Rumori.

Qualcuno che correva, una sagoma nera che le passava vicinissima andando verso il capannone. Strinse ancora più forte la mascella mentre si tuffava di nuovo nel nero più nero, frustate di foglie in faccia, graffi, pietre dure, aghi a infilarsi nei piedi, tutto preferibile a tornare lì dentro, tutto, tutto, tutto. Aveva corso per altri mille anni, per pochi minuti, e il bosco era finito, che bosco non era ma solo una striscia di alberi aggrappati gli uni agli altri. Davanti a sé quella campagna incerta, abbandonata e quindi indomita, vigorosa. La luna illuminava tutto ma le ombre la facevano da padrone. Non aveva direzione

morirò di freddo

prima dell'alba non sarebbe stata in grado di capire dove fosse il nord

morirò di freddo

e anche una volta capitolo non avrebbe potuto che tirare a sorte, per scegliere dove andare. Vasco aveva nominato un paese, ma non se lo sarebbe mai ricordato, e comunque diceva che era lontano, in auto ci voleva mezz'ora, conoscendo la strada, a piedi facevano in tempo a riprenderla mille volte. Se si voltava le sembrava di riuscire a vedere ancora un riverbero delle luci dell'auto. Sperava che gli altri non si svegliassero, che non li vedessero.

Davvero te ne frega qualcosa?

Davvero.

Uno schiocco.

Leggero ma reale, evidente. Si voltò intorno, due, tre volte, al punto da non saper riprendere la posizione iniziale. Poteva essere un altro mostro del mostro, quello che veniva a piedi dietro gli altri due per sorprendere le fanciulle scappate. O poteva essere un lupo. Il freddo la invase di colpo, era una notte d'inverno, lei era nuda e lei stava rallentando. Sentì i crampi che le mordevano il ventre, il corpo crollava, si piegò in avanti, l'intestino che voleva lasciar andare, il pianto che veniva su dalla gola con un bolo di catarro e vomito, il dolore al fianco richiamò i piedi, che richiamarono i crampi, che le tirarono fuori un lamento che era un principio di pianto, e allora la luce fortissima, in faccia, insopportabile. E la voce bassa, che pareva venire dal cuore della terra.

«Che ti è successo, picceré?»

E allora trovò la forza di urlare.

*

Il mostro che non era un mostro l'aveva presa per le spalle e scrollata, mentre lei cercava in tutti i modi di portarsi la scheggia al collo, ma la mano era rigida di freddo e quella le cadeva e allora si artigliava la faccia. Quindi lui aveva tuonato

«Ferma! Polizia! Agente Francesco Caparzo!»

e la mente le si era disfatta, come un castello di sabbia. Poliziotto. Picceré. No, poliziotto. Lo aveva guardato.

«Lei è un poliziotto? Veramente?»

le parole le erano biascicate fuori insieme alle poche forze rimaste, le gambe l'avevano mollata, ma lui la teneva ancora e aveva accompagnato il movimento, ecco, ci era voluto un attimo. Il mostro che non era un mostro era una montagna d'uomo, calvo, dal fiato acre, senza occhi né viso perché schermato ancora dalla luce fortissima e azzurra proveniente da un cellulare che teneva in mano insieme alla sua spalla. Anche l'altra mano era occupata, ma da una pistola.

Ci stavano trovando. Sono scappata per niente.

Le veniva quasi da ridere. Il poliziotto, gigantesco, incombeva su di lei, le lasciava le spalle, spegneva la torcia.

«Dove stanno le gabbie?» aveva chiesto.

E Anna finalmente era scoppiata a ridere e a piangere insieme, e avrebbe voluto rispondere ma non conosceva più le parole che servivano, così si era limitata a stendere il braccio verso il punto da cui era venuta, verso la luce dell'auto, verso il capannone. L'uomo aveva mosso un passo e il sollievo era stato subito sostituito dal panico. Si era aggrappata alle sue gambe, come una bambina che non vuole lasciar partire il padre.

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