Cassata e arancini

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Domenico si passò una mano sul volto, guardando Niccolò fermarsi per la quinta volta davanti al menù di un bar. Quello si passò una mano sul volto, osservando con fare interessato l'elenco di granite che il posto offriva. Ne aveva già mangiate quattro – la quinta sosta aveva riguardato un arancino -, ma il fatto che fossero molto più buone di quelle a cui era abituato al mare non gli faceva rimpiangere la faccia di Domenico quando tirava fuori i soldi dal portafogli.

In fondo, aveva promesso di pagargli del cibo.

«Ora filiamo diretti a casa che non ho voglia di perdere altro tempo. Voglio disfarmi della valigia!» sbottò Domenico non appena si furono allontanati dal bar.

«Va bene, va bene. Ma calmino, eh. Non muore nessuno se prendo qualche granita».

«Forse i tuoi ultimi due neuroni: proteggili dal freddo».

«L'arancino è servito a regalare un po' di calore».

«Minchia, che scemo che sei. Come faccio a sopportare una settimana di convivenza forzata con te?»

«Chiedilo a Marta, lei ha architettato tutto. Io non so come fare a tornare ad Arezzo senza compagnia... non avrò nessuno a cui rompere le scatole».

"E meno male" pensò Domenico svoltando in uno dei vicoli che sboccavano nella via. «Siamo quasi arrivati. Stiamo in un palazzo qua in fondo: al primo piano i nonni, a quello di sopra la mia famiglia. Cerca di comportarti bene e, per favore, evita una discussione con mio padre. Non voglio vedere la tua foto al TG1 in un servizio su un omicidio».

«Vedi? Sono scemi gli architetti».

Domenico si passò una mano sul volto, promettendosi di cercare di affogarlo in mare o lanciarlo nella bocca dell'Etna inscenando un sacrificio a qualche divinità dalla natura poco benevola.

Domenico si fermò davanti a un portone, pigiando poi il tasto di un campanello. Niccolò alzò lo sguardo, osservando alcuni balconi pieni di vasi di fiori che sembravano sul punto di cadere in testa ai passanti e muri dall'aspetto scalcinato, causato dal clima e dal tempo.

«Ma', sono io!» sbottò Domenico dopo che una voce femminile aveva chiesto con poca grazia chi fosse.

«Oh, tesoro! Ti davamo per disperso! Vieni, vieni!» rispose la donna in dialetto stretto. Niccolò guardò confuso l'altro, che rispose con un'alzata di spalle e un semplice: «Ha detto di salire».

Sbuffando e inveendo per il caldo che nemmeno le granite erano riuscite a scacciare, Niccolò arrivò senza fiato al secondo piano: l'ascensore non esisteva e le scale apparivano vecchie, ripide e strette. Avrebbe voluto appoggiare la valigia sul pianerottolo, ma lo stesso, non troppo ampio, era occupato da un golden retriever color caramello.

«Un tempo era più piccolo, comunque ti presento Cassy, il cui nome completo sarebbe Cassata».

«Hai chiamato Cassata il tuo cane?» chiese Niccolò allungando una mano verso il cane che iniziò ad annusarla prima di dare ampie leccate.

«Volevo chiamarla Ricotta, ma era troppo poco bianca. Quindi ho optato per Cassata».

Niccolò spostò lo sguardo tra Domenico e il cane, iniziando poi ad accarezzarlo sulla testa e a parargli con un tono da bambino delle elementari.

«Oh, vedo che il tuo ragazzo ha già fatto amicizia con Cassy!»

Niccolò alzò lo sguardo, trovandosi di fronte a una donna piuttosto bassa, ma che non passava inosservata: aveva la testa coperta da un numero indefinito di bigodini che stringevano varie ciocche di capelli di un rosso acceso. Indossava un vestito decorato con fiori e macchiato in più punti di vari colori – conoscendo sua madre e le macchie su una certa maglietta, Niccolò pensò che anche lei fosse una fanatica del colore fatto in casa.

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