14. Rabbia.

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Quarto giorno

Quel pomeriggio provai a ricercare altri rifugiati sfogliando i libri autobiografici del vecchio Jeff, nella vana speranza di ricavare qualche nome che avesse potuto essermi d'aiuto. La maggior parte di loro erano inservienti, addetti al servizio mensa o infermeria. Non avevano grossi privilegi, proprio come Jeff.

Nell'esatto momento in cui richiusi il volume cinquantadue, il mio stomaco iniziò a brontolare. Era forse troppo tempo che non mangiavo e magari avrei potuto ricavare le informazione unendo l'utile al dilettevole, mentre mi veniva servita la cena.

Come era successo per la giornata precedente ero rimasta nuovamente da sola nell'immensa biblioteca senza neanche accorgermene. Camminai per qualche centinaio di metri, seguendo la folla fino a un corridoio più nascosto. Era la prima volta che riuscivo a varcare i pilastri dell'ala est.

Kit si era preso cura di me, assicurandosi sempre di avere un vassoio da lasciarmi dietro la porta della camera.

Ma non ce ne sarebbe stato più bisogno: avrei badato a me stessa d'ora in poi. Ciò che mi si prospettò davanti aveva qualcosa di surreale. L'aria della mensa era suddivisa in quadranti cui facevano capo diverse cucine dotate di elettrodomestici lontani dalla mia portata.

C'erano almeno mille posti a sedere e troppi, davvero tanti, ragazzi della mia età. Lasciai che tutti mi passassero accanto, mentre osservavo cautamente gli addetti ai lavori nel quadrante più vicino. La sala aveva un aspetto così sterile e asettico. Le pareti, il soffitto e il pavimento risplendevano di luce propria donando la sensazione di essere infinita.

Gli addetti al servizio indossavano divise fulgide e uniformemente larghe, mentre i più giovani colorarono quell'ambiente con le proprie tute variopinte.

D'insegnanti, o membri del Consiglio, non sembrava esserci traccia, anche se per un attimo mi sembrò di intravedere la testa bionda di Sander Bloom. Che cenassero nelle proprie stanze? Troppo occupati nell'intrallazzare con i pezzi grossi.

Quando qualcuno mi urtò, venni sospinta in avanti facendomi perdere l'equilibrio. Un contatto che mi fece perdere il nesso dei miei pensieri e la lucidità mentale. Fu solo allora che mi resi conto come quei giorni li avevo passati chiusa in me stessa, facendomi divorare dalla rabbia e dall'odio che avevo iniziato a covare da quando ero stata separata dalla mia famiglia.

«Non intralciare la mia strada, ragazzina!» esultò quello strano individuo con un sorrisino strafottente sul volto. Si guadagnò occhiate di ammirazione da parte di tutto il branche che procedeva scandendo il passo del loro capo. Io, d'altro canto, scossi la capo inebetita prima di comprendere alla perfezione che quello non era certamente un consiglio, quanto più un avvertimento.

Il ragazzo dalle spalle larghe riprese a camminare, ignorando qualsiasi cosa avessi potuto dire di rimando. Serrai i pugni imponendo a me stessa di andare avanti a testa alta, superarlo e fargli passare la voglia di deridermi. Avrei fatto vedere a quella testa rasata che non ci si comportava in quel modo meschino!

Non feci in tempo a mettere in atto il mio piano che venni sollevata in aria, afferratami dalla vita. Voltai il capo per accusare il colpevole di alto tradimento, ma quando lo vidi la lingua mi si attorcigliò.

«Ehi, tigre, così ci si saluta? Non scalciare!» James mi stava trasportando come una bambina capricciosa senza lasciarmi modo di controbattere. Le sue forti braccia mi tenevano ancorata al suo petto e i miei arti non avevano piena libertà di movimento.

«Lasciami andare, devo... Devo...» Mi resi conto che stavo esagerando. Placai i miei muscoli lasciando che il calore fornitomi da James si diffondesse in ogni cellula del mio corpo. Toccai terra con i piedi solo quando giungemmo al tavolo riservato alla squadra alpha.

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