L'incubo

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Era sempre stato la pecora nera della sua famiglia: essere un Mostreloso significava avere mille occhi, corna deformi, denti aguzzi, o tante altre cose mostruose, lui, invece, era esattamente una palla di pelo bianco, grande quanto un gatto, da due occhi azzurri quanto il cielo; quello stesso cielo che non gli era permesso mai di vedere, ma che sognava ad occhi aperti. Per questo avrebbe voluto farsi chiamare Ciel, anche se non era un nome che incuteva terrore, ma come poteva lui crearne se non era munito neanche di denti spaventosi o lunghe code velenose, ma solo di due piccole corna che i familiari erano soliti chiamare bozzi, in modo dispregiativo.

Vivere a Mostrelopolis, tra tutte quelle creature alte e spaventose, nelle oscurità del sottocittà, non era molto rassicurante e i suoi familiari non facevano altro che appesantire ulteriormente quelle sensazioni che provava ogni volta che in lui non vedeva nulla di mostruoso; poteva tranquillamente nascondersi in mezzo a un branco di peluche e nessun umano se ne sarebbe reso conto. Era la vergogna della famiglia.

Il compito dei Mostrelosi era quello di spaventare i bambini, e strappare loro i terribili incubi di cui si cibavano. Più erano terribili gli incubi, più erano forti i Mostrelosi che se li mangiavano. Per quello suo padre era quello più forte, con i suoi mille denti affilati e gli occhi iniettati di sangue, e lui il più debole. Addirittura suo fratello più piccolo stava per eguagliarlo e Ciel non ne aveva ancora mangiato uno.

Ma come poteva spiegare che era il ragazzino a cui era stato affidato a mettere paura a lui?

Lui, che era il mostro, aveva paura.

Aveva provato un paio di volte a spaventarlo, ma quel ragazzino sembrava non avere paura di nulla. Era sicuro che tutto quello che vedeva era solo frutto della sua mente e che con la sua spada laser lo avrebbe sconfitto, così appena era apparso per farlo tremare quello era scoppiato a ridere, divertito, urlando «acchiappa il mostro!». Così era sceso dal letto tutto elettrizzato e lo aveva preso a spadate talmente forte che aveva provato dolore per tutto il corpo. Era riuscito a scappare, non senza avere sulla pelle, sotto gli strati di pelo, alcuni lividi per le botte prese.

Non si era fatto più vedere finchè una volta il ragazzino non lo aveva cercato sotto il letto, sollevando il lembo di coperta, felice alla sua vista per poter provare con un bersaglio mobile la sua nuova pistola finta, che sparava palline di colore. Era tornato a casa strisciando completamente imbrattato di colore, perdendo molto tempo per lavarlo tutto via, con con le lacrime agli occhi, e nel vederlo così, in quello stato pietoso, gli altri erano scoppiati a ridere. Avevano detto che sarebbe potuto andare anche a Dolcepolis, accanto ad Unicorni e Fatine, e lo avrebbero preso sicuro a dare sogni tranquilli e divertenti ai bambini, che tanto con quell’aspetto non si sarebbe fatto paura neanche da solo.

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