44. La Regina degli Accattoni

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Le dita della mia mano destra scorrono lungo tutto il fusto di una colonnina della balaustra fino a serrarsi bruscamente attorno alla base. La mia caduta si arresta di colpo.

Sono appesa sul precipizio con una mano sola. I miei piedi ciondolano nel vuoto. Sotto, lontanissima, si allarga la distesa pallida di Ys.

Non guardare giù, non guardare giù, non guardare giù.

Con un ansito mi do una spinta e cerco di agguantare un sostegno anche con la sinistra. Sì, la colonnina accanto dovrebbe andare bene. I muscoli del braccio e della spalla urlano. Per poco il marmo liscio non guizza via dal mio palmo sudato, ma riesco ad aggrapparmi.

Il sangue è un ronzio nelle orecchie. È il canto mortale dell'abisso.

Affacciato al parapetto, Farkas solleva le sopracciglia, "Devi rendere sempre tutto difficile, tu."

Con un piede schiaccia le mie dita. Stringo i denti per il dolore, ma non mollo. Faccio forza su entrambe le mani ancorate alle colonnine e puntello le gambe sulla facciata della torre. La suola delle scarpe scivola. Ci riprovo.

Non guardare giù, non guardare...

Farkas tira indietro il piede per colpire di nuovo, ma io sposto le mani verso l'alto. Con un ruggito che mi nasce dal profondo della gola, un po' per la paura e un po' per lo sforzo disumano,  mi isso verso il davanzale della balaustra. Le mie braccia tremano.

Non appena il mio corpo raggiunge la lastra del davanzale, Farkas si allunga per cercare di spingermi di nuovo. Ma stavolta sono pronta. E disperata. Il terrore che mi ha messo addosso la carezza del vuoto ancora non si è dissipato.

Non guardare giù.

Mi proietto oltre la balaustra, addosso al Re degli Accattoni. Lo travolgo con tutto il mio corpo e rotolo insieme a lui sul pavimento.

Il mio cuore minaccia di impazzire. Sono al sicuro sulla terrazza.

Il sollievo è una droga da cui non devo lasciarmi annebbiare. Mi raddrizzo sulle gambe prima che possa farlo Farkas. Sono su di lui, lo colpisco con un calcio allo sterno che lo costringe ad accartocciarsi su se stesso.

"Questo è per l'arena" ringhio.

Un altro calcio. Stavola assestato più in basso, in mezzo alle costole.

"Questo è per aver tentato di uccidere Bev."

Ancora. E ancora.

"E questo è per aver tentato di uccidere me."

Arno emette gemiti deboli e soffocati. Non si muove, le braccia avvolte strette attorno al torace nel tentativo di proteggersi. I capelli sono una cortina sparpagliata sul suo viso pallido.

Arretro. Adesso, solo adesso, mi concedo di voltarmi indietro in direzione del tempietto.

Lo faccio nel momento in cui l'ultimo dei profughi si avventa contro l'unico telepate ancora in piedi. Le labbra dello stregone non smettono di pronunciare l'incantesimo che ha scelto nemmeno quando una lama corta e rugginosa descrive un arco per andare ad affondare nel suo fianco.

Una tempesta di fuoco fiorisce tra le mani dello stregone morente. Attecchisce alle vesti del suo avversario, che si ritrae con uno strillo di terrore. È troppo tardi: le fiamme avvolgono lo sgherro di Farkas come un sudario incandescente, crescono roventi a rischiarare la notte. Posso avvertirne fin qui il calore che mi secca la pelle.

Pochi attimi ed è tutto finito. I due uomini crollano a terra ai margini del tempietto, esanimi. Immobili. Rapido com'è nato e cresciuto, il fuoco si estingue, ridotto a braci rossastre su un corpo carbonizzato.

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