, potè considerarsi ufficialmente iniziato.



Beh allora? Che ne ve pare? Vi piace questo Taehyung?
Tra l'altro come avete potuto notare, la storia non è ambientata ai giorni nostri, bensì negli anni 80! Cosa vorrà dire....?

Pray for my soul | VminDove le storie prendono vita. Scoprilo ora