Complotto

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Era una sera tiepida e le stelle sembravano più vicine del solito. Davsten aveva l'impressione che gli sarebbe bastato allungare la mano per intrappolarne una nel palmo. Intrecciò le dita e lasciò la mani a penzoloni oltre il parapetto, lo sguardo che spaziava sulla città ancora sveglia. Come lucciole stanche, le luci che punteggiavano le strade svanivano e riapparivano quasi a intermittenza, muovendosi nelle vie e nei vicoli più stretti e labirintici. Da lontano, le note di una musica allegra di un'orchestra cavalcavano il venticello vespertino, spazzando i viali alberati e innalzando un ventaglio di petali e foglie verdi.
"La primavera è arrivata in anticipo, quest'anno."
Si era alzato presto quella mattina, molto prima del solito. Iola giaceva ancora addormentata accanto a lui. L'aveva guardata per un po' e poi le aveva schioccato un delicato bacio sulle labbra, prima di coprirle le spalle nude con le lenzuola. Sulla soglia, l'aveva ammirata una volta di più, indeciso se svegliarla o meno. Le occhiaie e i segni del pianto lo avevano fatto desistere, risvegliando il dolore che la sera precedente non gli aveva dato requie.
Strinse forte il pugno e prese tra le dita un bocciolo di glicine. La luna inargentava la corolla ancora chiusa e ne tratteggiava il profilo che quasi spariva nella sua mano. Il profumo, intenso e delicato quanto quello dei gelsomini, si spandeva dal suo palmo e gli sfiorava le narici come la carezza di un bambino. Erano sbocciati presto, come i fiori nella Via dei Re. Tutta la capitale aveva accolto la primavera e si era trasformata in un tripudio di colori. Quando beveva troppo, Idwal diceva che Sershet era come la sua regina: bella, vanitosa ed egocentrica.
- Ma, soprattutto, una gran puttana. - aggiungeva con una grassa risata e si riempiva nuovamente il boccale. - Forse è meglio che sia morta. Non avrebbe potuto sopportare di vivere in una città così ingrata e capricciosa. -
Davsten annuiva e brindava con lui. Ad Airis, che la sua anima riposi in pace nel Val'ha, si dicevano. Che Ovenar l'abbia in gloria, che le mani di Darmehana le rendano la vista che perse in vita. Idwal buttava giù l'idromele in un sorso solo, per poi riempirlo di nuovo e prendere il boccale vuoto di Davsten. Lo facevano spesso, quando erano nell'esercito e l'alcol scarseggiava. In qualche modo si doveva pur brindare, no? Anche adesso che si erano lasciati alle spalle i campi di battaglia perseveravano nell'abitudine.
"Certi vizi sono proprio duri a morire."
Abbandonò il grappolo di glicini e rientrò in casa. Il caminetto era spento ed era stato ripulito di recente dagli ultimi residui di cenere. Quell'inverno il tempo era stato piuttosto mite, se possibile più caldo degli anni precedenti, e non avevano dovuto accenderlo spesso. Iola aveva comunque insistito per mettere a posto tutto, lavando e lustrando anche i servizi di piatti, quelli che imbandivano la tavola nelle occasioni più importanti, nonostante non ci fosse un reale bisogno. Davsten non glielo aveva impedito, così come non si era opposto quando Iola gli aveva chiesto di poter ordinare i glicini che coronavano il balcone e il porticato del giardino interno. Era lei stessa a occuparsene, ogni mattina. Li potava, controllava che non avessero parassiti e sistemava i rami di sostegno. Spesso, Davsten l'aveva sorpresa mentre sedeva sotto gli archi del gazebo e fissava i fiori, con Lorcan che si divertiva a giocare con le ciocche sfuggite alla costrizione delle forcine. Alcune strie bianche ingrigivano la sua chioma nera e le rughe sul viso erano più profonde, dei solchi che apparivano quando corrugava le sopracciglia o stringeva le palpebre per ricacciare indietro le lacrime, talvolta anche permanendo come ombre scure la pelle increspata.
- I glicini simboleggiano l'immortalità. - gli aveva spiegato indicando uno stelo e col dito ne aveva seguito l'avvilupparsi fino al tetto aperto del gazebo, - Fijit mi aveva detto che nelle loro corolle si nascondono le anime in attesa del tempo in cui potranno andare nel Val'ha. Durante il solstizio d'estate fioriscono e lasciano che le anime prendano il loro posto al di là del cielo e brillino attraverso di esso. Ogni stella non è altro che un'apertura tramite cui i nostri cari ci fanno sapere che sono felici e che stanno bene. - si era asciugata una lacrima e aveva lasciato che Lorcan si appropriasse del suo mignolo con un sorriso malinconico, sottile come la linea di matita sotto gli occhi, - Vorrei che Caillean restasse a dormire tra i petali. Sono un'egoista a sperare che decida di rimanere in questo giardino? -
Davsten non aveva saputo cosa risponderle.
Attraversò il salotto, prese il mantello dall'appendiabiti nell'atrio e uscì. Sulla strada principale il via vai continuava, imperterrito. Le bancarelle si erano assiepate sul marciapiedi in cocciopesto realizzati di recente e i loro venditori richiamavano i curiosi, esponendo la mercanzia con voce tonante, talvolta prendendola in mano perché anche i clienti più lontani potessero vederla. Sul lato destro, i tavoli della "Tavola del Cavaliere" e "Il cuore della regina" erano ancora occupati da commensali alticci, che si divertivano a scambiarsi battute sulle loro conoscenze. Ve ne erano altri, più lontani e meno rumorosi, che invece discutevano a bassa voce, tenendo sott'occhio le guardie che pattugliavano la strada. Nell'aria festosa e allegra, i loro sguardi erano come un vento freddo in una sera afosa. Davsten li guardò appena, senza troppo interesse, e poi allungò il passo finché non se li lasciò alle spalle.
Passando di fianco al forno della vecchia Catrin, si bloccò. Era chiuso a quell'ora, eppure l'odore fragrante del pane appena sfornato permeava l'aria. Davsten salì sul marciapiede e si fermò davanti alla porta, al di là della quale pendeva un campanellino. Di giorno trillava sempre, annunciando l'entrata di un nuovo cliente, di mattina presto e soprattutto nell'ultima ora prima della chiusura, quando i contadini e gli ultimi mercanti si affannavano per accaparrarsi le ultime pagnotte.
Quella traccia di profumo diede una consistenza reale alla Airis nella sua memoria. Nei primi tempi alla capitale, si fermava spesso lì davanti, catturata dal profumo dei dolci appena fatti. Non le piacevano granché, aveva sempre preferito le focacce salate o alle olive, però l'aroma delle spezie e dei semi di cardamomo le piaceva così tanto da farle rallentare il passo. Si fermava proprio lì, davanti alla porta, anche solo per qualche secondo e poi gli correva dietro, se lui non aveva fatto lo stesso.
Davsten inspirò l'aria tra i denti, la trasse a sé in un sibilo rumoroso.
"Non è qui." si disse, ma indugiò ancora prima di riprendere a camminare con un'andatura più spedita. Girando le spalle a quel ricordo, sperava che sarebbe rimasto lì, incatenato alla labile scia di quel profumo, anche se tutta la strada era un affresco di momenti passati assieme che gli scorrevano davanti agli occhi, una mostra senza fine di contingenze e frammenti d'esistenza prima sbiaditi e poi restaurati dal dolore nelle loro tinte più accese.
Alzò la testa e soffermò lo sguardo su ogni tratto di strada che ne racchiudeva qualcuno. Come un'edera, la memoria si sostenne ai muri delle case, ai tetti e inghiottì anche i comignoli, avvolgendoli in un sudario di nostalgia. Ovunque andasse con gli occhi, rimetteva insieme cocci di ricordi che nemmeno sapeva di conservare, rimasugli di parole dette e poi dimenticate perché poco importanti o così ovvie da non meritare un posto nel suo corridoio consapevole, quello illuminato dalla volontà razionale del ricordare. E anche se quelle briciole non colmavano il vuoto che aveva al posto del cuore, Davsten le raccoglieva tutte, anche le più piccole e senza valore.
Giunse alla fine della strada e imboccò un vicolo che si snodava tra le case, con i balconi che aggettavano su di esso con i loro fiori e le loro barocche architetture. Sfilavano ai suoi fianchi, profilandosi nel cielo con le loro linee curve e sinuose che si arrotolavano in ellissi e spirali sugli stucchi, e i marmi preziosi che decoravano la facciata degli avancorpi e delle colonne giganti. Persino quella zona della città, una delle più tranquille e periferiche rispetto al centro, era stata investita dall'ondata innovativa dello Stile dei Draghi. Tutto doveva essere costruito per stupire, togliere il fiato e attirare l'attenzione di chiunque, non solo dei pellegrini: Sershet doveva essere una città ammaliante, rivestita dei marmi più splendidi, ingioiellata con eleganza dai suoi architetti e dai suoi pittori; così bella da spiccare tra tutte le altre come un diamante in mezzo a un mare di zirconi. La città dei re. Una nomea e un'aura di regalità che tutti i suoi sovrani si erano premurati di cucirle addosso.
Eppure, bastava una semplice pioggia perché la regina delle sabbie rivelasse il suo vero volto. Senza il trucco e il sole che ne impomatava la facciata, Sershet diventava caotica, sgraziata, scevra di ogni suo colore.
"Pacchiana."
Si calcò il cappuccio in testa e girò a sinistra. Un carro trainato da buoi rallentava il traffico sulla strada. L'uomo sulla cassetta sferzava gli animali e inveiva contro di loro, nella speranza che questi aumentassero il passo, mentre gli uomini che lo scortavano osservavano impassibili la scena. I capelli neri erano tutti legati in una bassa coda e indossavano delle semplici armature di cuoio senza insegne.
Davsten li riconobbe subito: Ajgara. Da quando Voren aveva ufficializzato la sua unione con Wecilia Mallus, ne erano arrivati sempre più, dapprima presi al soldo del re come sua guardia personale, in seguito assunti dai mercanti più abbienti e facoltosi che potevano permettersi il lusso di pagare quei guerrieri provenienti dalla Dracea nord-occidentale.
Davsten passò accanto a una donna con gli occhi allungati, sottolineati da un pesante trucco nero, e una cicatrice all'angolo piegata verso l'alto come in un sorriso macabro. Non lo guardò nemmeno, rimanendo ferma a fissare il suo committente imprecare contro un suo servo, che, a sua detta, lo pagava per nulla, se non era in grado di far muovere quei maledetti buoi.
Sul fondo della via Eryr si era creato un ingorgo di carri e un'accesa discussione tra un sedicente mercante di spezie e una guardia che aveva preteso di controllare il carico. Erano intervenuti anche altri, compresi due soldati, ma le loro esortazioni a mantenere la calma e a regolare i toni non erano state accolte. Se non fosse stato per un giovane che si era mantenuto nelle retrovie durante la discussione, Davsten sarebbe potuto passare indisturbato, senza che nessuno se ne accorgesse.
Oltre la porta, la strada proseguiva dritta e, salvo i soliti curiosi che facevano capannello per vedere cosa stesse succedendo, l'atmosfera tesa si ammorbidiva e la tensione si rarefaceva fino a sparire. Da quella prospettiva, Davsten poteva scorgere la testa dell'Aquila, l'enorme statua che sorvegliava i dintorni al di fuori delle mura più esterne della città. Le piume che dipartivano dall'elmo si aprivano in un paio di ali aggraziate e il cimiero scendeva oltre la gronda. Anche se non riusciva a vederne che una parte, Davsten aveva ben impressi nella mente tutti i dettagli di quella statua: era sempre lei a dargli il benvenuto ogni volta che tornava in città, quando la guerra si era spostata verso sud, contro gli elfi di Sheelwood.
Percorse la via per un tratto e poi svoltò in una strada che digradava verso il basso. Le case pian piano diminuirono fino a sparire in agglomerati di costruzioni molto alte, bambini zoppi e senza grazia a confronto con quelle che proliferavano nei quartieri più ricchi. Inondate dalla luce della luna, l'intrico di passerelle, grondaie pericolanti e fili con i vestiti stesi ad asciugare appariva come una sottile maglia d'argento senza più il suo ciondolo.
C'erano poche persone in giro a quell'ora, soprattutto in quell'area della città. Davsten intravide qualche mendicante aggirarsi per la strada e poi svanire in una taverna senza insegne, incuneata tra due palazzine a due piani. La musica che lo aveva affiancato fino a lì si era trasformata in una eco indefinita e lontana, che risuonava come un sottofondo d'accompagnamento agli attutiti rumori della sera. Il vento che stormiva tra gli alberi era un sussurro che produceva una nenia frusciante, così bassa da risultare quasi inudibile.
Davsten osservò il viale alberato che conduceva al tempio di Yggrasil e di Laeyr in fondo alla strada. Erano due costruzioni austere, senza statue od orpelli di sorta, in netto contrasto con lo splendore della città. Semplici templi bianchi, come le vesti dei loro abitanti, come il volto dei morti. A quell'ora i sacerdoti giià dormivano, ma le candele all'interno rimanevano sempre accese e davano vita a un gioco di luci che si rifletteva sulle vetrate smaltate. La natura stessa si inchinava al silenzio di quelle sale di eterno riposo.
Davsten trasse un profondo respiro. Si abbassò il cappuccio per mostrare il viso alle due guardie ai lati del cancello e poi procedette spedito.
Frassini dai rami spogli e nodosi, simbolo di Yggrasil, scandivano tombe equidistanti le une dalle altre. Molte recavano ai propri piedi dei fiori appena posati, ancora freschi e colorati, così vividi in quella marea di bianco da essere accecanti pure nella penombra. A essi si intervallavano tombe senza lapide, con solo un vaso sbrecciato contenente una o due margherite o oggetti di poco valore, come un semplice martello o un ferro di cavallo, appoggiati direttamente sulla terra battuta. Nella zona più povera, dove venivano seppelliti i corpi senza nome, c'era solo quella, ettari ed ettari di nulla che si approfondivano nella notte: se Davsten avesse dovuto rappresentare il dolore dell'assenza, sarebbe stata una voragine liscia di terra appena smossa.
Si lasciò alle spalle una basilica sormontata da una cupola appartenente alla famiglia Valakas, con lo stemma della testa del leone dorato in campo rosso che spiccava sulla facciata e un'altra, più piccola ma non meno modesta, con la losanga del lupo dei Fellmoor incastonata proprio sotto il rosone. Tutte le dodici famiglie nobiliari avevano delle cripte di famiglia e, quelle i cui membri facevano parte del Consiglio, si erano fatte erigere, negli anni, templi sempre più monumentali e stupefacenti.
"Come se la morte potesse essere abbellita."
C'era stato un tempo in cui aveva pensato che la morte andasse glorificata, che fosse un'onta non celebrare la dipartita di un uomo che aveva combattuto al suo fianco. Poi la guerra aveva preteso il suo tributo di sangue e Davsten aveva visto cos'era davvero la tanto acclamata morte per la patria: era visceri, acido e materia cerebrale sul terreno; era setticemia, vomito e febbre nel campo. Non c'era niente di eroico nella morte in sé, quanto nelle cause efficienti che a essa conducevano. Aveva partecipato ai funerali dei propri superiori e, in seguito, di molti dei suoi soldati, rimboccando lo stendardo sulle loro bare quando richiesto. Le perdite erano state una costante della sua vita, le aveva subite e le aveva accettate come suo dovere di soldato. Perché quello comportava il suo ruolo: perdere pochi affinché molti vincessero. Nessuno, però, lo aveva preparato a quel dolore.
Si appropinquò a un tempietto in pietra calcarea anonimo, con una porticina di legno rinforzata e un tetto spiovente. Lo stemma della sua famiglia, uno scudo con una torcia nel centro, capeggiava sopra la soglia, sovrastato da una pergamena su cui era stato inciso il motto dell'Ordine del Lupo.

La spada della giustizia contro le Tenebre dell'oppressione.

Davsten sfilò la chiave dalla tasca e accostò la porta alle sue spalle. Le scale si inoltravano nella semioscurità, illuminata dalle torce appese al muro. Ne accese una e la staccò per farsi luce mentre scendeva.
La cripta era umida e fredda, anche se meno lugubre del giorno precedente. L'altare sul fondo era stato spolverato e anche il pavimento lì attorno era stato ripulito. Sopravvivevano solo alcune macchie nere che nemmeno l'olio di gomito avrebbe potuto rimuovere. Le bare languivano in piccole nicchie scavate nel muro, ognuna con sopra drappeggiata la bandiera della capitale. Davsten si prese un po' di tempo per osservarle, prima di dirigersi a grandi passi verso l'ultima, quella che davvero gli interessava.
Era uguale a quelle di tutti i suoi antenati, all'apparenza. Non c'erano decorazioni all'esterno, se non lo stemma di famiglia e, sotto, il nome e i titoli conquistati. Non una frase di commiato, non un epitaffio, nulla. Davsten però l'avrebbe riconosciuta tra mille.
Si portò sul lato e poi ripiegò la bandiera fino a metà. Al di là del vetro, Airis sembrava dormire. Se non fosse stato per le dita intrecciate sull'impugnatura della spada e il viso cereo, immobile, Davsten avrebbe anche potuto crederci. Ma la magia poteva solo sottrarre il corpo all'azione erosiva del tempo.
Poggiò la mano sopra la sua guancia e rimase lì, a fissarla. Non aveva pianto quando Felther gli aveva comunicato che era morta, già lo sospettava da tempo, eppure non si era mai soffermato abbastanza per permettere a quel pensiero di radicarsi in lui. Era stato accanto a Iola, l'aveva sostenuta prima e dopo il funerale. Non poteva crollare, se l'era ripetuto finché quelle parole non gli si erano impiantate dentro, diventando esse stesse la propria roccia, le stampelle che gli permettevano di continuare a camminare, parlare, mantenere la lucidità necessaria a mandare avanti la casa e gli affari. Più la guardava, però, più le lacrime defluivano dagli occhi in quel gorgo che gli aveva squarciato il cuore, che si allargava sempre di più, giorno dopo giorno. Se avesse potuto aprirsi il petto, ne era certo, avrebbe trovato un muscolo sfregiato e mangiato dai vermi.
- I genitori non dovrebbero sopravvivere ai loro figli. - mormorò e strinse la mano a pugno, - Mi dispiace, Airis. -
- È stata una grande perdita. -
Davsten trasse un profondo respiro per trattenere la rabbia.
- Una giovane davvero promettente. Ha portato alto il vostro cognome, capitano. -
Non rispose. Si limitò a girarsi e a incrociare lo sguardo della donna incappucciata che aveva parlato. C'erano altri due uomini al suo fianco, entrambi con il volto coperto, ma Davsten sapeva già chi erano.
- Siete venuti qui anche voi per pregare per mia figlia, Consiglieri? Quale grande onore. -
- Anche. Non ho avuto modo di partecipare al funerale e tu sei stato molto sfuggente in questi ultimi tempi. -
Kitiara Azlan si tolse il cappuccio e si passò una mano tra i capelli per ridare volume alle ciocche schiacciate. La palpebra sotto era truccata con un filo di matita azzurra, che sottolineava le iridi verdi e distoglieva l'attenzione dalle rughe agli angoli della bocca e dalla fossetta sul mento. Una forcina d'oro con un giglio perlaceo teneva la frangia in ordine, piegandola proprio al di sopra dell'orecchio.
Dopo una breve esitazione, anche Gavyn Erdarwell e Ynyr Fellmoor fecero lo stesso.
Davsten li scrutò imperturbabile, finché la donna non si avvicinò. Senza dire nulla, si spostò, dandole modo di vedere il viso di Airis.
- Le bruciature intorno agli occhi non hanno mai deturpato la sua bellezza. - commentò Ynyr.
Davsten non rispose. La figlia di Kitiara era bassa di statura, aveva lunghi capelli biondi che incorniciavano un viso grazioso, senza alcuna imperfezione se non un piccolo neo al lato della bocca. Era stata la prima pretendente di Sejrel e, anche dopo il mancato matrimonio, ne aveva avuti molti altri, prima di convolare a nozze. Airis, invece, era alta, molto più delle ragazze nobili e di molti rampolli. Aveva le mani screpolate e i palmi induriti dai calli, il viso squadrato, screziato da una pazzia di lentiggini che le coprivano anche le spalle. Non aveva mai avuto pretendenti, né prima né dopo che aveva fatto carriera nell'esercito.
- La bellezza non è un valore importante per un soldato. -
- Ma Airis era la vostra unica discendente. Prima o poi si sarebbe dovuta sposare per continuare la vostra genia. - sospirò il Consigliere Gavyn, - Sarebbe stato fortunato l'uomo che l'avesse presa in sposa: avrebbe avuto al suo fianco una donna forte, determinata e sagace. Delle caratteristiche rare, oggi giorno. -
Davsten annuì e poi spostò l'attenzione su Kitiara. Aveva appoggiato la mano sul vetro, esattamente sull'alone che aveva lasciato la sua, e rimaneva in religioso silenzio a guardare il viso di Airis. Anche Gavyn non aveva più aperto bocca e si limitava a tenere le dita intrecciate in grembo e il capo basso. Le labbra si muovevano piano, articolando i versi muti di una preghiera.
- So già cosa volete e vi ho già dato la mia risposta. Non mi interessa entrare in questa faida politica. - sibilò infine Davsten, incapace di reggere ancora la tensione.
- Dovrebbe. È stata Wecilia a cominciare questa guerra ed è a causa della sua stolidità che tua figlia è morta. - lo fronteggiò Gavyn.
- Airis è morta perché era un soldato. Ha compiuto il suo dovere al meglio e, alla fine, è salita sulla barca di Uborh, come tanti altri prima di lei. - calcò su quell'ultima parte e lasciò che la sua voce si facesse foriera della sua rabbia e del suo disprezzo, - Voi, Consigliere, dovreste comprenderlo, persino più di me. -
Gavyn chiuse le labbra in una linea sottile che sembrava quasi scolpita nel volto scavato. Era un uomo dalla carnagione dorata e dalla figura scarna, come tutti i Fellmoor. Suo figlio era sepolto in una cripta poco lontana. Era morto che non aveva ancora compiuto il suo diciottesimo anno di vita, trafitto da una freccia durante un'imboscata a Sheelwood.
- Non sarà la vendetta a riportare indietro i nostri figli. - riprese tagliente Davsten, - Niente e nessuno ce li potrà ridare. -
- Questo è vero. Molti sono morti, ma non possiamo permettere che altre vite vengano seppellite per la pazzia di una regina. - Kitiara prese la parola, gli occhi accesi da una luce feroce, così sinceri da essere disarmanti, - Dobbiamo fermarci, Davsten, dobbiamo porre fine a questo conflitto, che dura ormai da troppo tempo. Tu puoi far sì che ciò accada. -
- Non siamo gli unici a essere scontenti della scelta del re. Anche la tenacia dei nani sta languendo e Balor stesso sta pensando di ritirare il suo supporto militare dalle nostre truppe. - si accodò Gavyn, - Col tuo aiuto e la tua esperienza dalla nostra parte, potremmo ripristinare il giusto ordine delle cose e mettere sul trono un uomo degno, disposto a servire e a sacrificarsi per il popolo. -
- È una bella espressione questa, per dire che volete eliminare la regina. -
Tutti si congelarono a quelle parole, tranne Kitiara.
- Abbiamo l'appoggio di Balor e di molte famiglie nobili di Lèdomoda e Plurgia. Abbiamo già stretto accordi con i capitani delle loro truppe, quelle che la regina stessa ha richiesto per ricostituire i ranghi del nostro esercito. Né i Wias né gli Zagaloth ci aiuteranno nella riuscita del piano, ma non ci ostacoleranno nemmeno. I rischi sono minimi. -
- Non ho intenzione di assassinare la regina durante la messa in memoria dei caduti. - ringhiò Davsten.
Gavyn e Ynyr strabuzzarono gli occhi e li appuntarono, disorientati, su Kitara.
- Non ho intenzione di macchiarmi le mani con lo stesso sangue che ho giurato di proteggere. - continuò imperterrito, - Sono un Cavaliere e ho giurato davanti agli dei che avrei protetto la stirpe regale finché avessi avuto fiato in corpo. -
- Ma avete anche giurato che avreste protetto il popolo. Il vostro stesso detto mette in risalto il vostro ruolo di campioni della gente comune. E ora loro, là fuori, hanno bisogno di voi e della vostra determinazione. - lo rimbeccò Kitara, - Sapete meglio di me quanto questa guerra ci sia costata e la regina vuole comunque continuarla, anche se ciò implica il tributo di centinaia di migliaia di vite. Se lei non ha intenzione di finirla, è giusto che qualcuno la fermi. -
- Arrivare a questo punto... credevo che l'avremmo destituita e basta. - mormorò a bocca asciutta Ynyr.
Gavyn si umettò le labbra un paio di volte prima di parlare. Nella luce fredda, le rughe sul suo viso risaltavano in una ragnatela che si approfondiva sulla fronte e ai lati degli occhi. Era più vecchio in quella cripta, l'impronta del tempo sul suo corpo così evidente che nemmeno le spalle ancora muscolose e il collo nerboruto avrebbero potuto dissimularla.
- Non c'è altra scelta. - ripeté, più convinto, - È l'unico modo per assicurarci che non costituirà mai più una minaccia. -
- Non possiamo permetterci pietà. Abbiamo parlato e discusso a lungo, e rinviato anche quando ne avremmo avuto occasione. Basta sentimentalismi, basta inibizioni. Gli occhi degli dei saranno puntati su di noi, ma, sono certa, se è vero quello che millantano i sacerdoti, allora Yggrasil perdonerà e ci accoglierà comunque nell'Elwing Telperiën. - commentò cupa Kitiara, guardando in faccia sia Ynyr che Gavyn, - Abbiamo designato voi, Davsten Lullabyon, per questo incarico perché siete un veterano e tutti a Sershet vi conoscono e vi ammirano. La vostra famiglia ha conquistato il cavalierato grazie al coraggio e alle azioni che hanno contraddistinto i vostri antenati, fino a voi. La vostra fama vi precede e anche l'ultimo dei mendicanti conosce la vostra storia. Se sentissero che siete stato voi, e non un sicario qualsiasi, a calare la lama sul collo di Wecilia Mallus, tutti si schiererebbero dalla nostra parte. Non ci sarebbe quasi nessuna resistenza, i disordini sarebbero contenuti e le truppe entrerebbero in città e occuperebbero il castello senza colpo ferire. -
Davsten fece un passo in avanti, finché ci fu una distanza di mezzo braccio tra lui e la Consigliera. La superava di una spanna, eppure la donna non era intimorita. Lo fissava risoluta, forte della sua rabbia e del suo odio.
- Allora dovrete cercarvi un buon assassino. - replicò asciutto, diretto come una freccia contro un bersaglio immobile, - Per quanto odio possa provare per quello che è accaduto e per quello che sta accadendo, questa non è la mia battaglia. Non infrangerò un giuramento solo perché, adesso, non ha più valore. Se mia figlia fosse viva, non riuscirebbe più a guardarmi in faccia e, se per questo, nemmeno io. -
Guardò dapprima Gavyn e Ynyr e poi tornò su Kitiara: era lei la mente che aveva macchinato tutto, il burattinaio che tirava le fila del complotto. Fronteggiò il suo sussiegoso silenzio a viso aperto, incurante nel giudizio nelle labbra assottigliate e nei muscoli scanalati del collo come cordoni di un galeone in tempesta.
- Non vi tradirò, ma non voglio essere coinvolto. Lasciate stare me e state lontani dalla mia famiglia. Non fermate i miei servitori, non mandatemi messaggeri, non invitatemi alle vostre cene, non cercate il mio sguardo nelle occasioni in cui le circostanze ci faranno incontrare. Portate avanti la vostra crociata da soli, con i vostri alleati. Sono sicuro che troverete facilmente qualcuno disposto a versare il sangue della regina, ma non sarò io il vostro braccio armato. -
La donna non rispose subito, ma Davsten poteva capire dalla postura rigida delle spalle che la sua risposta l'aveva contrariata. Il respiro di Gavyn e Ynyr raspava il silenzio della cripta.
- Non c'è nessuna somma di denaro o promessa di terre che potrebbe farvi cambiare idea, immagino. -
- Conoscete già la risposta. -
- Allora non abbiamo più nulla da dirci. - concluse, si rimise il cappuccio e fece cenno ai Consiglieri di seguirla.
Nessuno dei due se lo fece ripetere. Salirono le scale, Davsten con loro. Li seguì con gli occhi finché non li vide sparire in lontananza, sotto la pioggia che inumidiva e rinfrescava l'aria al di fuori della cripta. Attese che il ticchettio delle gocce sopraffacesse il rumore dei loro passi, prima di rientrare nella cripta. Si fermò sulla soglia e si appoggiò alla porta. Quando Idwal era ubriaco diceva spesso che i giuramenti sono la tomba della volontà.
- Onora il re, e onori il re. Difendi il popolo, e difendi il popolo. Ma quando per difendere il popolo devi disonorare il tuo re? Quando, per compiere gli ordini del tuo re, devi rivolgere la spada contro la tua stessa gente? - si era pulito la bocca dalla schiuma e poi aveva inclinato la testa a destra e a sinistra, squadrando il boccale con un sorriso da faina, - È proprio vero, amico mio: i giuramenti, come le promesse, sono fatti per essere infranti. -
Davsten prese la chiave dalla tasca e la girò nella toppa per tutte e tre le mandate. Fuori la pioggia si era trasformata in un burrascoso temporale, poteva sentirne la forza attraverso il rimbombo delle gocce sul terreno. Rimase ancora un momento a fissare al di sopra dello stipite della porta, all'altezza dove sapeva esserci il motto dei Cavalieri del Lupo.

Giammai noi attaccheremo per primi.
Giammai provocheremo per primi.
Il nostro cuore conoscerà solo la virtù.
La nostra spada abbatterà il Male.
Il nostro scudo difenderà i deboli.
Come un sol corpo, noi combatteremo.
Non indietreggeremo di un solo passo, finché avremo fiato.
Davanti alle tenebre, ci ergeremo sui corpi dei nostri nemici.
Chiunque rinnegherà questo giuramento, sarà per noi e per gli dei un rinnegato.
Nessun riposo, per noi.

- Tutto per la gloria del popolo e del re. - pronunciò ad alta voce l'ultimo verso del giuramento.
Sospirò e scese di nuovo le scale. Per la prima volta in vita sua, Davsten non sapeva se avesse preso la giusta decisione.  

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⏰ Last updated: Mar 05, 2018 ⏰

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Fuoco nelle Tenebre  - La rinascita della FiammaWhere stories live. Discover now