LA CHIAVE

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«Cosa stai facendo?»
Martina abbassò la testa verso il pianale dell'auto con un'espressione di raccapriccio.
«Non ti starai... togliendo le scarpe!»
Nino -magro, emaciato, indossava una salopette e una felpa  dagli orli sfilacciati - le rimandò un sorriso di denti gialli macchiati di nicotina.
«Sì, perché? Non si può?»
Martina si strinse nel suo cappottino blu di Liu-Jo.
«Che orrore!» squittì mentre cercava di allontanarsi il più possibile da Nino. L'altro non ci fece caso, e tentò di scalzare le Adidas scalcagnate senza slacciare le stringhe. Ma le scarpe offrirono una strenua resistenza e lui fu costretto ad abbassarsi per slacciarle.
«Ahhh... » sospirò di soddisfazione.
L'esasperazione di Martina era invece arrivata all'apice.
«Tu... tu.... hai due calzini diversi!»
Era un avvenimento che travalicava la sua possibilità di accettazione, come se avesse visto il Papa vestito di jeans e felpa.
Nino si rimirò i piedi come se li vedesse per la prima volta.
«Come...? Già. Stamattina non riuscivo a trovarli, così ho preso i primi che mi sono capitati...»
Leone intervenne nella discussione.
«Avete mai riflettuto sullo strano fenomeno della sparizione dei calzini? Ne metti due in lavatrice e quando apri lo sportello, oplà, uno è scomparso. Ed è inutile infilare la mano dentro, far scivolare le dita lungo la guarnizione: uno èirrimediabilmente sparito. Ci deve essere qualche legge fisica che lo trasporta in un'altra dimensione. Da qualche parte nell'universo deve esserci un pianeta abitato da tutti i calzini spaiati che spariscono qui da noi.»
«Ma cosa stai dicendo?» replicò Martina sinceramente confusa. «Quale pianeta?»
«Non farci caso, Martina», si inserì Alejandro, il bavero del cappotto grigio di cachemire alzato a coprire le orecchie, e una coppola abbassata sugli occhi, «sai che Leone è convinto di essere la reincarnazione di Socrate...»
«Socrate... chi è? Ah sì, un calciatore famoso, mi sembra...»
Gli altri scoppiarono a ridere.
«Accidenti, una zanzara!», esclamò Martina. «Ma ci sono già le zanzare in questa stagione?»
«Il riscaldamento globale, ecco i risultati», spiegò Carolina con un tono fatalista.
«Per favore, uccidetela», disse Michele, che era alla guida.
«Ucciderla, poveretta... E perché?» disse Carolina.
«Sapete che non sopporto gli insetti...»
«Guarda che da qui a vent'anni saranno l'unico cibo che ti resterà», disse Carolina.
«... e allora dovrai accontentarti del risotto ai quattro scarafaggi...» disse Leone.
Di nuovo, scoppiarono tutti a ridere, tranne il guidatore.
«Scusate se interrompo questo travolgente momento di ilarità», disse Michele. Indossava un paio di jeans, e una polo tirata all'inverosimile sul petto e sull'addome, che lo faceva assomigliare un po' a una piccola mongolfiera. Una rada barbetta coltivata certosinamente  tentava invano di dargli un'aria di maggiore virilità. «Ma sul cartello che abbiamo appena passato c'era scritto che tra un chilometro c'è un autogrill. Io direi di fermarci.»
«Devi fare pipì?»
«Questo bisogno lo lascio a lor signore. Io devo mangiare.»
«Allora è meglio avvisarli per tempo», disse Alejandro, «devono rifornire i magazzini.»
«Ah ah, molto spiritoso. Ho bisogno di rifocillarmi, oggi sono stato leggero...»
«Il tuo "leggero" è il nostro cenone di Capodanno, più gli avanzi di Natale. Comunque io il Camogli ve lo lascio tutto», disse con una smorfia di disgusto Alejandro.  Estrasse il cellulare - un iPhone X - e consultò velocemente Google. «Ecco», proclamò soddisfatto, «se usciamo alla prossima, a cinque chilometri c'è un ristorante stellato. Conosco anche il cuoco, ha lavorato con Ferran Adrià.»
«E chi è, un commerciante di metallo?» Michele lo ascoltava distratto, mentre scrutava il buio cercando l'indicazione per l'uscita.
«È il più grande cuoco del momento, ha inventato la cucina molecolare,  usa l'azoto.»
«L'azoto? Quello dei palloncini? Non mi sembra che Michele abbia bisogno di gonfiarsi ancora...»
Alla battuta di Nino scoppiarono tutti a ridere, tranne Alejandro.
«Coi tatuaggi sarai bravo, ma come pallone gonfiato vali poco. I palloncini contengono elio, mica azoto.»
«Sentite, io mi fermo, voi fate come volete», annunciò Michele.
Nessuno si oppose. In fondo a tutti faceva piacere sgranchirsi un po' le gambe.
«Ehi, qui c'è un po' di roba tua» disse Nino che stava sistemando le scarpe sul tappetino. Allungò una mano, la infilòsotto il sedile di Michele e raccolse cinque o sei monete. Gliele porse.
«Grazie», rispose Michele contorcendo un braccio per ricevere i soldi senza spostare lo sguardo dalla strada. Poi infilòle monete in tasca.
«Ecco, ci siamo», disse  indicando l'autogrill poco più avanti. «Lo riconoscete?»
Nessuno gli rispose, tranne Leone.  
«Jonathan: è l'autogrill dove voleva sempre fermarsi Jonathan.»
«Giusto. Diceva che la bancarella dei libri aveva sempre dei volumi introvabili, o strani, o vecchissimi.»
«Ma Jonathan non c'è più», osservo Alejandro con una certa durezza. Gli altri piombarono in un silenzio melanconico. Pochi minuti dopo entravano nell'autogrill, in fila indiana come scolaretti alla gita scolastica. Il primo della fila, Michele, fu però costretto a fermarsi bruscamente, e gli altri quasi gli andarono addosso.
«Scusate  signori, un momento, solo un momento...»
Un'addetta alle pulizie - una signora bionda, piuttosto grossa, grembiule blu, fazzoletto in testa, un paio di zoccoli logori - manovrava un grosso spazzolone con le frange grigie. Raccoglieva lo sporco dal pavimento - fazzoletti usati, bustine vuote di zucchero, quei piccoli tovaglioli rettangolari da bar, cicche, fiammiferi usati - spingendolo avanti come un cane pastore manderebbe avanti un gregge di pecore. Si dirigeva verso un grosso sacco nero della spazzatura, pieno per metà, appoggiato a una parete in fondo al locale.
«Ecco, signori, adesso potete passare...»
Michele non se lo fece ripetere. In due secondi era già davanti al bancone illuminato. Al di là del  vetro erano esposti in bell'ordine i panini già pronti, allettanti come prostitute nelle vetrine del quartiere a luci rosse di Amsterdam. In quello accanto, separato da un divisorio, facevano bella mostra di sé alcune torte, una al cioccolato, un profiterole, una chantilly, uno strudel. Michele si sentiva indeciso come un bambino dentro un negozio di giocattoli il giorno del suo compleanno.
La barista, perfetta nella linda uniforme, attendeva impaziente dietro il banco.
«Allora? Avete deciso?»
Michele, sempre più nervoso, stava per aprire bocca, quando Leone lo bloccò.
«Aspetta». Poi dal dispenser appoggiato sul banco prese  un tovagliolino, dalla tasca una penna, e velocemente scrisse poche righe. Infine le consegnò alla cameriera.
«Lo tenga lei, e dopo l'ordine ce lo legga, per cortesia.»
La donna era stupita, ma non disse niente. Michele ormai era in crisi di astinenza da trigliceridi.
«Io una Rustichella, un Apollo e un Icaro.»
«Sei sicuro di non dimenticarti niente?», gli chiese Leone, ma senza cattiveria, con un sorriso dolce.
«Va bene così.»
«Adesso, signora, vuol essere così gentile da leggere il biglietto che le ho dato poco prima?»
La cameriera svolse il tovagliolino e lesse, lentamente:
«Una Rustichella, un Apollo, un Icaro.»
Gli altri gli tributarono un breve applauso.
«Non era difficile», obiettò Michele contrariato, «prendo sempre quelli.»
«Non è vero, e lo sai. Di solito prendi un Camogli, ma sono sicuro che hai notato la mosca - la mosca, sì, signora, mi dispiace ma era proprio una mosca» disse rivolto alla cameriera - «che si era posata proprio sul Camogli. E siccome sappiamo tutti quanto odi gli insetti, ho capito che avresti ripiegato sul panino che più assomiglia a un Camogli. Cioè un Apollo. Giusto?»
Michele scosse le spalle.
«E voi, cosa prendete?» chiese la cameriera.
«Io niente», disse Alejandro. «Questa roba non la mangio. Piuttosto muoio di fame». Girò le spalle, in un gesto di disappunto.
«Tu, Carolina?»
«Gli affettati proprio no, per favore. Ma lo sapete cosa ha detto Berrino? Che è la seconda causa di tumore, dopo lo zucchero bianco.»
«Panino al formaggio?», suggerì la barista.
«Per carità. Lo sa quanto soffrono le mucche quando vengono munte con le macchine? No, no... Non avrebbe per caso del tofu? O, al limite, del seitan?»
«Della seta...?»
«Un'insalata, allora. Quella ce l'avete, no?»
«Certo, signorina. Poi?»
Leone si accontentò di un semplice panino al prosciutto. Toccava a  Martina.
«Non ha del pane senza glutine? La farina di grano fa venire la cellulite...»
«Aspetti che guardo...»
La donna si piegò a scrutare sotto il banco.
«È fortunata, ne è rimasto uno. Con cosa lo desidera?»
«Prosciutto crudo, grazie.»
Rimaneva Nino. Mentre gli altri ordinavano uno dopo l'altro, aveva continuato a scrutare il bancone, muovendosi su e giù per vedere meglio. Quando fu il suo turno indicò un pezzo di focaccia.
«Quella farcita?» domandò la cameriera.
«No, no, quella semplice.»
«Quella da un euro e cinquanta?»
Nino annuì.
«Da bere?»
Leone, Martina e Carolina ordinarono acqua minerale liscia, Alejandro una Perrier, Michele la Coca Cola. Quando fu il turno di Nino si limitò a dire:
«Acqua del rubinetto, grazie.»
Quando tutti furono accontentati, portarono cibo e bevande a un tavolino. Nino si tolse la felpa. Sotto  portava una maglietta con la scritta «Nintendo Weed». Le braccia erano costellate di tatuaggi: uno rappresentava un teschio, un altro una foglia di marijuana, il terzo Bob Marley. Il resto della pelle era inciso con ghirigori vari, alcuni dei quali inintelligibili.
«Sei ancora in quel genere di affari?», gli domandò Carolina. Lui si limitò a sorridere.
Mangiavano in silenzio, lentamente, soprappensiero, tranne Michele che si avventava sui panini, uno dopo l'altro, con una foga smaniosa.
«Alejandro, questa è la tua Perrier».
«Grazie».
Alejandro versò mezza bottiglietta nel bicchiere, poi dalla tasca del cappotto prese un blister di medicine, ne fece sgusciare fuori un confetto e lo buttò giù con un sorso d'acqua.
«Ancora mal di testa?» domandò Leone.
«Il solito... con questo tempo mi esplode...»
«È per via della calotta», spiegò Martina, premurosa. «Con il freddo si restringe e comprime il cervello...»
«Dopo tutti questi anni...»
«Maledetto incidente», borbottò Alejandro. «In certi giorni mi sembra di impazzire.»
Quando ebbero finito - nonostante la quantità di cibo ordinato, come al solito fu Michele a finire per primo - una delle addette in uniforme si avvicinò per portare via i resti - piatti di carta e tovagliolini usati. Per raccogliere le cose piùlontane si piegò sul tavolo, e il bavero del grembiule sfiorò il naso di Leone. Appena se ne fu andata lui propose:
«Qualcuno ha voglia di un dolce?»
Martina fece una smorfia inorridita, Nino e Alejandro sventolarono la mano per dire che no, non interessava, Carolina disse:
«No grazie, ci sarà del burro e magari altri grassi animali.»
Michele invece aderì entusiasticamente.
«Ho visto una chantilly fantastica, ne prendo una fetta. E magari anche quella al cioccolato.»
«Io ti consiglierei lo strudel, invece», disse Leone.
«Perché?»
«Hai visto la cameriera che è venuta qui, poco fa?»
«Certo. E allora?»
«Non hai notato niente?»
«Le puzzavano un po' le ascelle, se vuoi saperlo.»
«Nient'altro?»
«Direi di no.»
«Non hai visto cosa aveva sul bavero del grembiule?»
Michele scosse la testa, disorientato.
«C'erano cinque piccoli bollini, di quelli che appiccicano sulle mele con la marca scritta sopra.»
«E allora?»
«Non capisci? Vuol dire che quella signora oggi, o più probabilmente nel pomeriggio, ha preso una mela per sbucciarla, e prima ha tolto il bollino adesivo. Non sapeva dove metterlo, e se l'è appiccicato sul grembiule. Poi se l'è dimenticato.»
«Ottima deduzione. E allora?»
«Guardati intorno. Vedi qualche mela sbucciata qui in giro? O pensi che la cameriera si sia mangiata cinque mele?»
«Non capisco.»
«Semplice. Le mele servivano a preparare lo strudel, che infatti ha un'aria freschissima. Mentre le altre torte sono sicuramente congelate, e preparate chissà dove. Io prendo lo strudel.»
Dopo un istante di perplessità, Michele si accodò.
«Anch'io.»
«Mi hai fatto venire una voglia...», disse Martina. «E poi in fondo lo strudel è fatto quasi tutto di mele. Dai, una fetta la prendo anche io...»
Ordinarono il dolce.
«Cavoli, avevi ragione. È davvero squisito», commentò Michele che, a ogni buon conto, di fette ne aveva ordinate tre. «Si sente che è freschissimo.»
«Vabbe', se avete finito di ingozzarvi  direi che possiamo andare», propose Alejandro.
Intanto la signora delle pulizie aveva finito di spazzare il pavimento. Raccolse il grande sacco nero della spazzatura, lo chiuse legandolo facendo un nodo alla sommità e lo issò in spalla, dirigendosi verso l'uscita. Doveva pesare molto, perché camminava a fatica. Proprio mentre passava accanto al loro tavolo, inciampò. Cercò di mantenere l'equilibrio lasciando cadere il sacco e allungando le mani in avanti, ma Carolina, con grande prontezza di riflessi, si alzò e la prese al volo prima che cascasse faccia a terra.
«Tutto bene?», le chiese dopo averla aiutata a rimettersi in piedi.
«Bene, grazie... molte grazie signorina... questo sacco è troppo pesante...»
«Aspetti, l'aiuto...»
«Non c'è bisogno. Grazie ancora, davvero...»
La donna uscì. La seguirono con lo sguardo mentre attraversava il piazzale e lasciava cadere il carico nel deposito  della spazzatura, una specie di capanna di legno senza tetto, quattro metri per quattro. La donna rovesciò il sacco sopra quelli che c'erano già e tornò dentro.
«Dai, forza», sollecitò di nuovo Alejandro. «Andate a pagare.»
Si diressero alla cassa. Ognuno pagò per ciò che aveva consumato. Nino pescò  l'euro e cinquanta e si allontanò. Quando toccò a Leone, prese il portafoglio dalla tasca del giaccone. Qualcosa ne scivolò fuori e planò sul pavimento. Michele lo raccolse e diede un'occhiata. Si trattava di una foto. Fuochi artificiali nella notte e una scritta in caratteri maiuscoli, «TI AMO».
«Di chi è, della tua ultima fidanzata?»
Focalizzò un particolare.
«Non credo, è di quattro anni fa...»
Leone, stizzito, gliela strappò quasi di mano e la rinfoderò nel portafoglio.
Toccò a Michele pagare la consumazione. L'impiegata gli chiese: «Ha venti centesimi di moneta, per favore?»
Il ragazzo si cacciò la mano in tasca e frugò per qualche secondo. Poi provò con l'altra. Ma dopo una ricerca di mezzo minuto, si vide costretto ad allargare le braccia.
«Mi dispiace, non li ho...»
«Non riesco a darle il resto», disse la cassiera mostrando il cassetto vuoto.
«Pago col bancomat, non c'è problema.»
Quando tutti ebbero saldato il conto, si diressero insieme verso la macchina. Ognuno si dispose davanti alle portiere, in modo da andare a occupare lo stesso posto che aveva in precedenza. Michele, davanti a quello del guidatore, si frugava freneticamente nelle tasche. Il piazzale del parcheggio era deserto, le macchine sull'autostrada sfrecciavano veloci nella notte lasciando dietro  una scia sonora che moriva lentamente.
«Allora, dobbiamo passare qui tutta la notte?», domandò Alejandro.
«Un momento, non trovo le chiavi...»
Aspettarono ancora un po', mentre Michele perlustrava meticolosamente tutte le tasche dei pantaloni, poi quelle della felpa. Alla fine, sconsolato, allargò le braccia.
«Mi spiace, ragazze, non le trovo...»
«E adesso, che cazzo facciamo?» domandò Alejandro.

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